Quanto tempo sarà necessario perché i figli dicano ai padri di fermarsi? E perché chiedano loro perché hanno permesso che venissero bombardati i villaggi? Sono le domande che personaggio A rivolge a personaggio B verso la fine di Shikun, il nuovo film di Amos Gitai, approdato ora alla Berlinale nella sezione Special. E sono le domande più esplicitamente politiche che il regista israeliano (suo padre era un ebreo tedesco, architetto del Bauhaus, fuggito dal Terzo Reich nel 1934, sua madre era nata nella Palestina britannica da genitori di origine russa) offre agli spettatori in questo suo ultimo lavoro. Domande che risuonano con grande forza in questo scorcio di tempo maledetto compreso dal 7 ottobre ad oggi, con i tank israeliani a Gaza ed una conta dei morti che pare infinita.
Detto questo, Shikun è tutt’altro che un lineare film politico, anche se lo è in ogni sua più nascosta fibra. Un avvertimento (necessario) su tutti: nella sostanza, Shikun è una sorta di pièce teatrale, ispirata nientemeno che a Eugène Ionesco. Situazione: in una specie di gigantesco condominio israeliano, abbastanza brutto e a tratti degradato, s’incrocia tutta una serie di personaggi, a cominciare da Irène Jacob (ebbene sì, la meravigliosa attrice francese che a tanti ha fatto battere il cuore nei film-meraviglia di Kieslowski, La doppia vita di Veronica e Film Rosso) che si aggira come un folletto tra i corridoi di questo palazzaccio, declamando e certe volte gridando frasi spesso in contraddizione aperta tra di loro.
Poi ci sono l’architetto ossessionato dal suo piano di costruire una sinagoga nei pressi, la bella insegnante di ebraico in jeans, il vecchio che narra di una fuga perigliosa dai mitra dei nazisti nel lontano 1945, gli immigrati testé giunti – ucraini, indiani, russi, bielorussi – tutti a studiare ebraico, la zia bonaria che rimembra i racconti dei cari perduti nei campi di concentramento, la ragazza tormentata che si aggira su un monopattino evidentemente sensibile alle ragioni dei palestinesi.
Ebbene, in questa Babele che è anche una babele di lingue, i palestinesi non sono mai nominati. Al loro posto si parla di misteriosi “rinoceronti” che starebbero invadendo Israele. E qui il riferimento a Ionesco è esplicito: considerato uno dei capolavori del teatro dell’assurdo, Il Rinoceronte narrava di un’epidemia di “rinocerontite” in un piccolo paese di provincia francese, a simboleggiare il progressivo mutamento delle persone verso l’asservimento al pensiero totalitario.
Shikun proprio di questo parla: anche questa serie di situazioni talvolta deliziose talvolta tendenti al grottesco che compongono il film mette in scena lo scivolamento verso una mentalità dominante autoritaria. Alcuni progressivamente si trasformano in “rinoceronti” altri resistono, ma forse non è neanche questo il punto: è piuttosto la debolezza del pensiero ad imporsi, come se il balletto continuo di posizioni, di verità in totale opposizione tra loro condannate ad una sorta di inesausto ed eterno conflitto fosse un destino ineluttabile. Un destino dal quale neanche Gitai – uno che certo non ha problemi ad esprimersi in termini critici verso il governo israeliano, uno che è incorso nella censura e che per un certo periodo ha preferito vivere all’estero – sembra potersi districare.
La tragedia di Shikun è che narra di un’impotenza, anche se lo fa con gli strumenti del teatro dell’assurdo. Non che manchino idee cinematografiche forti: quasi tutta la prima parte del film è un lungo piano sequenza, dal quale i vari personaggi entrano ed escono in modo coreografico, mentre ogni tanto si sente come un rombo profondo, che sarebbero i rinoceronti che fanno tremare le fondamento di questo sgangherato, confuso e dolente condominio Israele.
Sì, in un certo senso – nel film non vediamo niente della guerra, è solo allusa, ma inevitabilmente a noi spettatori passano davanti gli occhi le immagini degli attacchi di Hamas del 7 ottobre così come di Gaza sventrata – è una tragedia nella tragedia questo affastellarsi di impotenze, di espressioni apodittiche che si annullano a vicenda, come se quel pezzo di Medio Oriente fosse una sorta di gigantesco buco nero destinato ad ingoiare tutto e tutti.
Certo, il ricorso inesausto di Gitai all’allegoria pensosa e alla metafora militante a tratti infastidisce, così com’è gravemente infastidita da improvvisi e fortissimi attacchi di prurito la bella Irène Jacob, costretta finanche a strusciarsi lungo i muri: probabilmente la francese, con le frasi che progressivamente sembrano pronunciate sempre di più in stato confusionale, dovrebbe incarnare la “cattiva coscienza” dell’Occidente rispetto alla tragedia totale del conflitto israelo-palestinese. Ma, come si suol dire, anche la tragedia più terribile, più terrificante, è sempre anche un po’ una pièce di teatro dell’assurdo: le vie di fuga non ci sono.
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