Nel 2013 Chiara Gamberale pubblicava Per dieci minuti. Stava vivendo un divorzio come la sua protagonista Bianca, il momento non era dei migliori e per risollevarsi si era promessa di fare ogni giorno per dieci minuti qualcosa di nuovo. A più di dieci anni di distanza dalla pubblicazione del romanzo, Maria Sole Tognazzi dirige Barbara Ronchi, Margherita Buy e Fotinì Peluso in una storia di rinascita. Un matrimonio andato in pezzi e, così, anche la protagonista, alla ricerca di stimoli che la facciano uscire dalla sua teca di cristallo.
Un adattamento a più mani, per cercare di rendere la versione al cinema di Dieci minuti più personale possibile. Un lavoro che passa prima di tutto dalla sceneggiatura, alla quale Tognazzi ha collaborato insieme a Francesca Archibugi.
Perché scegliere di scrivere con Francesca Archibugi?
È sempre stata un’esempio da quando ho cominciato come assistente e aiuto regia anni fa. Se ancora oggi le registe sono ben poche rispetto agli uomini, vi lascio figurare come poteva essere negli anni novanta, quando avevo appena cominciato. C’erano lei, Cristina Comencini, prima c’erano state solo Lina Wertmüller e Liliana Cavani. Ricordo ancora la prima volta che vidi Mignon è partita, fu una rivelazione. Da lì è diventata un punto di riferimento. Quando è arrivata la proposta di adattare Dieci minuti abbiamo accettato, mettendoci alla scrittura insieme.
Adattamento che ha molto del romanzo omonimo, ma con inserti del tutto originali. È riuscita a renderlo un film personale?
Quando si è in fase di scrittura la prima cosa che si comincia a fare è parlare. Si parla in due, in tre, in gruppo, durante vere e proprie riunioni e si inizia a buttare giù una scaletta. Si comincia anche a parlare tanto di sé. Durante queste conversazioni è nato il personaggio di Jasmine, che nel romanzo non esiste, in cui ho rimesso un po’ della mia storia. Anch’io ho scoperto di avere un fratello norvegese quando lui aveva nove anni, e la prima volta che ci è stato presentato non conosceva nemmeno una parola di italiano.
Un personaggio, la sorella minore di Fotinì Peluso, che contribuisce anche ad allargare lo specchio della femminilità nel film.
È il motivo per cui è stata inserita. Non solo per rivedere un tratto della mia vita, ma mostrare tre donne di generazioni e estrazione diverse in momenti altrettanto differenti della loro vita.
La prova che si può trasformare in personale la storia di altri?
Nella mia carriera, a parte i romanzi della serie tv Petra, ho sempre scritto i miei film. Era la prima volta che mi cimentavo in un adattamento. Per questa ragione avevo bisogno di poter mettere le mani sulla storia, di inventare e aggiungere. Ovviamente ho chiesto il permesso a Chiara Gamberale, che mi ha risposto: fa quello che vuoi, il libro è il mio, ma il film è tuo. E lo è diventato totalmente.
Merito anche del saper osservare? Alla protagonista Bianca le viene detto che non si può scrivere senza avere curiosità su di chi si ha intorno.
Sono un’osservatrice. Posso anche essere profondamente distratta. Ma non sarei una regista se non osservassi gli altri. Nel film il concetto dell’osservare è ancora più ampio. Bianca si era aggrappata al marito con cui stava da diciotto anni. Al momento della rottura si ritrova davanti a una realtà di cui, per la prima volta, si rende conto. Non aveva mai avuto davvero gli occhi aperti. Quando finalmente capirà cos’era che le mancava, riuscirà a trovare un’apertura per ricominciare.
Un’altra collaboratrice, che è una presenza costante nei suoi ultimi lavori, è Margherita Buy. Come prosegue il vostro rapporto? Le ha dato qualche consiglio per il debutto alla regia di Volare?
Sono dieci anni che lavoro con Margherita. Non c’è stato film in cui non l’ho voluta dopo la nostra prima collaborazione, anche qui Petra a parte. Ho scritto Viaggio da sola per lei e l’ho voluta per Tell It Like a Woman, opera diretta da sette registe provenienti da ogni parte del mondo. È un privilegio vedere la persona che è diventata e seguirne l’esordio. Credo che il passaggio dall’essere interprete a regista è fisiologico. Lo hanno fatto in tanti, prima uomini come Sergio Castellitto, e stanno cominciando anche le donne. Paola Cortellesi ne è l’esempio.
Ha fiducia per le registe del futuro?
Vedo che stanno fiorendo benissimo e mi piacciono tanto. Solo che, mi dispiace dirlo, ma anche chi ha talento fatica a farsi strada. Si è messa poi in moto questa macchina del tutto controproducente per cui a volte si predilige una donna non per le sue qualità, ma è come se le si stesse facendo un regalo o si stesse scontando una quota. La vera libertà arriverà quando l’uguaglianza sarà normalità e si vorrà un regista, donna o uomo che sia, per le sue abilità. Purtroppo siamo ancora molto indietro, ma le registe che si stanno facendo avanti sono la dimostrazione che uno spazio c’è, ora bisogna allargarlo.
Se da interpreti è naturale diventare registi, qual è il passaggio successivo per chi dirige? Finire davanti la macchina da presa?
Non credo sia il mio caso. Mi sento più della filosofia di Clint Eastwood, continuerò finché non sarò stanca. Al massimo potrei cominciare a produrre. Credo sia molto bello prendere a cuore il progetto di qualcun altro.
Il prendersi cura è anche uno dei temi principali di Dieci minuti. Trova tempo per ritagliarsi dei momenti per sé?
In questo periodo no. Ma la cosa meravigliosa di questo lavoro è che, quando si presenta la possibilità, posso prendermi anche parentesi più lunghe da dedicare a me stessa. Seppur la maggior parte delle volte è esattamente il contrario. Ma è fantastico anche così, no?
Bianca deve cimentarsi ogni giorno con qualcosa di nuovo. Ha provato anche lei durante la produzione di Dieci minuti? Ha superato qualche paura?
Credo che si imparino cose nuove ogni volta che si lavora e, sebbene può spaventare, bisogna sempre saper affrontare il cambiamento, anche quando non si è sicuri di poterlo accettare. Invece, per quanto riguarda una paura meno astratta, ultimamente ho affrontato la mia fobia per i gechi. Sono minuscoli, mangiano anche gli insetti e per questo ci aiutano, ma ne ho una paura inspiegabile. Diciamo che mi ci sono ritrovata proprio faccia a faccia quando, durante una vacanza in Tanzania, sono dovuta passere sotto a una porta con sopra quattro gechi. Mi sono coperta la testa e sono scappata, ma almeno sono riuscita a passare mentre camminavano sulla mia testa.
La sua protagonista affronta le proprie paure?
Sì, pur fallendo, perché è una donna vera, non un’eroina. Voglio raccontare le donne per ciò che sono. Per troppo tempo non è stato fatto, sono state filtrate da un occhio spesso maschile. Bianca di difetti ne ha, forse anche troppi. Non è perfetta, ha dei limiti e delle problematiche, ma comincia un processo per cui, a un certo punto, riesce anche ad ammettere la cosa più importante: “Forse ho sbagliato”.
Con quale filtro rappresenta invece i personaggi maschili nel suo film?
Intanto non bisogna generalizzare. Quando intendo filtro dello sguardo maschile è necessario specificare che non tutti hanno rappresentato le donne allo stesso modo, dipende dalla sensibilità di ogni regista. In Dieci minuti l’ex marito Nic di Alessandro Tedeschi è un personaggio che alla fine comprendi. Di cui non giustifichi i modi bruschi, ma non gli vai nemmeno contro. È troppo facile pensare che se un personaggio maschile non è centrale nella storia è perché ritenuto il cattivo. La verità è che siamo abituati a vederli sempre protagonisti, e appena vengono messi un po’ all’angolo si crede che si vogliano descrivere come il male.
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