Il terzo episodio di Silo su AppleTV+ è il più lungo, dura 62 minuti. Ma è anche il più emozionante dei dieci della prima stagione. C’è una scena mozzafiato, il culmine della puntata: il tentativo di riparazione di un enorme generatore di corrente, quasi in tempo reale. Non è necessariamente l’episodio migliore, ma è garantito che vi farà battere il cuore a mille. Ed è una cosa buona.
Quello che non è altrettanto buono è che la corsa per aggiustare il generatore cancella ogni interesse verso il principale caso di omicidio della serie. La scena introduce e conferma le capacità della protagonista, che vengono a malapena sfruttate negli episodi successivi. Per giunta, la figura chiave della sequenza è un personaggio che, a meno che non stia dimenticando qualcosa, non viene quasi più menzionato.
Non c’è assolutamente nulla di sbagliato nell’inserire un episodio stand-alone così presto nella serie – Long, Long Time di The Last of Us è un recente e straordinario esempio – ma nel caso di Silo, questo episodio riassume allo stesso tempo cosa c’è di valido e cosa c’è invece di frustrante nella serie.
Silo è altalenante
È facile lasciarsi coinvolgere dall’adattamento dei libri di Hugh Howey, firmato da Graham Yost (Justified). Ma non è altrettanto facile lasciarsi coinvolgere da ciò che interessa ai protagonisti della serie. A volte la costruzione del mondo di Silo è superba, mentre la sua trama principale vacilla. Altre volte, invece, la trama principale si infiamma e la costruzione del mondo diventa insensata.
A volte i colpi di scena sono ridicoli nonché ovvi, ed è un insulto all’intelligenza del pubblico il fatto stesso che vengano trattati come qualcosa di inaspettato. Anche se è vero, alle volte alcune delle rivelazioni di Silo sanno essere abbastanza soddisfacenti. Alcune interpretazioni sono piuttosto solide, ma lo show ha la tendenza a eliminare bruscamente i personaggi chiave, di solito in modi deludenti anziché scioccanti. Inoltre, c’è almeno un’interpretazione che ne sbilancia il peso drammatico, risultando del tutto insoddisfacente.
L’ascensore sociale è rotto
Silo è ambientata in un futuro lontano. Un evento apocalittico ha reso la Terra inabitabile, tanto che oltre 10mila sopravvissuti vivono in un silo sotterraneo. Cosa è successo? Quando è successo? Nessuno lo sa. Perché 140 anni prima un gruppo di ribelli ha distrutto tutti i registri esistenti cancellando gran parte della sua storia.
Il Silo è di oltre 140 piani. Denso di abitazioni altamente stratificate, con una vasta scala a chiocciola al centro. Le autorità e l’élite sono in cima, i colletti bianchi al centro e la sezione meccanica dei colletti blu, insieme alle invisibili miniere punitive, si trova in fondo. La mobilità verso l’alto è minima, socialmente e fisicamente. I Fondatori – scrivendo un documento chiamato Patto – hanno proibito l’installazione di ascensori, ed è ben lontano dall’essere la norma, o il regolamento, più ridicolo del Silo.
La supervisione dell’insediamento è affidata alla Sindaca (Geraldine James), che conserva il suo apprezzato mandato da quarant’anni, e al rispettato sceriffo Holston (David Oyelowo). Ma il vero potere è nelle mani del reparto informatico, gestito da Bernard (interpretato da Tim Robbins), o forse degli ufficiali del reparto giudiziario, rappresentati dal glaciale Sims (interpretato dal rapper Common). La peggiore forma di punizione di questo mondo è quella di essere costretti a lasciare il Silo. Coloro che lo hanno lasciato non hanno mai fatto ritorno, o non sono mai riusciti a percorrere più di 50 metri senza crollare e morire. Una fine che viene osservata dall’intera comunità da una sala di monitoraggio.
Assassinio nel Silo
Si tratta di uno di quei mondi distopici in cui il peccato più terribile è mettere in discussione lo status quo, cosa che Allison (Rashida Jones), moglie di Holston, inizia a fare. Ben presto, altre persone si pongono domande sul mondo esterno e su quello interno. La situazione precipita quando un uomo molto interessato alle reliquie proibite – cioè qualsiasi cosa collegata all’era precedente – viene trovato morto, e un’operaia, senza peli sulla lingua, (Juliette, interpretata Rebecca Ferguson) sostiene che sia stato assassinato.
Sostenuto dalla scenografia di Gavin Bocquet, Silo ha a modo suo un aspetto fantastico, pieno di ombre, in gran parte grigio e marrone. Le piccole esplosioni di colore, tra cui il rivestimento dai toni smeraldo nell’ufficio dello sceriffo, sono ben utilizzate e puntano a un’eleganza futuristica e trasandata di grande effetto. Lasciando la trama completamente fuori dall’equazione, si è curiosi di scoprire come il Silo gestisse l’agricoltura, la fertilità e persino gli orari dei pasti. Ma le risposte fornite non sono sempre rivelatrici.
Convincente, ma frettoloso
Ci sono molte cose che la serie vuole farvi credere basandosi soltanto sulla parola o costringendo ad approfondire la storia attraverso i libri. Anche se alcune domande – Cos’è il “Giorno del Perdono”? Perché hanno computer vintage in stile anni ’80, ma nessuno capisce il concetto di “video”? – vengono intenzionalmente eluse. Non si tratta di un mondo rivoluzionario rispetto a innumerevoli altre narrazioni post-apocalittiche, ma è sufficientemente vissuto per convincere lo spettatore, anche se sarebbe servito un po’ di respiro in più.
Ma Silo è determinata a procedere a singhiozzi, e ciò include un trattamento frettoloso dei personaggi. Rebecca Ferguson è la star, e porta una grande forza nelle sue scene, persino con occasionali tocchi di umorismo. Questo deve aver richiesto un certo sforzo, dato che i primi tre episodi di Silo sono diretti da Morten Tyldum, che di solito si prende molto sul serio.
Il cast alla prova
Ferguson è così brava che spesso le si perdona il fatto che qualsiasi accento usi, sicuramente non lo stava facendo in modo coerente. Il casting si è sforzato di riempire l’ensemble di britannici di varia caratura – Iain Glen, Harriet Walter, Chinaza Uche, tutti piuttosto bravi – così se c’è un’incoerenza, è almeno un’incoerenza coerente. E poi, chi può dire come sia l’accento di Silo? Quindi forse la miriade di accenti sconnessi non sono tanto sbagliati.
Common, purtroppo, è l’anello debole del cast. È particolare come attore: una presenza che colpisce subito, generalmente convincente dal punto di vista fisico e con una strana cifra emotiva. In contrasto netto con la sua passione per la musica e il suo personaggio non cinematografico. La sua performance si riduce ad una bella giacca di pelle – inspiegabile, dato che nessun altro nel Silo sembra andare dallo stesso sarto – e a un sorriso perenne. In contrapposizione netta alle sfumature morbide e insinuanti di Robbins e alla focosa e perpetua irritazione di Ferguson, la mancanza di inflessione di Common lascia a desiderare.
Un andirivieni di personaggi
Anche se Silo avesse avuto un antagonista forte, il punto focale dei primi dieci episodi sarebbe stato comunque discontinuo, concentrandosi prima su un misterioso caso di omicidio, e andando poi alla deriva verso una crisi esistenziale al momento successivo.
I personaggi vanno e vengono e a volte si investe su di loro tanto da sentirne l’assenza, mentre altre volte si nota a malapena il loro arrivo e ci si chiede: “Aspetta, quella persona era importante?”. Ma ciò che conta di più è il modo in cui ci si avvicina alla destinazione finale. La chiusura di Silo arriva in un punto che, pur non essendo davvero strabiliante, fa venire la voglia di passare più tempo su questo mondo, soprattutto con alcune di queste persone.
Traduzione di Nadia Cazzaniga
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