Nella vita frenetica di tutti i giorni prendersi dieci minuti per fare qualcosa di nuovo è impossibile, quasi impensabile. È ormai inusuale potersi fermare per dedicarsi del tempo, una pratica di cui ci siamo dimenticati tra routine stancanti, veloci e sempre uguali. Uscire dalle abitudini significa abbandonare zone di comfort che noi stessi ci siamo creati, che ci fanno illudere di stare bene e che, in realtà, ci fanno svanire ogni giorno un pezzettino di più, finendo per perderci, a volte definitivamente.
Lo aveva capito Chiara Gamberale più di dieci anni fa, nel 2013, quando aveva fatto uscire il suo libro Per dieci minuti. E lo hanno ribadito Maria Sole Tognazzi, anche alla regia, e Francesca Archibugi, co-sceneggiatrice, nell’adattamento del romanzo, scegliendo come protagoniste del viaggio interiore della spezzata Bianca le interpreti Barbara Ronchi, Margherita Buy e Fotinì Peluso.
Sconvolta dall’improvviso abbandono del marito, uomo con cui ha condiviso la vita per diciotto anni, la donna comincia un percorso terapeutico per uscire da una quotidianità che le si è già sgretolata attorno e da cui deve cercare di trovare dei pertugi di novità in cui sapersi “sentire” di nuovo. Il non perdersi nelle abitudini in cui il suo matrimonio era cascato, nell’invisibilità dell’altro. Un ricominciare a osservare e cogliere i problemi delle persone che ci stanno accanto. Comprendere i propri errori per poter difendersi e difendere le persone che si amano.
Una protagonista fragile, che prova la soluzione più estrema – un tentato suicidio – quando il peso di ciò che ha intorno la stava per schiacciare. È il senso di oppressione che Dieci minuti combatte. Che nelle parole brusche di una psicoterapeuta come la dottoressa di Buy sbatte senza mezzi termini in faccia alla sua paziente, spingendola a uscire dalla teca di vetro in cui si è auto-isolata, per liberarsi dalle manette di un’esistenza piatta. Sospinta anche dalla cura amorevole, ma ferma e risoluta della sorella minore Peluso, fulcro di giovinezza.
Dieci minuti per ritrovare se stessi
E, nel mostrarsi più debole proprio quando ci si espone, si riesce a costruire una nuova corazza. Una che permetta di presentarsi nel mondo, non di temerlo. Che non faccia restare ciò che si ha intorno statico, bensì pronto ad accogliere l’imprevisto, le sfumature.
Nel riportarlo, Dieci minuti attinge dal dolore di una donna che è stata cieca, che ha sbagliato anche lei, e che non è riuscita a sopportare il peso delle sue mancanze. Ma le ha poi restituito una scintilla, seppur piccola, da cui poter ripartire. C’è una gravità per tutto il film attraverso la quale Maria Sole Tognazzi conduce la sua protagonista nelle svolte di una storia non propriamente lineare.
Che scambia i momenti, sposta e divaga, fa lunghe digressioni andando avanti e indietro nel tempo, restituendo più un quadro dello stato d’animo di Bianca che di una struttura narrativa canonica. Tutto in un blu che è nei costumi, nella scenografia, negli ambienti della pellicola. È la trasposizione visiva della tristezza e della malinconia, della depressione della donna. Ma diventerà anche la sua calma e stabilità. Il mare in cui bagnarsi e rigenerarsi.
Una trovata che permette al racconto e alla regia di restituire il peso drammatico del film, il mondo interiore della protagonista, diventando un’opera più di sentimento che di vero e proprio contenuto, facendone il centro di Dieci minuti, e non il reportage di una donna che, forse, riuscirà a ritrovare se stessa. È un diario segreto, un ritratto personale. È la storia di un essere umano che cerca il proprio posto dopo averlo perso.
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