“Il 99% dei film sono noiosi. Questo no”. A volte, affidarsi agli autori, specie se spudoratamente sinceri, è il modo migliore di tirar fuori una recensione sintetica ed efficace. Otto parole che, va detto, fotografano perfettamente Yannick, l’ultimo film di Quentin Dupieux, guastatore dell’immaginario musicale e cinematografico degli ultimi decenni.
Sessantacinque minuti, perché quest’autore, che con una pubblicità per una marca di jeans ci ha contemporaneamente consegnato una musica da non dimenticare – nel senso più pavloviano del termine – e una mascotte da mitizzare e far diventare iconica, sa essere fuori formato fin dalla durata dei suoi film. In realtà, a differenza di Rubber, cult del 2010 che aveva come protagonista uno pneumatico (molto più espressivo di metà degli attori internazionali), ovviamente nell’on the road più pazzo del mondo, qui non siamo nel piano della surrealtà, né in quello della provocazione dell’immagine e della parola. Siamo dentro a un’opera che possiamo definire (quasi) lineare, morale (ma non moralistica), un racconto lucido e dolente su cos’è la società moderna.
Yannick siamo noi
“Incredibile, per farti ascoltare devi avere in mano una pistola” urla Yannick che con il suo nome dà il titolo e il senso più profondo del film, grillo parlante teneramente seducente nella sua violenza innocua e solo minacciata. I suoi pensieri diventano sempre parole, nel mare d’ipocrisia di cui è pieno un teatro che ospita una piéce mediocre e stanca, Il Cornuto, brillante parodia della comedie française più furba e superficiale. Certo, il pubblico, che lì si è rifugiato per non sentirsi parte della massa ma con l’indolenza irritante di chi vuole fare la cosa giusta solo nel tempo libero e se ti permette di vestirti bene e svoltare una serata, non è migliore degli attori, scarsi, sul palco, e di una sceneggiatura imbarazzante.
E lui, parcheggiatore che forse è stato l’unico a credere in quella serata, tanto da impiegarci “45 minuti di mezzi e 15 a piedi” per non perdersela, non ci sta. La sua vita “è già una merda” e non vuole che peggiori. E se ci vorrà una pistola per migliorare la serata, che appaia e sistemi le cose. In questo caso Yannick si rivolge ai suoi ostaggi, non vuole qualcosa “da fuori”, ma da quella comunità che si rivela essere meschina, banale e improbabile come la commedia rappresentata. Vuole una sistemazione per la notte, un invito a cena, un passaggio, vuole calore e umanità ed è disposto a restituirli scrivendo una storia che possa far ridere e intrattenere poveri diavoli come lui (anzi peggio, almeno il suo ottimismo accende una luce laddove gli altri l’hanno già spenta). E lo fa. “In fondo uno spettacolo – ha raccontato il regista al Locarno Daily – è un sequestro di persona da parte di un artista”. Quindi, Yannick è solo più onesto intellettualmente di qualsiasi autore pretenda di vendere un biglietto per comprare la libertà altrui. Lui se la prende, ad alta voce. Non sussurrando, bisbigliando facili trucchetti per catturare il pubblico, come il capocomico.
Ecco che esce tutto il Dupieux che conosciamo, fuori dai confini dei moralismi facili e bobo chic del cinema francese di cui prende la cornice, tutto teatro, battute argute e protagonisti vanesi, ed esplode nel breve terzo atto di un film tanto compatto quanto geniale, quello in cui lo scettro del comando, quell’aggeggio che attira l’attenzione, finisce nelle mani del presunto buono, del colto, dell’illuminato. La sua reazione sarà sconvolgente e feroce – come sempre, quando dai il potere a chi dice di disdegnarlo, a chi si finge democratico e in realtà è un mostro – degna di un protagonista di Ruben Östlund o de L’onda. Perché la società è solo una scacchiera in cui conta chi ti muove e qual è la mossa che ti hanno assegnato e se miracolosamente da pedone diventi regina, qualcuno finirà per pentirsene.
Yannick è una delle opere più libere di Quentin Dupieux ed è incredibile come ciò avvenga in uno dei film in cui si è messo più recinti e paletti, in cui si è affidato a una narrazione classica in cui il protagonista folle e disperato non viene liquidato con il suo solito umorismo sarcastico e nichilistico. Consegna il suo pensiero, per una volta empatico, a un protagonista carismatico, che tante volte ricorda l’irresistibile e struggente James Franco (soprattutto sulla commozione finale) di The Disaster Artist, quello che rinuncia alle sue velleità in favore della felicità altrui, un antieroe che fa la cosa sbagliata ma nel posto giusto e al momento giusto. E che (si) è raccontato con ironia tragica e grottesca.
E tanto basta, a volte, per capire chi siamo.
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