Il 19 febbraio è il “grande giorno” per Sound of Freedom, un piccolo film che inspiegabilmente a Roma e nel Lazio è riuscito a ottenere la programmazione in più di 100 sale. Un numero che è “un privilegio ma anche una grandissima responsabilità”, scrive Federica Picchi, fondatrice della distribuzione italiana Dominus Production, in una chat “chiusa” di whatsapp in cui leggono oltre 600 persone. Solo di Roma e dintorni.
Insolito, sì, ed è per questo che incuriosisce al punto da fare la follia di iscriversi di proposito alla chat insieme a centinaia di sconosciuti, per capire chi sono le persone che andranno a sedersi in sala. E perché.
Nelle ultime ore, prima del debutto sul grande schermo in Italia, arrivano più notifiche del solito: “È importante essere presenti al cinema il lunedì 19″; “Se siamo primi in classifica tutte le sale chiederanno il film”; “Sarà d’impatto culturale per tutto il paese”; “Mi affido a voi, diffondete il messaggio”. Ma soprattutto: “Comprate o regalate un biglietto a chi volete bene”.
Sound of Freedom, il successo di biglietto in biglietto
Adottando interamente l’approccio degli Angel Studios – il controverso distributore statunitense che strizza l’occhio all’America trumpiana, a quella ultra-conservatrice e persino a quella complottista di QAnon – anche Dominus Production offre la possibilità del Pay It Forward, il biglietto sospeso che porta il concetto di passaparola a un livello superiore. Chiunque apprezzi Sound of Freedom – Il canto della libertà viene infatti invitato ad acquistare uno o più biglietti per le persone a cui desidera farlo vedere, gonfiando inevitabilmente i numeri della distribuzione. Perché un biglietto venduto conta come una persona seduta in sala, anche se quel posto resta vuoto.
Eppure nessuno sembra sollevare questa questione, né sembra davvero un problema per Dominus Production riuscire a riempire centinaia di sale. Ripensando all’anteprima romana di sole poche settimane fa, c’erano pochissimi giornalisti, ma decine di ospiti che si contendevano le ultime locandine da distribuire nelle proprie associazioni, c’erano suore e preti e famiglie intere, persino bambini. Per un film che, per quanto la distribuzione insista a portare nelle scuole (con una limitazione ai minori di sei anni) non tratta certo l’argomento più semplice da spiegare a dei minori. Quantomeno perché per mostrare sullo schermo il traffico di esseri umani a scopo sessuale bisognerebbe rivolgersi a un pubblico consapevole di cosa sia il sesso. E la scuola italiana non brilla certo per l’educazione affettiva e sessuale, inesistente.
Sound of Freedom: l’ideologia dietro un piccolo film che si sovrastima
L’odissea produttiva e distributiva di Sound of Freedom (di cui THR Roma ha parlato qui) è stato il caso dell’estate negli Stati Uniti. Non solo per gli spettatori certi di essere vittime di un sabotaggio nazionale, ma per la generica convinzione che l’opera firmata da Alejandro Monteverde, e bloccata in un limbo per cinque anni, fosse qualcosa che “i poteri forti non volevano mostrare”.
La verità, come sempre, è molto più banale. Sound of Freedom è vagamente ispirato alla vera storia di Tim Ballard, un ex agente del dipartimento di sicurezza nazionale degli Stati Uniti che, durante le indagini su un caso di pedofilia, scopre un traffico internazionale di bambini. Non potendo proseguire le indagini nella giurisdizione statunitense decide di agire da solo, salvando centinaia di bambini. Un’ottima storia, in realtà.
L’occasione però è fin troppo appetitosa per una certa narrazione tipicamente statunitense, quella dell’eroe solitario contro il mondo. Il Superman che riesce in ogni impresa, per quanto assurda sia. È così che inizia il viaggio di Tim Ballard/Jim Caviezel all’inseguimento di trafficanti e pedofili tra l’Honduras e la Colombia, fino alle popolazioni di ribelli armati disperse nell’Amazzonia. Tutto per ritrovare una sola bambina, che diventa il simbolo di ogni altra vita salvata.
Resterebbe un classico cliché dal comparto tecnico di qualità appena sufficiente e nessun guizzo di scrittura, se non ci fosse la musica a dare il colpo di grazia. Una colonna sonora fin troppo epica e ridondante porta infatti le scene d’azione ai limiti del ridicolo, più che agli estremi adrenalinici che vorrebbe raggiungere.
Il film da fare Vs il film che è stato fatto
L’unico motivo per cui Monteverde ha impiegato cinque anni a portare il suo film nelle sale è perché, in realtà, non sarebbe mai dovuto arrivare. Era stato venduto alla Fox (storicamente l’emittente più vicina a Trump e ai valori trumpiani) poco prima della fusione con la Disney. La Walt Disney Company non l’ha mai voluto e ne ha restituito i diritti al regista. L’unica fortuna di Sound of Freedom è stata quella di trovare sulla sua strada un alleato prezioso ma insidioso come gli Angel Studios, che l’hanno trasformato in uno strumento di propaganda di matrice religiosa e ultraconservatrice. Che evidentemente ha trovato adesso terreno fertile anche in Italia.
La storia originale di Alejandro Monteverde, infatti, va in tutt’altra direzione ed emerge, debole, in trasparenza sotto il film di cui gli Angel Studios si sono appropriati. È la storia di un trauma irrisolto, di due lutti impossibili da metabolizzare, le morti del padre e del fratello, avvenute nel 2015 per mano violenta di un gruppo criminale che li aveva rapiti e tenuti in ostaggio per una settimana.
La questione va quindi oltre il film, bello o brutto che sia, preso nella sua interezza e rivestito di una patina che inizialmente non gli appartiene. Monteverde prova ben oltre le sue possibilità a portare a termine una storia coerente, in cui è piuttosto facile provare empatia e preoccupazione per i bambini al centro del racconto, ma in cui è tutto il resto a non funzionare in armonia, restando senza equilibrio. L’epopea è sproporzionata allo scopo e nonostante questo, purtroppo, c’è chi in questa esplosione superomistica vedrà un esempio di resistenza culturale anziché la mediocrità di un’opera che aveva in sé più potenziale.
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