“Solo negli anni novanta, quando ha cominciato a ripercorrere il suo passato, ha cominciato a ristampare le foto che ha scattato durante i film degli anni cinquanta e sessanta. Ci ha messo un po’ a capire che, già a vent’anni, aveva un grande talento”. Una consapevolezza, quella di Melissa Strizzi, che suo padre Sergio non aveva. O, almeno, non ha sempre avuto. Anche perché con i fotografi è così: a volte non c’è bisogno di dire, di fare, di articolare. Basta uno scatto, è l’immagine a parlare.
Le foto di Strizzi, nato a Roma nel 1931, hanno riecheggiato nel tempo, proprio come fanno i film per cui ha lavorato. Sempre misurato dietro le quinte, ma anche sempre presente quando si trattava di mettere a nudo i volti, le facce, l’iconografia dei divi che si trovava davanti. Forse perché li sapeva rendere più terreni, umani. E, forse, è stato proprio per questo che nel 1979 Audrey Hepburn ha voluto Strizzi come fotografo ufficiale per festeggiare i suoi cinquant’anni, omaggiati sulla rivista Life. L’attrice aveva conosciuto Sergio sul set di Linea di sangue di Terence Young. E, evidentemente, non l’aveva mai dimenticato.
Uno sguardo, di Strizzi, che scavava dentro. Discreto, ma presente. “Ho lavorato con mio padre su tre film: Il Gioco di Ripley di Liliana Cavani, Canone Inverso di Ricky Tognazzi e L’amante perduto di Roberto Faenza – continua la figlia Melissa – La sua presenza sul set era silenziosa, con le sue due macchine fotografiche costantemente al collo. Non lo vedevo né sentivo scattare. Eppure, quando arrivavano le stampe dei provini, c’era sempre l’anima del film in quelle scatole”. Un comunicare attraverso l’incomunicabile, l’immobilità di un attimo. Come le foto a Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau ne La notte. Sarà per questa sua assenza di verbosità e la sola necessità di rendere autentica l’immagine che Michelangelo Antonioni l’avrà scelto (anche per L’eclissi e Deserto rosso).
È una mostra che, in collaborazione con la Festa del Cinema di Roma 2023, omaggia Sergio Strizzi. Curata dall’Archivio Strizzi presso la Casa dell’Architettura nel complesso monumentale Acquario Romano, “La mostra Lo sguardo e l’anima. 50 anni di cinema nelle fotografie di Sergio Strizzi” sarà ad ingresso gratuito dal 21 al 29 ottobre, mentre proseguirà ancora fino al 7 novembre. “È stato molto difficile scegliere venti scatti. Ogni sua foto ha un carattere molto forte, una sua intensità. Abbiamo cercato di raccontare un arco temporale e artistico che potesse far emergere il suo sguardo sull’animo umano”.
Una carriera iniziata come fotoreporter, partita dall’agenzia milanese Publifoto di Vincenzo Carrese e proseguita nel 1950 con Ivo Meldolesi. È stata l’osservazione da reporter che l’ha condotto fino a Dino De Laurentis e Carlo Ponti, che lo hanno voluto come fotografo di scena del documentario Gli 11 moschettieri, indagine di Ennio De Concini e Fausto Saraceni nella storia della Nazionale di calcio italiana, dal trionfo dei mondiali nel 1934 e 1938 fino al periodo di crisi tra la tragedia di Superga (4 maggio 1949) con conseguenze annesse.
Sergio Strizzi, dal successo italiano al salto internazionale
È a partire dal 1952 che Sergio Strizzi mette pianta stabile nel cinema. Ed è merito di Totò a colori, diretto da Steno, che tutti i più grandi hanno richiesto la sua mano. Anzi, il suo scatto. C’è stato L’oro di Napoli di Vittorio De Sica. C’è stato Miseria e Nobiltà di Mario Mattoli. E nello stesso anno – 1954 – c’è stato anche La donna del fiume di Mario Soldati. Tanti sono stati i registi italiani che lo hanno avuto (e voluto): Alberto Lattuada, Mario Monicelli, Alessandro Blasetti. E sono stati tanti i registi americani che lo hanno scelto: John Huston, Joseph Losey, Cy Endfield. Sono stati però gli inglesi a “dargli” un’aria internazionale.
Erano gli anni sessanta quando Strizzi incontrò il produttore britannico Albert R. Broccoli e il canadese Harry Saltzman che gli proposero di seguire le imprese di un agente (molto) speciale. Lo 007 per antonomasia, da Dalla Russia con amore a Si vive solo due volte fino a Solo per i tuoi occhi, una parentesi che va dal mito di Sean Connery allo stravolgimento di Roger Moore. C’è stato poi anche un altro inglese più tardi, nel 1988, Terry Gilliam col suo Le avventure del barone di Munchausen. E Londra renderà omaggio a Strizzi con la mostra a Londra all’Estorick Collection (Museo di arte Italiana di Londra) dal maggio al settembre 2024.
“Dopo un paio di settimane dall’inizio della lavorazione di uno dei film di 007 sono arrivate le prime stampe dall’Italia e, durante la pausa, si sono riuniti regista, produttori e attori per guardarle. Nostro padre era poco lontano e sentiva i loro commenti: “Terrific”. In un primo momento si è sentito in imbarazzo, non conosceva il significato della parola e ha pensato subito che lo avrebbero cacciato. Poi qualcuno gli ha spiegato che in inglese il termine “terrific” significa “stupendo”, ha un’accezione positiva. Questo aneddoto ci piace perché mostra l’inconsapevolezza di nostro padre del suo dono, visibile invece a tutti”.
È del 2006 l’ultimo film di Sergio Strizzi, Rosso come il cielo di Cristiano Bortone. Prima ci sono stati i gangster movie di Francesco Rosi (Lucky Luciano, 1973), la politica di Elio Petri (Todo modo, 1976), persino i kolossal televisivi di Giuliano Montaldo (Marco Polo, 1982-1983) e la spensieratezza fantastica di Fantaghirò (1991-1996).
E, nel suo terzo tempo, altre importanti collaborazioni italiane. L’immaginazione di Roberto Benigni, quella drammatica de La vita è bella (1997) e la più bambinesca di Pinocchio (2002). Arrivando ai personaggi di Giuseppe Tornatore, di cui Sergio Strizzi ha ritratto la figura piegata e scomposta sui tasti bianchi e neri di Tim Roth ne La leggenda del pianista sull’oceano (1998), inquadrando con l’obiettivo gli occhi pieni di lacrime della Madonna Maddalena di Monica Bellucci nel cult Malèna (2000).
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