La solitudine è la vera fobia dei nostri tempi, nel freddo del mattino grigio di città, e il cinema e la televisione credono lo sarà anche nel futuro non troppo lontano. Le carceri mentali di Black Mirror raccontano di dispositivi capaci di farci stare soli per centinaia di anni ma le metropoli elegiache del cinema contemporaneo sono meno futuristiche e meno moraliste. Ambientato idealmente nella stessa città autunnale del Lei di Spike Jonze, l’Another End di Piero Messina, in concorso a Berlino, racconta di un mondo dove le memorie dei defunti possono essere impiantate in un corpo ospite per spendere altro tempo assieme ai propri cari, solo un pochino. La persona ospitante perde temporaneamente i propri ricordi a favore di quelli dell’ignaro assente, come lo definisce Aeterna, l’azienda capace di questo miracolo tecnologico.
Ai piani alti di Aeterna lavora la sorella di Sal. Da quando ha perso la compagna Zoe, gli occhi di Sal sono diventati grigi come i suoi capelli (quelli di un misurato Gael García Bernal). La solitudine è insostenibile e dopo che l’uomo tenta il suicidio, sua sorella suggerisce la soluzione più evidente. Lui non ne vuole sapere ma il film è appena cominciato e Sal ha tutto il tempo di farsi convincere. Quando quel corpo di fronte a lui comincia a muoversi come Zoe, a parlare come Zoe, a sorridere come Zoe, non si può più tornare indietro.
L’estasi d’amore tiene a galla Sal che prepara in sé la parabola discendente di un completo rifiuto: subire di nuovo il lutto non sarà accettabile e il film prepara il terreno per rendere Bernal un novello James Stewart in un Vertigo venuto dal futuro. Quella di Aeterna, in fondo, è una fregatura di terapia, lo sanno tutti in azienda (l’unica regola del libro di Black Mirror che Messina si porta dietro è quella di non fidarti mai della Silicon Valley).
Quando la camera vola verso il grattacielo di Aeterna, con sguardo giudicante ma meravigliato, musica sacra in sottofondo, il manuale di riferimento è quello sorrentiniano, ma nonostante le apparenze Messina conserva poco dell’occhio del suo maestro. Another End è meno curioso delle umanità fuori dai suoi tre personaggi principali, ma non per questo il suo sguardo è meno affettuoso e commovente.
Lo spunto fantascientifico non d’eccezione e un impianto narrativo tradizionale non impediscono a Messina di sfruttare bene le carte a sua disposizione, con qualche asso nella manica. Il regista è abituato a giocare con le aspettative degli spettatori fin dal titolo dei suoi film. L’attesa, il suo esordio, raccontava di una fidanzata in attesa del lontano Giuseppe e di un pubblico in attesa che la madre di Giuseppe confessasse alla giovane della morte di lui. Nei titoli di testa di Another End compaiono prima le lettere “not here”, non qui.
Nonostante la distanza chilometrica in fatto di ambientazioni, i primi due film di Messina sono coerenti nell’esplorare le vite e i desideri di chi rimane dopo la morte, e nel sognare una fuga dal lutto, per ignoranza o per tecnologia. Prima dei titoli di coda, Another End fa finta di finire in schermo nero per qualche secondo, per poi proporre, ovviamente, un altro finale. In un qualche modo le storie vanno avanti anche quando finiscono. Se ad “Another End” si leva “not here”, rimane “and”. E…
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