Cosa resta di Barbie, dopo l’estate che ha scaldato i botteghini di mezzo mondo? Case da sogno in tutte le sfumature del rosa, paillettes, tacchi 12 e capelli biondo ossigenati, certo, ma soprattutto l’ondata di “girl power” che ha allagato le sale cinematografiche del mondo reale: un inno alla sorellanza in un mondo creato da uomini che tirano i fili delle bambole come marionette. Ma attenzione, c’è ancora una domanda a cui rispondere. Se la fa Billie Ellish nel brano cult parte della colonna sonora: What I was made for? Per cosa sono stata creata?
Processi di identificazione
La risposta non è a portata di mano e la questione ci riguarda tutti e tutte. Perché ci fa capire come questo piccolo giocattolo abbia cambiato l’immaginario di milioni di bambine nel mondo, con processi di identificazione fino ad allora inimmaginabili, e come questo film, oggi, può essere utile alla moltitudine di adolescenti che sono andate a vederlo.
Prima del 9 marzo 1959, data di nascita e messa in produzione da parte della Mattel della più famosa bambola del mondo, le bambine giocavano a “fare la mamma” con bambolotti che avevano le sembianze di neonati o bambini piccolissimi; con Barbie la maternità viene messa da parte, a favore di una femminilità apparentemente emancipata ma anche fortemente stereotipata. La voce narrante di Helen Mirren nel film spiega: “Essere una madre può essere divertente, ma ad un certo punto ci si stufa”.
Il fatto è che questo film ci racconta anche qualcosa che a che fare con la diffusione epidemica dei disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia) per la potenza di quel corpo nel paese di Barbieland, che per primo propone una magrezza androgina, modelli culturali che hanno spinto la ricerca della magrezza oltre ogni ragionevole mezzo e hanno preparato la strada a patologie alimentari, oggi diffusissime anche da noi (i dati del 2022 ci parlano di 3 milioni di persone che in Italia soffrono di tali patologie).
La “dieta” di Barbie
Un autorevole studio del 2021 dal titolo “The effect of playing with thin dolls on body image and food intake in young girls” parte da un test esperienziale: a un gruppo di bambine tra i 6 e i 10 anni viene casualmente assegnato un gioco, tra una Barbie, una bambola di taglia media e un Lego. Dopo 10 minuti vengono sottoposte ad un food test, le bambine che hanno giocato con la Barbie mangiano il 30% in meno rispetto a chi ha giocato con gli altri giocattoli.
Ma il film, proprio perché è straordinariamente attraente e divertente, costituisce una sorta di cavallo di troia per generazioni di adolescenti che di femminismo non hanno mai sentito parlare, se non come leggende materne. Alla fine le ragazze di oggi che vedono il film, oltre ad andarsi a comprare vestiti rosa, usciranno con il dubbio che forse i rapporti tra i sessi non sono così scontati, come per le generazioni che le hanno precedute. E che ancora c’è molta strada da fare per superare stereotipi maschili, come lo straordinario Ken vestito da cowboy o tappezzato di orologi da polso.
Mondi paralleli
L’efficacia del film visto da una adolescente di oggi è proprio nella dicotomia del mondo virtuale, perfetto, Barbieland, contrapposto al mondo reale, che è molto diverso da quello che lei, Barbie, e alla fine tutte le adolescenti si immaginano. Nella realtà Barbie scopre di non essere perfetta, che i toast si bruciano, che può avere la cellulite, che si può deprimere. Insomma tutto quello che un adolescente scopre nel mondo degli adulti quando esce dal mondo protetto dell’infanzia.
Il film lo fa con il linguaggio visivo, forse semplificato, ma diretto, in fondo lo stesso linguaggio che usano i social, che è per i ragazzi linguaggio universale. Ci parla in modo ironico di questa metamorfosi degli adolescenti, che più che dal desiderio di essere belli sono assediati dal terrore di essere brutti. E su questo gli adolescenti di oggi, maschi e femmine, sono accomunati purtroppo dallo stesso destino, anche se con declinazioni diverse, quello di non essere all’altezza del mondo, di essere imperfetti e non desiderabili.
Barbie tra paure e desideri
Il successo mondiale del film ci parla dell’insuccesso narcisistico che pervade generazioni di adolescenti, ma lo fa con la chiave di una commedia esilarante. Piace agli adolescenti, forse meno agli adulti, perché non esprime giudizi sulla imperfezione, sulla inadeguatezza, sulla paura di entrare nel mondo reale. Ma dice anche a noi adulti di imparare linguaggi nuovi per comunicare con il mondo degli adolescenti, linguaggi diversi da quelli che hanno funzionato per noi. Costruire narrazioni della realtà che esorcizzino paure e desideri rimane comunque il bisogno di ogni incontro tra generazioni, soprattutto oggi che questa distanza sembra a volte incolmabile.
Eppure la denuncia di quanto sia pericolosa, per adolescenti e adulti, la rincorsa verso la perfezione, e di quanto sia fondamentale una educazione all’uguaglianza e alla diversità sin da piccoli, è il messaggio che tra ironia e invenzioni visive ci arriva da questo film. Non è poco.
*psichiatra e psicoterapeuta
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