Voi non lo sapete, ma le forze del bene e del male per qualche strano motivo hanno deciso di combattere il duello finale, la battaglia definitiva, in un piccolo villaggio sulla costa della Francia del nord. Niente di particolarmente fascinoso, né turistico, anzi: facce squadrate da contadini venuti da un non-tempo eterno, pescatori con barchette di legno, gendarmi parecchio sgangherati, ragazze di paese con gonnelline a fiori perennemente attaccate allo smartphone, pianure brulle e cavalli da soma.
È qui che è nato un bambino biondissimo che in realtà sarebbe una specie di messia o demone – dipende dai punti di vista, diciamo – ed apparentemente è la sua comparsa ad aver scatenato la guerra: un conflitto di cui gli esseri umani normali di primo acchito non hanno alcun sentore, ma che si combatte contemporaneamente in terra e in cielo. Eh sì, perché le due potenze che si contrappongono sono ambedue aliene, mentre le loro incarnazioni sulla Terra – anzi, nel villaggio francese – si combattono a suon di spade laser.
Certo: L’Empire di Bruno Dumont, in concorso alla Berlinale, è una aperta e clamorosa parodia di Guerre Stellari (sin dal titolo, con quell’Empire – l’impero – a cui manca solo il resto del titolo del secondo capitolo della saga, ossia il “colpisce ancora”). Lo è, però, in un modo assolutamente bizzarro e a tratti affascinante, assolutamente niente a che vedere, con le Balle Spaziali di Mel Brooks, per dire, se non per la causticità del racconto.
Dunque: qui abbiamo un pescatore (Brandon Vlieghe) che a prima vista pare un broccolo assoluto, ma che in pochi minuti si rivela essere una specie di cavaliere oscuro: è lui il padre del bebé (effettivamente terrorizzante, specie quando ride) indicato come incarnazione di ogni male dalla fazione contrapposta. La quale attenta quasi subito alla vita del bambino tramite un incidente d’auto, e nel dubbio ne decapita la madre (ovviamente con una spada laser). Mandante del delitto e principale antagonista del pescatore-broccolo-cavaliere è una ragazza mora (interpretata dalla bellissima Annamaria Vartolomei), che nel look ogni tanto assomiglia alla Rey dell’ultima trilogia di Star Wars e che, chissà perché, è sessualmente attratta dal broccolo di cui sopra, tanto da concedersi a lui ad un amplesso sul prato e tra i cavalli che nella sua dinamica psico-fisica certamente non corrisponde agli attuali dettami di quel che va sotto il nome di politicamente corretto.
Ora, qui non si capisce quasi mai se davvero i buoni sono buoni o cattivi uguali a quegli altri, ed è vero che Dumont è un autore di suo non esattamente conforme agli standard usuali. Ed in effetti ogni tanto affiora il dubbio d’essere di fronte ad una boiata pazzesca: eppure, in verità L’Empire ha diversi motivi di fascino. Primo: è senz’altro una satira del potere, che generalmente agisce senza logica e senza morale. Secondo (ed è un motivo strettamente legato al primo): le astronavi che ad un certo punto appaiono per moltiplicarsi via via in un cielo profondissimo, si rivelano essere delle vere e proprie cattedrali (oppure dei palazzi seicenteschi, ma il concetto è lo stesso), dove mettere in scena l’autorità e i suoi balletti insensati.
Avete presente il proverbiale inizio di Guerre Stellari, no? Ecco, l’astronave bianca e imponente che scorre lentamente davanti agli occhi ad un certo punto rivela guglie, vetrate colorate, absidi e portoni giganti. Dentro si aggirano, a parte degli ectoplasmi scuri che parlano, varie figure più o meno strampalate, dove la più strampalata è una specie di imperatore vestito da Arlecchino (Fabrice Luchini), che oltre a fare proclami roboanti, ama ballicchiare al suono di orchestrine jazz che suonano Bach.
Ebbene, qui forse potremmo vederci qualche suggestione dal Kubrick di 2001 Odissea nello Spazio, ma di nuovo non è neanche questo il punto: è la grande comédie humain il punto, lo sberleffo quasi dariofoesco al potere, la commistione anche stimolante tra volti e situazioni a tratti persino pasoliniane (questa Francia del nord contadina e lavoratrice, ruvida o ruspante, un po’ bislacca ma con una sua intrinseca verità) e le spade laser e le mille astronavi che ad un certo punto affollano la livida campagna francese. Allo spettatore la scelta di stare o non stare al gioco, di perdersi nei grandi occhi della cavalieressajedi di campagna e vibrare una spada laser contro il cinema dell’ovvio, oppure di decidere di andarsene dal cinema sdegnati.
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