La serie Netflix in tre parti Depp v. Heard di Emma Cooper, che esce più di un anno dopo l’estenuante conclusione del processo per diffamazione di Johnny Depp contro Amber Heard, è l’insieme di commenti social e filmati di testimonianze in aula raccolti in questi mesi, racchiusi in forma documentaria.
L’operazione svolta da Cooper fornisce una panoramica di quello che potrebbe essere o non essere stato il primo “processo TikTok”: cogliere la sciatteria del procedimento legale e i pregiudizi spettacolari del pubblico online. E, soprattutto, dire esattamente ciò che era già evidente a tutti fin dall’epoca dei fatti.
Per chi è stato in coma per circa dieci anni, Depp v. Heard potrebbe essere sicuramente una visione illuminante – oltre che sconfortante -, ma per il resto di noi che erano “presenti” durante le lotte furibonde tra i divi, le situazioni e le dichiarazioni riportate sono già state viste e già state sentite, tanto che non si capisce bene chi sia il pubblico di riferimento della docuserie.
Senza dubbio il progetto, della durata complessiva di tre ore, poteva veder tranquillamente tagliate alcune sue parti. Depp v. Heard racconta le basi del processo avvenuto nella contea di Fairfax, in Virginia, attraverso un flusso di informazioni note ai più, e che avrebbe funzionato meglio se fosse stato in grado di trovare notizie inedite o di montare i filmati che ormai conosciamo a memoria in modo da presentare un nuovo contesto.
Depp v. Heard, quando un documentario dovrebbe approfondire e non lo fa
Con Depp v. Heard, il grande sforzo strutturale di Cooper – e del suo montatore – è stato mettere le testimonianze di Depp e Heard una accanto all’altra, in modo da ottenere i rispettivi punti di vista su incidenti di cui hanno parlato tutti: dalla cacca nel letto al polpastrello tagliato, fino alla lite in aereo.
Il tutto è intervallato da opinionisti da tastiera, alcuni dei quali vantano credenziali legali, mentre altri semplicemente una devozione spassionata per la star dei film dei Pirati dei Caraibi.
Depp v. Heard non dice nulla in più sul caso, anzi, ci dice decisamente meno di quanto sapevamo all’inizio. Molte informazioni “legali”, inoltre, vengono a malapena menzionate, come dire: “La maggior parte delle persone che blaterano sul caso non hanno compreso la legge sulla diffamazione della Virginia, se non a livello superficiale, quindi per quale motivo dovrebbe farlo il documentario?”.
La docuserie ci concentra molto sull’opinione pubblica, ma non in modo originale o interessante, né tale da porre domande o di cercare risposte.
Ci sono sicuramente dei punti in cui i commentatori del documentario riconoscono e osservano che la conversazione online intorno al processo è stata tossica: non tanto il fatto che la gente abbia sostenuto Depp piuttosto che Heard, ma che i fan dell’attore lo abbiano assecondato come fossero una bizzarra e allegra famiglia, mentre le risposte su Twitter all’attrice tendevano sul versante dell’abuso e della misoginia.
Fazioni e misoginia nello scontro tra divi (e i loro fan)
Già all’epoca la gente si era accorta della falla sociologica creata dal processo. Ecco perché Depp v. Heard è in grado di poterla riconoscere e discutere, pur essendo privo di qualsiasi approfondimento.
Il lato anti-Heard del discorso proviene da fanatici appassionati, personalità che indossano maschere da Deadpool o sono inclini a urlare in modo volgare e inconsulto nelle loro webcam. Il lato pro-Heard, invece, è ripreso tramite dei tweet isolati.
Non si tratta tanto del fatto che Cooper voglia che il suo documentario sia equilibrato, quanto il fatto che voglia raccontarne proprio lo squilibrio, cosa che apparentemente è quasi impossibile senza perpetuare in un ulteriore scompenso.
Se il concetto è rendersi specchio di internet, allora può anche andare bene. Ma se internet è, nella sua massima espressione, già una galleria di specchi, allora diventa un ouroboros, senza nessun appiglio autentico ai fatti di cronaca.
Cooper tradisce così il formato documentario a destra e a manca, sia che si tratti del testo, in qualche modo, pro-Heard o di rievocazioni di “persone comuni” incollate ai loro telefoni mentre fanno “cose comuni”, come sostenere o demonizzare le star di Hollywood. E alla fine, la vera domanda è: in caso si ripresentasse una circostanza simile, saremo costretti a subire un altro “processo TikTok”?
Forse con più distacco, più introspezione e retrospettiva, un giorno potremmo avere davvero un buon documentario sul processo Amber Heard/Johnny Depp, sul circo mediatico che lo ha accompagnato e su ciò che tutto questo ha rivelato sugli spazi online e sulla conversazione culturale che, spesso, si rivela avvelenata.
Traduzione di Pietro Cecioni
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma