Prima delle bolle che si moltiplicano sott’acqua, poi un lamento soffocato. Due elementi inquietanti che lasciano spazio alla tranquillità della superficie del mare. Si apre così Creature di Dio, pellicola presentata a Cannes 75 e diretta da Saela Davis e Anna Rose Holmer. Una metafora riuscita di quello che avviene nel paesino di pescatori irlandesi in cui è ambientata questa storia.
Creature di Dio, amore materno e senso di colpa
Aileen O’Hara (Emily Watson) lavora nella fabbrica ittica del villaggio. Si prende cura del nipote neonato e del padre ormai anziano mentre porta avanti un matrimonio infelice con un uomo violento. Quanto suo figlio Brian (Paul Mescal), dopo sette anni trascorsi all’estero, torna inaspettatamente a casa deciso a riavviare l’allevamento di ostriche di famiglia, la donna è al settimo cielo.
Ma l’incanto si spezza poco dopo (la colonna sonora di Danny Bensi e Saunder Jurriaans è ottima nell’evidenziarlo). Brian viene accusato dalla sua ex ragazza Sarah (Aisling Franciosi)– collega di Aileen in fabbrica – di stupro. La donna, per proteggere il figlio, mente fornendogli un alibi. Quella bugia tormenterà la sua coscienza, divisa tra l’amore per il figlio e un profondo senso di colpa.
Una società patriarcale e maschilista
Scritto da Shane Crowley, Creature di Dio è un film riuscito a metà. Se da un lato le prove dei suoi attori sono eccezionali – su tutti Emily Watson nel ruolo di una madre tormentata – dall’altro una certa freddezza nella messa in scena e nella scrittura (eccessivamente lunga nella prima parte) rischia di impedire un’immersione totale nel racconto e nella disperazione dei personaggi.
La natura irlandese – messa in risalto dalla fotografia infuocata di Chayse Irvin – divisa tra raffiche di vento e mari in tempesta, diventa nello sguardo delle due registe un’espediente narrativo con cui evidenziare le dinamiche marce tramandate di generazione in generazione all’interno della piccola comunità di pescatori. Creature di Dio è, infatti, un film sulla società patriarcale e maschilista.
Un società che osteggia le vittime ed esalta i carnefici. Il piccolo villaggio di pescatori in cui è ambientato il film è un microcosmo che diventa simbolo di un macrocosmo nel quale siamo tutti immersi. Solo trovando il coraggio di spezzare le catene di cicli che si ripetono uguali da sempre potremmo guardare all’apparente calma del mare senza paura che nasconda tumulti sotto la sua superficie.
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