“Linda e il pollo è un film dalla parte dei bambini”. Lo definisce così la stessa regista Chiara Malta, romana classe 1977, che insieme all’animatore francese Sébastien Laudenbach ha realizzato una piccola perla d’animazione uscita vincitrice da Annecy e ora in concorso al TorinoFilmFestival.
“Non volevo un film edulcorato che trattasse i bambini con questa condiscendenza adulta per cui sono piccoli, incapaci e che tutto deve essere a taglia ridotta per renderlo comprensibile”, ha raccontato la regista a The Hollywood Reporter Roma. “I bambini capiscono tutto, sono più intelligenti degli adulti certe volte. Meno quando sono in presenza dei genitori, quindi io li volevo da soli per trattarli per quello che sono: un po’ selvaggi, che possono spaventare, incontenibili. La loro è un’insurrezione”.
Il film, che è stato scritto dalla stessa Malta circa dieci anni fa, è rimasto nel cassetto in “attesa di uno stile appropriato”. Il tratto è evanescente, come un ricordo che piano piano svanisce. Una scelta specifica dell’autrice, che ha raccolto la ricerca stilistica realizzata da Laudenbach nel suo Le fille sans mains per realizzare un film sulla memoria e sulla crescita, puntando all’astrazione.
Linda e il pollo è candidato come miglior film d’animazione agli European Film Awards, in categoria insieme a Mary e lo spirito di mezzanotte di Enzo d’Alò, White Plastic Sky di Tibor Bánóczki and Sarolta Szabó, Robot Dreams di Pablo Berger e The amazing maurice di Toby Genkel.
La storia di Linda e il pollo è particolare, una storia familiare che poi si estende a una comunità intera, come hai sviluppato questa idea?
È un percorso della gioia: più persone gioiose sono meglio che due. E questo è un punto di vista molto legato ai bambini, forse anche adolescenziale, sicuramente non adulto. Di solito i bambini vogliono sempre stare con gli altri, poi c’è un momento in cui devono tornare nelle quattro mura e con pochi adulti. Ma loro vorrebbero sempre essere circondati da tanta gente. Volevo cominciare questa storia nell’ambiente domestico meno gioioso che fuori, con pochi personaggi. E poi tanti personaggi.
Poi c’è un tema di giustizia, volevo fare un film schierato dalla parte dei bambini. I bambini subiscono un sacco di ingiustizie, e non si sanno sempre difendere da soli. Sono in minoranza, non hanno ancora gli strumenti e non sono ancora cittadini del mondo. L’infanzia è il luogo delle ingiustizie, perché non ti puoi difendere. In qualche modo il film doveva riscattare i bambini schierandosi dalla loro parte. L’ingiustizia – a taglia di bambino – è, per esempio, una punizione non giustificata, o essere accusati di un errore non commesso, di una colpa che non è la nostra.
In scala adulta poi è ingiustizia sociale, e nei primi momenti della scrittura è emersa anche l’idea di ambientare la storia durante uno sciopero generale. Lo sciopero interrompe la vita. Tutti alzano le mani, non lavorano più: la vita è sospesa. Il dialogo tra la famiglia e il collettivo è avvenuto così.
Il film è ambientato in un quartiere popolare
C’era anche il desiderio di stare in un posto a misura di bambino, in cui potessi far scorrazzare liberamente dei bambini e potessi anche svuotarlo totalmente dalla presenza adulta. Una piazza di periferia, qualche palazzo, un microcosmo. I cittadini di piano diritto – in questo microcosmo – sono soprattutto i bambini, perché ci passano più tempo. E volevo riversare su questa piazza tutti i bambini che non potevano uscire di casa, sai la tipica punizione del “non esci”.
Un liberi tutti generale
Esatto, liberate i bambini. Per poterli riversare nella piazza quindi mi serviva un posto che fosse contenuto, in modo tale da restituire meglio anche l’impressione di pieno e di vuoto.
C’è anche la volontà di rappresentare una specifica condizione socio-economica?
Nei quartieri ricchi i bambini sono meno da soli, mentre io volevo rappresentare bambini che passassero un sacco di tempo da soli. Non abbandonati ma autonomi, che dovevano gestire le cose di casa, adulti in miniatura.
In realtà – forse – pure più bravi degli adulti, perché nel film gli adulti sono terribilmente fallibili. Forse questo era anche un modo per me per riconciliarmi con il mondo adulto, che non può essere un modello inarrivabile. Altrimenti uno grande non ci diventa mai. Volevo ridurre la distanza tra i due mondi. Che ovviamente c’è ed è reale, ma c’è tanto adulto nel bambino quanto bambino nell’adulto. E il film lo prova facendo scivolare gli adulti nel mondo dei bambini.
E in questa trasformazione, gli adulti suonano più veri, come la scena di Paulette che chiede alla sorella di aiutarla dicendo: “ti prego ti prego ti prego ti prego”. È più vero rispetto a una mamma performante, che gioca a fare l’adulta. In realtà siamo tutti degli impostori quando facciamo gli adulti.
Nessuno dei personaggi adulti, infatti, riesce a gestire la situazione
Perché fanno anche paura i bambini. Non a caso la zia li chiama “banda di selvaggi”. Non volevo un film edulcorato che trattasse i bambini con questa condiscendenza adulta per cui sono piccoli, incapaci e che tutto deve essere a taglia ridotta per renderlo comprensibile. I bambini capiscono tutto, sono più intelligenti degli adulti certe volte. Meno quando sono in presenza dei genitori, quindi io li volevo da soli per trattarli per quello che sono: un po’ selvaggi, che possono spaventare, incontenibili. È un’insurrezione
La storia del cinema l’ha provato l’ha provato più e più volte. Ci sono tanti film, ma anche romanzi, che provano che i bambini da soli, se si rivoltano, succedono cose terribili. Hanno la stessa violenza che c’è nel mondo adulto, non è che perché si parla d’infanzia allora tutto diventa rose e fiori. Questo aspetto li rendeva anche più simpatici e autentici.
Si può ridurre questa distanza tra adulto e bambino?
Credo si sì, ma se si guarda il bambino per quello che è, e non come una proiezione che l’adulto fa del bambino. I film per bambini sono proiezioni degli adulti e quindi i bambini si annoiano, e gli adulti pure.
Loro vogliono fare le cose dei grandi. Se uno prova a dare un giocattolo a un bambino o un accessorio di un adulto il bambino si piglia l’accessorio dell’adulto è l’adulto che deve contenere il bambino. Secondo me, quando gli adulti mantengono il bambino in un mondo protetto, è anche per difendersi dal bambino. Se noi affrontassimo l’infanzia per quello che è ci sarebbe forse ancora qualche possibilità di crescita anche per i grandi.
Ai miei figli ho insegnato tanto quanto mi hanno insegnato loro. Sono cresciuta pure io, e in Linda e il pollo volevo rappresentare questa sfumatura.
Lo stile di disegno è anche molto particolare, quasi evanescente, come un ricordo
In quel tratto c’è un rischio di sparizione costante. Che era quello che mi commuoveva e che volevo ad ogni costo per questo film. Volevo che il tratto fosse movimento e fragilità, perché la vita è esattamente questo. Sono grandi parole (ride, ndr) però è vero: tutto si muove, tutto esiste ma poi tanto uno se lo scorda. E si ricorda un decimo di quello che ha vissuto. Quindi c’era questa fragilità del ricordo che mi commuoveva e se c’è qualcosa di commovente è proprio il sentimento che avevo di fronte al tema che trattavo, che era proprio la questione della memoria.
Nel disegno mi sono permessa di arrivare fino ai limiti dell’astrazione, e il bambino non ha paura dell’astrazione. Una scelta intrapresa anche per ragioni economiche, altrimenti il film sarebbe costato una tombola. Invece non volevo un film costoso, mi sembrava contraddittorio con l’idea del sciopero generale rappresentata. Un’intera città si ribella perché il potere d’acquisto si abbassa paurosamente e io faccio un film di 10 milioni per raccontarlo? Delocalizzo l’animazione? Mi sembrava un po’ incoerente, quindi lo volevo a basso budget.
La scenografa ha poi lavorato, appunto, per astrazione e semplificazione. Un bambino già disegna così dalla più tenera infanzia, e procede per sintesi e astrazione per capire il mondo.
Che dialogo c’è stato con il co-regista Sébastien Laudenbach?
Ho chiesto a Sébastien di realizzare Linda e il pollo usando il lavoro di ricerca stilistica che lui aveva intrapreso nel suo primo film, Le jeune fille sans mains. E lui aveva trovato questo stile perché quel film lo aveva realizzato da solo, con vincoli economici e di maestranza. Ma questo risultato, anche se diverso da Linda e il pollo, mi sembrava ideale.
Una linea che privilegiava il movimento e non la figura, e che tendeva alla monocromia (quello di Sebastian era un film molto meno colorato, e anche più ieratico).
Quel tratto mi interessava, e quando abbiamo chiamato gli animatori – prima ancora di dargli un model sheet – abbiamo insegnato loro il gesto, privilegiando il movimento. Per me l’animazione è una tecnica, e quando il film è stato scritto aveva uno stile di disegno potenziale che avrebbe potuto accogliere questa storia.
Quando è nato Linda e il pollo come progetto?
Una decina di anni fa. L’ho scritto e messo in un cassetto, in attesa che i tempi fossero maturi e che ci fosse uno stile appropriato, che non esisteva in quel momento. Linda e il pollo è costato due milioni e mezzo proprio perché ha adottato questo stile, che a ben pensarci è anche arte povera, che resta coerente con il senso del film.
Il film ruota attorno a un piatto di pollo con i peperoni, c’è un ricordo personale?
Sono 23 anni che vivo in Francia, ma sono di Roma. E quindi pensavo alla memoria di un piatto romano, a qualcosa che non trovi nei ristoranti ma che ti faceva mamma o – nel mio caso – la nonna.
E io devo aver mangiato questo pollo con i peperoni da mia nonna, e poi ho mai più rimangiato quel piatto, mia madre non lo ha più cucinato. È un piatto familiare, una ricetta privata. Inoltre in Francia, il pollo, si mangia la domenica in famiglia.
Quando sono arrivata a arrivata a Parigi mi facevo invitare la domenica da amici per poter mangiare il pollo. È un ricordo legato alle mie papille gustative di bambina, a Roma.
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