Si sta, come i primi spettatori della storia del cinema, guardando al futuro. Sull’isola di San Servolo – il luogo dei “matti”, questo era l’antico manicomio –, sorgerà il Csc Immersive Arts, primo polo formativo sulla realtà estesa in Italia e in Europa. Chi lo ha immaginato qui spera che il respiro di “follia” che soffia nel luogo si trasformi in energia creativa. Come il treno che spaventava il pubblico alla prima proiezione del film dei fratelli Lumière, così le arti immersive hanno la capacità di interrogarci, di farci sentire spaesati davanti a un medium in cambiamento, che contiene al suo interno tutti gli altri, evoluzioni comprese.
La rappresentazione massima dell’epoca digitale. La sua astrazione che prende forma e che diventa scuola per una classe di 12 alunni internazionali, a cui viene data l’occasione di dedicarsi anima e corpo alle opere XR (Extended Reality, termine generico per indicare la combinazione tra realtà e tecnologie immersive). Un progetto nato da Veneto Film Commission e Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia grazie a un accordo regionale. Uno sguardo sull’autorialità, perché di questo si può parlare. Nonché di spazi, avamposti e storytelling. O, in alternativa, della loro assenza. Ce lo spiegano Marta Donzelli, ex presidente della Fondazione Csc, e Sara Tirelli, direttrice del progetto che, a tutti gli effetti, è la scuola del futuro.
Come e perché nasce il polo Csc Immersive Arts?
Sara Tirelli: Le ragioni sono due. Sia perché in Italia, rispetto all’Europa, non abbiamo le infrastrutture adatte e, quindi, non produciamo ancora a livello professionale opere XR. Sia perché rappresenta un’estensione del linguaggio cinematografico. È un investimento. È metterci in riga per stare al passo con i cambiamenti estetici e linguistici dell’immagine in movimento che stanno avvenendo nel resto del mondo. Il gaming ha ancora una forte predominanza nello sviluppo delle opere di realtà aumentata, tanto da averne fagocitato l’idioma, finendo per standardizzarlo. Quello che faremo con il Csc Immersive Arts è un lavoro di ricerca e produzione. Non sarà un cammino universitario, ma un corso concepito come un anno di residenza creativa, perché vogliamo che chiunque, registi, attori o architetti, possano andare a fondo di una disciplina ampia e articolata.
Marta Donzelli: Sono convinta che il cinema possa dialogare con il futuro. Magari non anticiparlo, ma sicuramente intravederlo. È l’unico modo per muoversi nel settore artistico, mettendo a disposizione gli strumenti per moltiplicare i punti di vista. Ho avuto un’interessantissima conversazione con Liliana Cavani al riguardo, in cui ha notato come oggi, a differenza del passato, sia più facile girare e realizzare i propri lavori. Quello che vogliamo fare è metterci ancora più a disposizione dei giovani creativi, costruire un polo di ricerca al confine tra arte e tecnologia.
Avete scelto un’isola, San Servolo, nella città di Venezia, che già da anni ospita la sezione di Venice Immersive durante il periodo della Mostra del cinema. C’è per caso un legame?
M.D.: La sede storica del CSC è ovviamente Roma. Il lavoro sul territorio è primario, per questo oltre ai poli già presenti (Torino col corso di animazione, Milano quello pubblicitario e di cinema d’impresa, Palermo col documentario e il cinema del reale e L’Aquila con reportage e audiovisivo, ndr), ne nasceranno altri. A Matera ci sarà un green hub e a Cagliari una scuola di musica per film. Il dialogo col Veneto nasce grazie a un’idea di Jacopo Chessa, direttore della Veneto Film Commission, e dalla collaborazione di Sara insieme a Savina Neirotti. Stanno preparando per gli studenti il calendario delle materie e delle lezioni. Siamo i primi a realizzare una scuola pubblica di così alto livello per la Realtà Virtuale (VR): i costi dei corsi sono contenuti se paragonati agli standard di questo tipo di docenza.
S.T.: È stata una convergenza di situazioni fortunate. Dall’incontro con Chessa al vedermi proposto un ruolo che, da cineasta, sapevo non era ancora presente a livello istituzionale in Italia. La Biennale è una potenza, organizza uno degli showcase più interessanti al mondo sulle opere XR. E visto che Venezia è una di quelle città immersive per eccellenza, volevamo integrarla nel discorso che andremo ad applicare ai temi della scuola, che mette in primo piano l’interazione tra umano e paesaggio urbano. In fondo, quello che l’immersività permette, è di sentirsi come quando il corpo si trova in acqua. Quale città poteva essere più indicata.
Un piano curriculare che comprenderà sia attività tecniche, che studi filosofici, è corretto?
S.T.: È necessario rivolgersi a una specificità dell’anima quando si tratta di sperimentare nuove visioni. Per questo siamo in comunicazione con l’università statale di Milano che, in riferimento al progetto An-Icon (senza icona, senza inquadratura, spiega Tirelli, ndr) del dipartimento di filosofia, si dedica allo studio dell’immagine ambientale. È l’unico progetto simile in Europa. Deve esserci un approfondimento teorico per supportare l’apparato tecnico, altrimenti quest’ultimo rimane un vezzo. Nelle opere in XR il concetto stesso di realtà viene messo in discussione. La più grande esperienza è quella dello spatial storytelling, ovvero scolpire uno spazio che diventa storia di per sé.
M.D.: Ho una laurea in filosofia, uno studio di dottorato e ho pensato anche potesse diventare la mia carriera prima di passare al cinema. Ciò che mi attrae della combinazione tra cinema e filosofia, e di conseguenza il mondo delle arte immersive, è il mettere in discussione il nostro modo di vedere la realtà. Non c’è nulla di dato, è tutto un punto di vista, anche le verità scientifiche. Coloro che videro l’arrivo del treno dei Lumière, primo film della storia del cinema, vissero un’esperienza scioccante. Credettero di venire investiti. Considerati i timori che provocano intelligenze artificiali e universi in espansione, è bene fermarsi e studiare, così da poter conoscere e regolamentare. Con San Servolo eserciteremo un ruolo attivo nello smuovere la coscienza, tanto a livello etico che giuridico.
Proprio come i fratelli Lumière, anche voi state muovendo i primi passi in un nuovo mondo. È possibile parlare già di autorialità nelle arti immersive?
S.T.: Sì. Anche il cinema ha dovuto affidarsi ai testi teatrali agli inizi. Poi è riuscito a distaccarsi. Ma bisogna capire che non c’è niente di inedito, niente di inesplorato. Cos’è il linguaggio cinematografico se non un’evoluzione dei graffiti preistorici? Quello che vogliamo insegnare con il Csc Immersive Arts è che un’autorialità non solo è possibile, ma necessaria. Altrimenti le opere XR rimangono gioco, trucco di prestigio, effetto “wow”. Non vogliamo nemmeno il solo espediente dell’intrattenimento, anche se bisognerà comunque trovare degli strumenti per far uscire le persone di casa per sperimentare visori e schermi immersivi. L’obiettivo è un’esperienza percettiva che sia totalizzante per lo spettatore. Non vogliamo una simulazione della realtà. L’abbiamo già, non ci interessa. L’obiettivo è che nel futuro l’artista si approcci con ingegno al lavoro, sapendo usare il media a disposizione con gusto e visione. Dal teatro alla performing art fino al cinema, tutto può convergere nelle arti immersive. Basta che le opere XR diventino poi un’altra cosa. Unica, riconoscibile e individuale.
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