Allora, voi prendete il famoso alieno che sempre s’immagina finisca tipo novello Candide sul festival della fu canzone italiana. Se Sanremo 2024 è l’unico squarcio di umanità che gli tocca in sorte, quel poveraccio di extraterrestre crederà di essere sotto acido: una visione abnorme, una specie di inferno dantesco coloratissimo, un frullato di immagini impazzite nelle quali convivono i carabinieri a cavallo del quarto reggimento che suonano la marcia d’ordinanza, accompagnati “dalla cagnolina mascotte di nome Briciola”, dove re Amadeus V è pizzicato a farsi il segno della croce prima di salire sul palco, dove Fiorella Mannoia in abito da sposa bianco e piedi nudi canta di streghe al rogo, di madonne e di orgasmi in una specie di reggae popolare un po’ zompa-zompa da balera e dove Fiorello balla con un cilindro in testa davanti all’ingresso dell’Ariston.
E dove il Mengoni Marco si presenta con la maglia metallica e ugola fino a farci venire il mal di mare, dove i Ricchi e Poveri imbalsamati come Tutankhamon si presentano avvolti in un gigantesco fiocco rosso, dove un altro, Ghali, fa venire tra il pubblico del venerato Teatro Ariston un pupazzo d’alieno che sembra più che altro un ippopotamo, dove una Loredana Berté dai capelli blu canta una canzone da bambini vestita di rock e dove senza alcuna soluzione di continuità ci si ritrova a parlare di un ragazzo ucciso praticamente senza nessun motivo sensato a Napoli, Giò Giò, un musicista, nella commozione della povera madre, mentre sembra proprio che le canzoni evaporino nel grande nulla cosmico.
Sarebbe questa il festival “che unisce il paese”, come diceva la mattina della prima serata la presidente della Rai Marinella Soldi? “Può accadere di tutto”, dice ammiccando il sommo direttore artistico Amadeus, lo stesso che di fronte all’esercito di giornalisti accreditati intonava ieri Bella Ciao ben felice della rombante rassegna stampa del giorno dopo (Mengoni, accanto a lui, si asciugava il sudore, nel dubbio di aver appena compiuto il peggiore errore della sua carriera). Finge “scherzi” che gli verrebbero preparati in diretta, il gioviale Kim Jong-Ama, quando il mondo sa perfettamente che è tutto scritto sin nel minimo dettaglio, specie le terrificanti gag con Fiorello e con Mengoni, che “veste” i momenti memorabili dei festival dei bei tempi che furono, dal Cavallo pazzo di baudiana memoria agli spartiti lanciati in aria dai professori d’orchestra al Sanremo 2010 vinto da Valerio Scanu, poi finito nel Purgatorio dei dimenticatissimi del festival.
Non pare esserci salvezza possibile: non ci salva il palco blu dipinto di blu che pare un’astronave di Alien, appunto, non ci salva di certo il finto punk dei La Sad, men che mai il gorgheggìo iper-enfatico dei Negramaro, ma neanche il vestitino cubista di Clara, la transfuga di Mare Fuori (il pubblico adolescente è servito, principale riserva di caccia di Amadeus, anche con discreti risultati, ché da un po’ il festival è tornato in auge sui social), e neanche l’intenso Mahmood che anche lui, come metà di quelli l’hanno preceduto, abusa dell’autotune in salsa etnica spingendoci verso gli abissi dei sensi mentre la telecamera gli si appiccica sulle occhiaie tanto gli sta vicina.
Il bello è che in nome della cosiddetta popolarità più o meno tutti stanno al gioco. Il mondo intero, il paese, l’informazione: Sanremo è una sorta di immenso gioco di ruolo in cui tutti fanno disciplinatamente la loro parte. Tutti amano il festival, anche quelli che non ne amano la musica, quelli che lo detestano sono perfetti nel loro ruolo di detestatori, quelli che pompano le polemiche lo fanno con lo stesso cinismo di quelli che fingono di subirle ma osservano con attenzione tutte le curve del Dio Auditel.
Tuttavia una cosa bisogna concedergliela a re Amadeus V, che è al suo quinto festival e con regale grazia fa sapere che accetterà un’altrettanto regale successione: in qualche modo lui e la Rai riescono a mantenere quella palpitazione, quell’atmosfera da emozionata e costante eccitazione che è il vero marchio di fabbrica di Sanremo, quel collante che fa sì che una fetta molto importante di popolazione senta di non potersi astenere dal partecipare a questo astruso rito collettivo che è il festival della fu canzone italiana.
Perché di rito si tratta, una immensa sagra paesana multicolor e lampeggiante, per quanto acida e surreale, una grande catarsi collettiva. Amadeus viene venerato perché incarna alla perfezione questa parte: un po’ imbonitore, un po’ padre unificante della patria, un po’ interprete di quello viene intercettato come sentimento comune, collettivo, degli italiani, una specie di denominatore comune popolare che va dalla condiscendenza verso il teenager tatuato al gongolamento per lo sportivo famoso (in questo caso Ibra e la sciatrice Federica Brignone). Certo, non c’è un filo di ironia in Amadeus se non quella dell’imbonitore, appunto, se non quella travasata dall’amico fraterno Fiorello. Casomai, il conducator venuto dalla Romagna certe volte indulge in una tonalità enfatica alla Istituto Luce nell’annunciare i cantanti in gara, cose del genere “di ritorno da una tournée formidabile ai quattro angoli del pianeta”.
Poi, certo, è vero pure che il sentire comune nel tempo si modifica: un tempo derubricato al reparto ultra nazional-popolare, l’oggi emozionatamente omaggiato Toto Cutugno appare come un gigante verso il quale non si può non sentire una commossa e pacata nostalgia. Dopodiché il festival cavalca a velocità mozzafiato verso la notte più profonda e forse anche questo può essere considerato uno dei meriti di Amadeus V, nonostante che BigMama giuri, anche lei con la voce distorta, che “il buio ti mangia”, e nonostante che Angelina Mango (tra i favoriti, giurano i bene informati del festival) remi contro ululando a raffica “la noia, la noia, la noia”. Strano, perché tutto qui è costruito per essere “evento”, a cominciare dalla presenza di Mengoni, che è l’unico a prendersi boati trionfali.
Ma come diceva Hegel, qui è un po’ come una notte in cui tutte le vacche sono nere: accavallando freneticamente crescendi e orgasmi, la sensazione che rimane è il vuoto. Parola di alieno.
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