“È giunta l’ora che gli incubi provino paura”, recita la quarta di copertina di Oneira, il manga fantasy scritto da Cab e disegnato da Federica Di Meo, ora presentato a Lucca Comics&Games ed edito da Star Comics.
Di Meo, classe 1983, è una mangaka professionista, con all’attivo collaborazioni sia in Italia che all’estero, principalmente nel mercato francese, ma con la “tecnica manga” giapponese. Un mercato, quello dei manga europei, che adesso è molto florido, ma che all’inizio degli anni 2000 semplicemente non esisteva, con la credenza – ha raccontato a The Hollywood Reporter Roma – che non si potesse vivere di manga fuori dal Giappone.
“C’era questa credenza che se fai fumetto in Italia lo devi fare di stampo Bonelli, perché il fumetto italiano è questo”, ha spiegato Di Meo, “ma noi abbiamo rivendicato il nostro diritto di disegnare ciò che volevamo, senza confini”.
Capelli lunghi e scuri, occhiali e il sorriso stampato sul viso, Di Meo oltre a scrivere storie e pubblicare i suoi lavori, insegna anche la tecnica manga, che ci spiega essere l’approccio narrativo: “La chiamiamo anche Kishotenketsu, cioè la narrativa giapponese, divisa in quattro atti piuttosto che in tre”. “Inizio, svolgimento, fine, e poi si ribalta il punto di vista”.
Come nasce la sua passione per i manga?
Facevo le medie, avevo 12 anni. Ero grande appassionata dell’animazione giapponese. Su Telemontecarlo vennero fuori i primi episodi non censurati di Ranma ½ e mi sono innamorata dei suoi personaggi. Ma non sapevo esistessero i manga. Una mia compagna di classe mi portò una volta un volume del manga di Ranma ½, dicendomi: “L’ho visto in un edicola e ho pensato a te”.
Da allora abbiamo iniziato a prestarci i fumetti, poi lei me ne restituì uno tutto colorato con i pennarelli. E da allora è finita l’amicizia (ride).
E da lì ha cominciato a disegnare i manga?
All’inizio ricalcavo le immagini di Ranma ½, non mi sentivo in grado anche solo di ricopiare i disegni di Rumiko Takahashi. Per rispetto a lei ho cominciato a ricalcare con carta da lucido, e mi dicevo: “Quando poi sentirò di fare qualcosa di carino, lo farò, ma per ora non mi permetto”. E adesso disegno manga per lavoro.
Se non sbaglio ha studiato anche in Giappone.
Sono andata in Giappone nel 2009 per fare un corso di verifica. Dalle superiori, che disegnavo per i miei amici, fino alla fine dell’università di Beni Culturali e Storia dell’arte, non ho più disegnato. Non pensavo di poter fare questo lavoro, era il 2003. Non c’erano artisti che disegnavano manga di lavoro in Italia. Anzi, nelle scuole di fumetto, se dicevi che facevi manga, oltre a dirti che non avresti mai trovato lavoro, c’era anche gente che ti buttava i disegni fuori dalla finestra.
C’era uno stigma per questo stile?
Purtroppo sì. Un direttore di una scuola di fumetto, nel 2006, vide me e la mia collega Maria Vannucchi portare i nostri disegni in fiera, e ci bloccò. Ci disse: “State dando delle false speranze alla gente, li fate uscire dalla loro integralità” oppure “fate fare loro cose che non sono nel nostro DNA”.
C’è questa credenza che se fai fumetto in Italia lo devi fare di stampo Bonelli, perché il fumetto italiano è questo. Noi invece volevamo avere il diritto di disegnare quello che ci pareva. Vannucchi è anche stata tra le prime europee a diplomarsi in manga, e io sono stata tra le sue prime allieve.
Cosa si intende con tecnica manga?
L’approccio narrativo. Ad esempio, City Hunter è disegnato in un modo, Doraemon in un altro, ma entrambe seguono la narrazione giapponese, quella che chiamiamo Kishotenketsu.
Ed è un modo di raccontare in quattro atti, invece che in tre. È composto da un inizio, svolgimento, colpo di scena e una fine, e poi nel momento di maggiore tensione, c’è un ribaltamento di campo. Le premesse della storia non sono più collegate, e come se tu prendessi la telecamera e inquadrassi la stessa scena da un altro punto di vista.
Ha detto che il manga è senza confini, e anche le sue tavole non hanno confini. Nel senso che c’è una certa tridimensionalità, i personaggi escono fuori dalle vignette e dai limiti.
In moltissime storie manga, la “gabbia” è chiusa. Come in One Piece, ad esempio, ciò permette ai lettori di capire bene cosa sta succedendo. Lo spazio tra una vignetta e l’altra ti serve per chiudere il momento e guardarlo. La necessità di uscire fuori dalla tavola mi permette di far vivere i personaggi avvicinandoli maggiormente al lettore.
Questo viene fatto anche nel manga, e stranamente non è partito da quello che poi viene chiamato Shonen (genere d’avventura all’inizio indirizzato al pubblico maschile, ndr) ma è iniziato in Giappone con gli Shojo, un target di rivista sperimentale e pensato per il pubblico femminile, ma si ispiravano anche alle riviste di moda, e vedevi quindi personaggi che comparivano a figura intera nella tavola. Dagli Shojo è poi passato anche agli Shonen.
Parlando di Oneira e di Arane Heos, come è stato sviluppata la protagonista?
Quando Cab ha scritto la bozza della sceneggiatura, lui aveva chiaro in mente che sarebbe stata una storia non solo di incubi, ma anche di relazione madre-figlia. Arane Heos, ha una doppia natura, di madre e di guerriera e cacciatrice di taglie. È una persona che vive per il suo lavoro, ma lo fa con il suo codice d’onore.
Che spesso va in contrasto con quello dei suoi superiori. A volte può essere crudele, l’abbiamo immaginata algida, come Charlize Theron in Atomica Bionda. Anche se avevamo paura risultasse antipatica, perché fredda e che punta al suo obiettivo, materna solo quando c’è sua figlia. Ed è anche cinica perché quel mondo, quello che abbiamo creato, l’ha resa cinica.
Arane Heos è una guerriera e madre queer?
Lei è lesbica, e per la storia è fondamentale che sia così. Non volevamo ci fossero dubbi a proposito. Nel mondo di Oneira, inoltre, non c’è discriminazione su questo, il suo antagonismo verso la chiesa non è dettato da questo o dalle sue scelte affettive. Il mondo che abbiamo creato si divide tra chi vuole ordine e legge e chi invece ragiona con la sua testa è ha un suo compasso morale. E Arane va contro le regole, ha una sua morale. È libera, in questo senso la rappresentazione queer è fondamentale.
In Francia (la serie Oneira è stata pubblicata prima in Francia, ndr) una lettrice è venuta a raccontarci che dopo aver letto il nostro lavoro, lei ha avuto il coraggio di fare coming out con i suoi genitori. E ci ha detto: “Ho capito che posso essere una persona forte anche se sono diversa dagli altri”.
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