16 millimetri alla rivoluzione, documentario diretto da Giovanni Piperno, è uno sguardo al passato. Zero nostalgia, sono una grande necessità: rimettere ordine ai pensieri. “Nel film ho coinvolto e intervistato Luciana Castellina proprio per questo,” ha spiegato il regista a The Hollywood Reporter Roma. “Lei ha 94 anni ma continua ad occuparsi di politica e ad avere l’ottimismo dei veri comunisti anni Cinquanta, che non si fanno spaventare dai momenti difficili”.
Il documentario, montato con 58 fonti video diverse tra filmati di repertorio dell’AAMOD (Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico) e della Rai, è indirizzato alle nuove generazioni. L’obiettivo di Piperno, ha spiegato a THR Roma, è quello di “rievocare l’emozione che provavamo quando andavamo in una sezione del partito comunista italiano”. Anche se lo stesso regista ammette di non essere mai stato iscritto al partito di Berlinguer.
Il film, passato al Torino Film Festival, deriva da un progetto più grande che doveva uscire nel 2021 per i 100 anni dalla fondazione del Partito Comunista Italiano. “Un film a episodi,” spiega Piperno, “firmato da grandi registi italiani”. Alla fine quel progetto è saltato, ma il regista voleva continuare a lavorare su un progetto di questa entità e con la collaborazione di Castellina.
“Sapevo chi fosse Luciana e sapevo tante cose su di lei. Ma pochissime rispetto alla sua vita piena di eventi, di partecipazioni, anche di mestieri diversi, ha fatto la giornalista, la scrittrice”, racconta il regista. “Io sono un antico lettore del Manifesto, ho cominciato a leggerlo quando ero in seconda media, nel 1977″.
Nel suo documentario c’è la volontà di guardare indietro per poi volgere lo sguardo avanti. Un tentativo di rimettere ordine ai pensieri?
Assolutamente sì, il coinvolgimento di Luciana Castellina non è un caso. Perché lei è una donna che vive nel presente, non ha mai un tono nostalgico quando parla della sua vita, presente e passata: continua a occuparsi di politica e ad avere l’ottimismo dei veri comunisti anni Cinquanta, che non si fanno spaventare dai momenti difficili.
Lei si è iscritta al partito dopo la guerra, i comunisti lo sono diventati quando c’era il fascismo, quando l’Europa sembrava potesse soccombere sotto i nazisti. Quindi, per loro, le difficoltà non sono mai insormontabili. E’ un atteggiamento proiettato sempre verso il futuro, e siccome il film non vuole avere un tono nostalgico, si rivolge ai ragazzi e alle ragazze che oggi vogliono fare politica o che già la fanno.
Bisogna incoraggiarli e trasmettere la consapevolezza che la politica si fa insieme agli altri, non da soli. Bisogna essere insieme per provare a cambiare le cose. Noi siamo abbastanza convinti che questo film, anche se è composto di parole di una signora di 94 anni, e da materiali che arrivano anche a 60-70 anni fa, possa però parlare alle generazioni che oggi vogliono fare qualcosa.
Nel senso, è un film che vorrebbe essere l’elastico di una fionda, che si tira indietro per poi andare in avanti.
I filmati di repertorio che utilizza da chi sono stati realizzati?
I materiali che ho usato nel film sono stati realizzati da questi bravissimi registi e tecnici che lavoravano nel cinema commerciale italiano, e poi dopo per militanza facevano anche i film per il PC.
Lavoravano per la televisione, per la Rai e altre emittenti. E siccome erano grandissimi artisti e tecnici, i loro materiali erano bellissimi e sono tuttora freschi. Al di là del fatto che vengono da lontano in linea temporale, hanno una grande qualità e immediatezza nel modo in cui arrivano ai temi.
Ad esempio l’inquadratura in cui si vede Luciana con il bastone, siamo davanti al cancello numero 2 di Mirafiori, lo stesso dove Antonello Branca nel 1973 gira le immagini di un picchetto operaio. Ora non ci sono più gli operai fuori che parlano, perché da 100 mila persone sono diventati poche migliaia e quando escono dalla fabbrica vanno a casa alla chetichella. Non c’è più la classe operaia a Torino.
È cambiato tutto, però non sono cambiati i presupposti per cercare, come dice Luciana, una società dove coniugare libertà con uguaglianza.
Conosceva già Luciana Castellina?
Io sono un antico lettore del Manifesto, ho cominciato a leggerlo quando ero in seconda media, nel 1977. Sapevo chi fosse Luciana e sapevo tante cose su di lei. Ma pochissime rispetto alla sua vita piena di eventi, di partecipazioni, anche di mestieri diversi, ha fatto la giornalista, la scrittrice.
Quindi l’ho chiamata e sono andato a trovarla a casa, cominciando una serie di conversazioni, quasi tutte in presenza. Le ho chiesto di vedere tutte le fotografie che c’aveva a casa, e poi mi sono fatto raccontare la sua vita.
Ma sulla sua vita sono state fatte tante altre cose. Per cui per il mio film le ho chiesto specificatamente di raccontare del suo rapporto con il partito comunista italiano.
Poi, siccome c’era di mezzo la pandemia di Covid, abbiamo continuato a distanza. Una volta le ho detto: “Guarda Luciana, credo di avere il Covid è meglio che non vengo da te”. E lei, 94 anni, con tranquillità mi ha risposto: “E che problema c’è, facciamo online”.
Il suo lavoro compie un po’ lo stesso percorso de Il Sol dell’Avvenire di Nanni Moretti
In realtà è stata una coincidenza. Questo film deriva da un progetto più grande che doveva uscire nel 2021 per i 100 anni dalla fondazione del Partito Comunista Italiano. Doveva essere un film a episodi firmato da grandi registi italiani, tranne una che non era una regista cioè Luciana Castellina, e che io dovevo aiutare a fare i suoi 10 minuti di cortometraggio.
Poi quel progetto più grande è saltato, ma ho chiamato il produttore Luca Ricciardi, dicendogli che volevo andare avanti comunque nel progetto. Così ho fatto un’immersione nell’archivio e ho scritto un progetto, riuscendo a vincere un bando della presenza del Consiglio.
Abbiamo fatto un film diverso da quello che era pensato nel 2021, ma comunque nasce due anni fa. Casualmente, per puro caso, io avevo lavorato con Moretti su Caro Diario come aiuto operatore, l’ho rivisto recentemente.
La mamma di Nanni era molto amica di Castellina, e quindi lui era curioso di vedere il lavoro. Gli è piaciuto, e quindi noi la prima romana a gennaio la facciamo al Nuovo Sacher.
Quindi Moretti ha visto il film?
Ho ringraziato nei titoli di coda sia lui che Lorenzo Pavolini perché da esterni hanno esaminato il lavoro e hanno dato una mano, in momenti diversi, per migliorare il film. Nanni mi ha dato un paio di dritte su dove fare piccoli tagli, invece Pavolini sei mesi prima mi ha posto delle problematiche narrative, che poi sono quelle che abbiamo sviluppato rispetto alla mia voce narrante, al mio personaggio.
Lei non si è mai iscritto al PCI?
Non sono mai stato iscritto al partito, avevo molti amici che lo erano. Nel film ho cercato di rievocare quell’emozione che c’avevi durante le discussioni in sezione, nel poter parlare con le persone o ai festival dell’unità, di qualsiasi estrazione sociale, dal più sofisticato intellettuale all’ultimo degli operai e dei contadini. Ed eri sempre alla pari, non c’era mai inferiorità né superiorità, quella persona era un compagno o una compagna. E questa emozione è qui che ho cercato di trasmettere con i grandi film dell’archivio.
Non faccio il politico ecco, volevo solo rievocare un’emozione che avevamo quando andavamo in una sezione del PCI.
Il cinema stesso è un lavoro collettivo interclassista, anche se ha altri meccanismi legati al profitto naturalmente. Ma in una troupe cinematografica ci sono dei macchinisti, elettricisti che nel dopoguerra erano spesso in una famiglia sottoproletaria fino a Luchino Visconti o Pier Paolo Pasolini. Quindi il cinema è sempre fatto e si fa ancora in maniera così interclassista.
Il Partito Comunista Italiano è stato un partito capace di raccogliere tutti.
Nel suo film mostra che però non riusciva ad andare oltre ad alcuni stereotipi culturali, giusto?
Non era un partito privo di difetti. Ho scelto Luciana per raccontare questa storia proprio perché lei ha avuto un rapporto anche conflittuale. Lei è stata anche cacciata dal partito, questo lavoro non voleva essere apologetico. Volevo cercare di ricordare oggi cosa c’era di buono in quel partito.
C’erano tante cose che non andavano, era un partito bigotto, era sessista, era maschilista. Aveva anche difficoltà nell’accettare gli omosessuali, perché li considerava ricattabili, e quando li scopriva li cacciava. All’inizio era pure legato all’unione sovietica, per cui sì, c’erano dei problemi.
Però era un partito di massa che ha avuto fino a due milioni di iscritti, due milioni di persone. Una cifra che oggi è difficile immaginare, ma è importante ricordare e, appunto, solleticare le persone a ritornare alla dimensione collettiva.
Come si può recuperare la dimensione collettiva in un’epoca anche di grande individualismo?
Sta alle nuove generazioni trovare gli strumenti, ci sono anche gli strumenti nuovi. Oggi le lotte hanno un senso se si fanno trasnazionali, come i Fridays for Future. Il pianeta si è rimpicciolito e i problemi si sono ingigantiti, quindi non ha più senso nemmeno lavorare solo localmente. Però si parte sempre dal locale.
L’esempio che faceva Luciana nel film, che quando il dirigente del PC andava in una sezione nella periferia di Roma, partiva spiegando le problematiche internazionali di Vietnam o di altri paesi, e poi si arrivava alla fontanella che non funzionava nel quartiere.
Tutti sentivano di essere parte di una realtà più grande. E che quella battaglia nel tuo quartiere era collegata alle grandi battaglie di liberazione di tutto il mondo.
Nella sequenza finale si parla di cinema militante, si sta ritornando a questo modo di fare cinema?
Dirigo un festival di documentari a Perugia, e ho un attimo il polso della situazione sulla direzione del documentario europeo, internazionale e italiano. Credo che i documentaristi italiani, che sono tanti e sono anche molto bravi, in maniera più o meno consapevole sono dei cineasti militanti.
Il problema è che ora siamo tutti separati e sparpagliati. All’epoca, coloro che facevano le grandi commedie di successo in Scola o Gregoretti poi lavoravano in maniera anche sperimentale per il PC.
Come se ora Paolo Virzì o Paolo Sorrentino si mettessero a fare il cinema militante. Matteo Garrone in qualche modo l’ha fatto nel suo ultimo film. Ma non essendoci un partito di riferimento ha realizzato una pellicola con la sua poetica che serve a una grande causa.
I documentaristi già fanno questo cinema militante, solo che sono frammentati dal mainstream. Ci sono mondi separati, da quelli che lavorano per le piattaforme, per le serie o per il cinema in sala commerciale. Quindi ognuno per conto suo.
Al momento il documentario fa molta difficoltà ad arrivare in sala o sulle piattaforme?
All’epoca anche questo cinema militante mica andava nelle sale di prima edizione o in quelle parrocchiali. Veniva proiettato nelle Case del Popolo e nei Circoli ARCI, la differenza è che allora c’erano migliaia di sezioni in tutta Italia, quindi poi c’era un circuito alternativo. Non parliamo comunque di cinema di massa nemmeno per 40 anni fa.
In quanto tempo ha raccolto i materiali?
La prima grande immersione l’ho fatta nel settembre del 2021. I parenti mi hanno prestato una casa in campagna dove potermi ritirare. E ne ho svolte diverse, perché la ricerca d’archivio è come andare su Marte, devi essere anche disposto a perderti nei materiali, a seguire il tuo intuito e a non fare la ricerca solo con le parole chiave.
Di documentari ne ho fatto qualcuno e mi piace il lavoro con gli archivi, e ho il mio metodo, che in realtà non è un metodo: sono curioso e ho guardato anche delle cose apparentemente fuori dalla traccia, che poi ritrovi sotto altre forme.
Un esempio è il filmato degli artisti, l’esperienza in uno spazio non teatrale. Un frammento che non c’entra apparentemente niente col PC, ma poi in realtà è pertinente, perché comunque sono materiali che hanno l’influenza del ’68.
Nel film ci sono 58 fonti diverse, compresi tre filmati della RAI. In totale avrò visto 250 filmati, e nel film ci sono 58 fonti diverse. Ne ho selezionati 70, e nel montaggio finale ne sono rimasti 53 dell’AAMOD (Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico), tre della RAI, uno dell’istituto Luce e uno di un documentario Belga.
Quando ti sei immerso, hai qualche filmato che hai scartato, che però avresti voluto inserirlo, ma poi alla fine è stato tolto, che però in qualche modo ti sembrava essere affinente al discorso che stavi facendo nel film?
C’era un documentario cinese sulla visita di una delegazione del Partito Comunista Italiano in Cina, con una speaker cinese che parlava in italiano. Un filmato molto affascinante e anche molto divertente. Era un’altra Cina, quella dei primi anni Sessanta.
È rimasta fuori dal montaggio finale anche una bellissima giornata per l’8 marzo al Pala EUR, nel 1974, con Berlinguer, che interviene dopo tutte le donne che hanno parlato. Le mamme, le zie e le nonne portano i bambini da Berlinguer come se fosse il Papa.
Morto Berlinguer è morto il sogno?
L’Italia, diciamo, ha avuto due grandi morti che hanno cambiato il suo panorama politico. La prima è stata la morte di Aldo Moro, che ha creato una fortissima e drammatica cesura, e poi la morte di Berlinguer.
La morte di questi due uomini, in qualche modo, ha chiuso l’era dei grandi partiti di massa italiani. Che in quelle forme non torneranno più.
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