“Quando l’ho scoperto ero sul set. Sono molto contenta della candidatura. Non mi stupisce, credo sia un progetto valido che ha raccontato delle storie che – al di là del fatto che ci appartengano culturalmente in Italia – vanno molto oltre la classica serie crime sulla mafia. Sono felice che il mondo se ne sia accorto”. La voce di Valentina Bellè è inconfondibile. Bassa e calda, con una leggera inflessione veneta. Dall’altra parte della cornetta l’attrice racconta a THR Roma della candidatura di The Good Mothers ai Critics’ Choice Awards come miglior serie straniera – la cerimonia si terrà il prossimo 14 gennaio a Los Angeles – dopo aver vinto la prima edizione del Berlinale Series Award lo scorso febbraio a Berlino 73.
Diretta da Julian Jarrold ed Elisa Amoruso, The Good Mothers – disponibile su Disney + – è l’adattamento scritto da Stephen Butchard dell’omonimo romanzo di Alex Perry basato sulle storie vere di Denise Cosco (Gaia Girace), figlia di Lea Garofalo (Micaela Ramazzotti), Maria Concetta Cacciola (Simona Distefano) e Giuseppina Pesce (Bellè). Donne che hanno deciso di opporsi alla ‘ndrangheta collaborando con la giustizia rappresentata dalla magistrata Anna Colace (Barbara Chichiarelli) che per prima ha l’intuizione di attaccare l’organizzazione criminale facendo leva su di loro.
Quale crede sia il punto di forza narrativo di The Good Mothers?
Metto le mani avanti. Non ho guardato moltissime delle nostre serie crime, anche quelle che hanno fatto un po’ la storia. Però sicuramente The Good Mothers mi sembra una delle prime operazioni, se non la prima, in cui è la vittima al centro di una narrazione che solitamente ci affascina. Quella del male, di un mondo che sentiamo lontano da noi e quindi vogliamo capire meglio. Qui si affronta quest’altro punto di vista. Era necessario fare un’analisi all’interno. Non è strano che nel nostro paese si parli delle donne solo quando si parla delle vittime. Questo spostamento di sguardo è innovativo e ci parla molto di più dell’Italia di quanto probabilmente non facciano altre serie. Perché in favore del genere, in qualche modo, si esalta una violenza che diventa quasi eroica. Ovviamente a favore dell’operazione commerciale televisiva.
Dalla presentazione a Berlino all’uscita su Disney+, che tipo di reazioni ha ricevuto?
Mi sono arrivati messaggi che ci ringraziavano per il lavoro fatto dicendo che quelle che raccontavamo erano storie terribili. Ma per lo più erano quasi sdegnati. “Com’è possibile che ancora accadano queste cose?”. Le uniche reazioni colpite in prima persona mi sono arrivate per lo più da donne calabresi e siciliane che mi scrivevano non solo quanto le facesse arrabbiare, ma quanto fosse stato doloroso per loro guardare la serie perché si riconoscevano in quelle dinamiche.
Mi ha fatto riflettere e pensare che il lavoro fatto ha davvero avuto senso. Non sto solo parlando del contesto ‘ndranghetista/mafioso. Mi piace quando una serie riesce a metterti in difficoltà. Non quando ti senti meglio rispetto a quello che vedi, quando non ti tocca e ti senti migliore perché quel racconto sottolinea il fatto che tu quelle cose non le faresti mai o non le subiresti mai. Ma quando invece sta parlando proprio a te o a qualcuno di vicino a te e ti dà il senso di malessere profondo, di presa di coscienza dolorosa.
Una delle caratteristiche di The Good Mothers è la volontà di evocare la violenza senza spettacolarizzarla.
Il fatto di non che non sia diventata l’apologia del male mi piace da morire. È stata una scelta registica e qua sta la raffinatezza della serie. Julian ed Elisa hanno scelto di raccontare gli eventi più drammatici e violenti senza indugiare in queste scene. Non ce le fanno mai vedere. Questo obbliga lo spettatore a fare uno sforzo: o di immaginazione o di memoria. E così il racconto diventa più personale. Non è una serie che vuole scioccarti ma ti vuole dentro con sé. Una scelta intelligentissima. Così come Cortellesi che decide di raccontare in un modo tutto suo quella dinamica violenta.
Ha parlato di come alcune spettatrici si siano riconosciute in quello che avete portato sullo schermo. La stessa cosa è avvenuta per C’è ancora domani. Crede che questi due progetti si “parlino”?
Sicuramente in comune hanno diverse caratteristiche, anche se sono prodotti molto diversi. Ma lo sguardo è lo stesso: quello femminile. Si entra nelle case, negli spazi privati e si racconta da un punto di vista femminile. Entrambi i personaggi principali in qualche modo sono vittime di dinamiche socioculturali italiane. Sono tra i due progetti più belli usciti quest’anno e non può che farci felici tutti. Ma credo che nessuno dei due prodotti sia riuscito davvero a far uscire dalla sala le persone messe in difficoltà nelle loro azioni, messe al di là di provare pietà o un forte senso di ingiustizia. Non sono riusciti davvero a farci riflettere su noi stessi. Ho avuto l’impressione che per tutti e due si esca dalla visione un po’ sollevati di non essere così. “Queste cose succedono, ma non a me e non per mano mia”.
Crede che dovremmo metterci più in discussione, anche come spettatori?
Mi collego a Elena Cecchettin rispetto a quello che lei e suo padre stanno cercando di fare dalla morte di Giulia. Domandano a tutti noi quella che per me sarebbe davvero la rivoluzione: di essere attivi, di fare un’analisi del nostro comportamento. Ci stanno chiedendo di essere protagonisti di questa riflessione, di fare uno sforzo. Non è una polemica sulla serie e sul film. Sono due progetti bellissimi e importantissimi per l’Italia.
Ma sia The Good Mothers che C’è ancora domani, proprio perché hanno per protagoniste donne vessate, in qualche modo vengono associati a una lotta di emancipazione, di femminismo. Quello che dico è che per me il passo ulteriore da fare è andare ancora più a fondo in una scrittura che possa davvero aiutare tutti a fare una riflessione su noi stessi. E farlo con eventi meno eclatanti che possano parlare a più persone e farci fare delle domande anche un po’ più difficili. È facile riconoscere il male quando è raccontato come nella serie o nel film di Cortellesi. È molto meno facile quando si guarda alle nostre vite. Eppure c’è.
Come si può raggiungere questo risultato parlando di un prodotto audiovisivo?
Ci vuole una scrittura intelligentissima. Sono andata a vedere Anatomia di una caduta di Justine Triet. Uscendo dalla sala è stato meraviglioso perché è uno di quei pochi film che ti porta a parlare per ore con le persone con cui sei andata a vederlo. È un film che ti chiede di farti delle domande. Ho pensato che vorrei una sceneggiatura intelligente e sottile come quella per parlare di questo tema. Ce n’è davvero un gran bisogno. E lo dico quasi più per gli uomini che per le donne. Noi siamo sempre più forti nella presa di coscienza della nostra condizione ma credo che, nel percorso, stiamo abbandonando un po’ l’altra parte.
Penso che il lavoro grosso di consapevolezza in questo caso vada preso più dall’uomo che dalla donna. Ed è molto più delicato perché al momento il rischio è che sia il mostro da distruggere senza che però ne abbia compreso il motivo. Sia The Good Mothers che C’è ancora domani prendono un punto di vista dichiarato. Non si vuole comprendere, si vuole raccontare da un altro punto di vista quello che accade con determinate realtà che ci appartengono anche culturalmente. Ma non viene indagato il punto di vista maschile, vittima attiva di quelle dinamiche.
Alla presentazione della serie a Berlino ha raccontato di come alcuni abitanti dei luoghi in cui avete girato in Calabria vi hanno detto che “la ‘ndrangheta non esiste”. Un po’ come chi, all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro, fingeva di non sapere nulla della sua latitanza a Palermo.
Questa realtà del fatto che tutti sanno tutto ma nessuno muove un dito per me parla chiaramente dell’assenza dello Stato in alcune regioni del nostro paese. Proteggi qualcosa quando ti conviene proteggerla, sia perché ti fa comodo sia perché ne hai paura. Ma per me è la stessa cosa. Parla di quanto lo Stato sia assente e quindi c’è un’alternativa che si radica al suo posto. Ho avvertito forte questo in quell’incontro. Quando mi hanno detto che “la ‘ndrangheta non esiste” è perché noi gli diamo un significato e loro gliene danno un altro. Non è stato un prendermi in giro. È la loro realtà.
The Good Mothers attraverso il personaggio di Lea Garofalo parla anche della difficoltà per queste donne di avere un supporto adeguato dopo aver deciso di diventare collaboratrici di giustizia. Nel suo caso di parla addirittura di “collaboratrice scartata”.
È sempre responsabilità dello Stato. Ho parlato con una testimone di giustizia che mi ha raccontato la fatica immensa fatta per decidere di uscirne. Perché tu esci e non sai dove vai. Abbandoni la tua vita, i tuoi affetti. Non è scontato. È andata da Doppia difesa, l’associazione di Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno. Ed è un bene che personaggi pubblici come Hunziker che in qualche modo arrivano a tutti facciano operazioni del genere perché possono veicolare di più ha una certa fascia. Ma quando ha chiamato era agosto. Non posso neanche immaginare quando ci sia voluto per alzare quel telefono e a chiedere aiuto. Le hanno risposto che erano chiusi per ferie e che avrebbe dovuto chiamare una settimana dopo. Questo non lo racconto per andare contro Doppia Difesa che, anzi, è stata l’associazione che l’ha aiutata.
Lo dico per far capire che ancora non c’è un sistema o che le realtà che esistono non vengono aiutate abbastanza da poter funzionare come dovrebbero. Quella donna mi ha detto che magari un’altra al posto suo avrebbe trovato più il coraggio di richiamare. Grazie a Doppia Difesa si è messa in moto una macchina, hanno chiamato Libera che si è subito attivata e hanno dato il via a tutte le procedure. Da Lea Garofalo a lei fino ad oggi molto è stato fatto. Non siamo ancora al punto in cui è facile per qualcuno prendere quella decisione. Non lo sarà mai, però ci sono molti passi avanti che devono ancora essere fatti da parte dello Stato per agire in supporto a chi cerca di uscirne senza avere molto da dare in cambio.
Nella serie Giuseppina ha un ruolo di potere eppure deve sottostare ad una violenza fisica e verbale che vede protagoniste anche le altre donne della sua famiglia. Donne contro altre donne?
Quando non c’è consapevolezza, la colpa è difficile da dare. Una donna sarebbe contro una donna se fosse consapevole del suo stato e volutamente lo infliggesse a una sorella. Non può essere lo stesso discorso per chi non ha coscienza, perché quello che quelle donne fanno è proteggere un sistema in cui credono profondamente e i ruoli che per loro sono la verità. Siamo tutti contro lo stesso retaggio culturale.
Il titolo della serie allude al fatto che queste donne si siano pentite per amore dei loro figli. Ma crede che il loro gesto sia importate ancor prima come donne, come esempio di autodeterminazione?
Lo credo, anche se non so se per loro fosse chiaro. Almeno da quello che lessi su Giuseppina. Lei disse: “Tutto quello che faccio, tutto quello che dirò è solo per i miei figli”. Almeno nel suo caso, i figli le hanno dato una grande forza. Anche se la scelta di pentirsi non è nata da lei a differenza di Concetta che, con l’esempio di Giuseppina, decide di andarsene. Quando è scappata ha lasciato un biglietto con scritto: “Vado da Giusy”. Si vede quanto è potente il modello coraggioso di una donna e di quanto possa aiutare molto velocemente a prendere coscienza di una situazione che altrimenti magari accetteresti per tutta la vita.
Perché per Giuseppina è stato diverso?
È stata in qualche modo “incastrata” dalla magistratura. È stata arrestata mentre era con l’amante. Non sarebbe potuta tornare a casa perché le regole della ‘ndrangheta te lo fanno pagare con la vita un gesto del genere. E lei lo sapeva benissimo. È stata messa all’angolo e se ha scelto di collaborare per salvare i suoi figli. Si è accorta in quel momento di come la famiglia scomparisse dalla sua vita o, se presente, lo era con una violenza inaudita, pronta a screditarla. Quando una donna si autodetermina è facile dare della pazza. Indubbiamente quello che hanno fatto queste donne è il regalo più grande che potessero fare ai loro figli, che ne fossero consapevoli o meno.
È stata scelta per rappresentare l’Italia all’European Shooting Stars di Berlino 74. Cosa accadrà a febbraio?
Questo non lo so (ride, ndr). Sono davvero felicissima che mi abbiano proposta, perché ho scoperto che deve partire dall’Italia. È un’occasione importante, una grande vetrina per conoscere addetti ai lavoro da tutto il mondo. Più di tutto sono contentissima di passare dei giorni con altri nove ragazzi e ragazze che sono stati selezionati. Sono degli attori favolosi che non vedo l’ora di conoscere. Mi esaltano queste occasioni in cui si può conoscere persone di paesi e appartenenze culturali diverse. E scoprire se nasce uno scambio che può arricchirci tutti. Sono molto entusiasta. Poi quello che quest’esperienza mi darà lo vedremo. Nella vita non mi interessa prevedere.
La vedremo ne La vita accanto di Marco Tullio Giordana? Com’è andata?
Che dire: Marco Tullio mi ha rubato il cuore (ride, ndr).
Talent: Simona Distefano, Micaela Ramazzotti, Valentina Bellè, Gaia Girace, Barbara Chichiarelli
Creative Director: Tommaso Concina
Foto: Roberta Krasnig
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