Sono due supernove pronte ad esplodere. Perché il loro brillare, quello lontano anni luce, lo si vedrà per molto, ma molto tempo. Sono Carolina Sala e Rocco Fasano, protagonisti dell’opera prima di Tiziano Russo, che dopo la palestra teen di Skam passa al lungometraggio per raccontare di come l’amore può nascere ovunque. Anche in ospedale.
Noi anni luce segue il filone delle pellicole giovanili in cui i personaggi, alle soglie dell’età adulta, devono affrontare la più grande paura con il più intenso dei sentimenti, il bussare della morte alla porta nel periodo in cui le emozioni “sono più intense, vivissime, per questo la gente ama i teen movie”, come afferma Fasano. Film che commuove, senza pietismo.
“È un tema tosto, ma al contempo delicato, in cui si entra in contatto con un dolore grandissimo, ma non fa sbiadire tutti i colori che può riservare la vita”, racconta Sala.
Dalla scoperta con Romeo e Giulietta di Carolina Sala, al prossimo futuro metallaro di Rocco Fasano in Home Education, i giovani sono due delle stelle del futuro del panorama italiano – già fortemente presente -, che sta riservando uno spazio sempre più ampio alle voci del domani.
Com’è iniziata la vostra avventura nel mondo del cinema e della tv?
Carolina: Vengo dal teatro. Ho cominciato a frequentarlo sempre più spesso intorno ai quindici anni, quando ho iniziato a seguire dei corsi dalle mie parti, a Conegliano, in provincia di Treviso, in Veneto. A diciotto anni mi hanno presa per fare la protagonista in una produzione più grande di Romeo e Giulietta, in cui mi notò quello che è attualmente il mio agente.
Ci siamo divertiti tanto durante quello spettacolo, ed anche se può essere banale, Giulietta avrà sempre un posto speciale nel mio cuore, anche se la mia pièce preferita rimane I rusteghi di Carlo Goldoni. L’ultimo anno di liceo l’ho passato a fare avanti e indietro con Roma per fare provini. Il primo lavoro è stato con la Rai per Pezzi unici. È stato un set di sei mesi e per me, che arrivavo impreparata in questo mondo, è stata una scuola.
Rocco: Tutto comincia con una grande passione. È nata con me. I primi ricordi che ho riguardano il mio futuro di attore. All’asilo intrattenevo gli altri facendo spettacoli. In terza elementare ho rotto talmente tanto le scatole alla maestra che abbiamo messo in scena la Divina commedia, facendo Inferno, Purgatorio e Paradiso. Siamo anche finiti sui giornali locali della mia piccola regione, la Basilicata. Poi ho seguito corsi di recitazione nella mia città in maniera un po’ dispersiva, ma sono tornati utili.
Solo dopo sono arrivato a Roma dove, tra tutti, ho conosciuto il mio maestro Ennio Trinelli. Ci sono anche gli anni passati al Conservatorio, in cui ho approfondito gli studi musicali. Alla fine, dopo aver cercato di farmi strada nel mondo della moda e della recitazione, è arrivato il primo film: Tender Eyes di Alfonso Bergamo, uscito nel 2014. Un progetto in lingua inglese super indipendente. Fui preso senza agenzie, partendo dal basso, è venuto fuori come uno starnuto. Poi, ovviamente, è arrivato Skam. Una fortuna per me, ma anche per il nostro paese, visto il linguaggio innovativo che ha portato.
Da Pezzi unici a Skam, si sta creando uno star system generazionale come mai prima in Italia. Vi sentite parte di questa ondata di giovani promesse?
R.: Mi è capitato di parlarne, è qualcosa che mi fa sorridere in fondo. Lo star system è quello americano. Non lo abbiamo in Italia. Ma credo di capire cosa si intende. Il nostro paese sta avendo la fortuna che sempre più persone siano alla ricerca di un gusto e di una comunicazione più organica, che magari prende da oltralpe, restituendo un respiro internazionale, ma è soprattutto nella scrittura che si cercano ispirazioni e sguardi inediti. Per questo si può addirittura iniziare a parlare di star system, in qualche maniera.
C.: C’è un’attenzione diversa sulle nuove generazioni. Ai giovani stanno a cuore tematiche differenti e vogliono parlarne. C’è uno scarto rispetto al passato. Questo significa che, per rivolgersi a pubblici più freschi, bisogna prendere anche volti nuovi.
Quali sono i temi che interessano oggi ai giovani?
R.: Tutto ciò che ha a che fare con l’identità. Senza mettersi limiti. Senza stereotipi e raccontando storie che parlino di diversità. Possono esserci tante storie quante sono le persone. Non tutti vivono le stesse dinamiche. Molti non si sono mai visti rappresentati dai media, almeno fino ad ora. Il pubblico giovane vuole essere visto, senza etichette. Le nuove generazioni, quando si guardano allo specchio, non vedono chi li ha preceduti. Vogliono qualcosa in cui riconoscersi.
Vi sentite parte, quindi, di questa generazione di giovani che avanza?
C.: Sì, ma faccio fatica a pensarmi come un volto. Sto solo lavorando. Mi sento ancora agli inizi, nonostante le tante soddisfazioni. Per me è complicato mettermi accanto ai miei colleghi coetanei. Ma è evidente che c’è una generazione di talenti che ha voglia di lavorare insieme in modo collettivo, collaborando sul set, mettendo attenzione in ciò che si fa, togliendosi di dosso il divismo.
R.: So che si respira una bellissima aria. Con Carolina siamo entrati in sintonia, sono diventato profondamente amico con Federico Cesari ed ho avuto la fortuna di lavorare con giovani che si approcciano al mestiere con rispetto e intelligenza. Come sarebbe dovuto sempre essere, ma non è così. È la risposta a un paese che ha voglia di riscatto, che non vuole farsi schiacciare dalla produzione massiva di contenuti, ma lasciare qualcosa di autentico che non vada a morire lentamente.
È anche un mestiere che, soprattutto in giovane età, può influenzare la propria salute mentale, altro argomento centrale oggi. Come vi prendete cura di voi?
C.: Esco con i miei amici. Tendo a isolarmi. Per me è uno sforzo uscire, ma mi rendo conto che, quando lo faccio, sto davvero meglio. Con gli altri riesco a smorzare tutto, a vedere le stesse cose in modo positivo. Anche quelle che sembrano enormi.
R.: Cerco in maniera consapevole di prendermi cura della mia salute mentale. È un male come tutti gli altri: se lo trascuri, ti ammali. La cura della mente vale quanto quella del corpo, e può aiutare tanto andare in terapia, quanto riuscire a integrare con cose che ci fanno sentire bene, pure se possono sembrare banali. Dal mangiare in maniera adeguata a fare una passeggiata, fino a darsi dei ritmi. In questo tipo di lavoro scivolare nel baratro è troppo facile, devi avere una mente solida.
Un mestiere che però avete scelto di intraprendere. A volte vi pesa?
C.: Pesare no. Ma quando ho cominciato mi sono sentita un po’ un’impostora. Sono stata scelta da un agente, significa superare diversi step, una parte della gavetta che invece altri miei amici hanno dovuto affrontare. Però poi mi dico: non ho tolto nulla a nessuno, quando mi hanno notata stavo lavorando. Mi si è presentata una possibilità concreta e l’ho colta, ma ho continuato a percorrerla quando ho deciso di fare su e giù da Conegliano a Roma.
Poi, di base, è un lavoro che ti permette totalmente di spaziare, penso anche alle libertà che può concederti il palco o un set. Dipende molto dal regista, ma è divertente trovare il modo di giocare con tante idee diverse. Penso alla visione molto precisa che aveva Pappi Corsicato in Perfetta illusione, ma anche a cosa può insegnarti un attore come Tommaso Ragno con cui ho lavorato in Vetro di Domenico Croce.
Avevate un piano B?
R.: Ho altre passioni, alcune le ho portate a termine, altre no. Ho fatto il conservatorio classico, ma la cosa che preferisco non è il ruolo del concertista, quanto quello del compositore per piano. Un giorno spero di pubblicare qualche mio lavoro, ma con la musica mi sento molto più timido e a nudo rispetto al cinema, quindi credo ci vorrà ancora del tempo. Altrimenti avrei intrapreso il percorso di medicina per specializzarmi in psichiatria.
C.: Non direi che è un piano B, ma al momento sto studiando storia dell’arte all’università. I miei erano felicissimi che continuassi gli studi, neanche a dirlo. Però anche lì è stata più una scelta personale che pratica. E non è un vero piano B visto che vorrei trovare la maniera di combinare questi miei due amori. Mi piace tantissimo raccontare l’arte, spiegarla alle persone, svelare segreti che non sono evidenti alla vista. Infatti il mio periodo preferito della storia dell’arte è quello medievale. Il mio quadro preferito è Allegoria della Simulazione di Lorenzo Lippi, con questa donna bellissima che non ti stacca mai gli occhi di dosso. È un’opera minore del 1600, ma è incredibile. E devo dire che questa mia conoscenza è tornata anche utile sul set, perché sempre nel film di Corsicato interpretavo proprio una storica dell’arte.
C’è anche il Nord America che, dopo The White Lotus e le nomination agli Emmy di Sabrina Impacciatore e Simona Tabasco, non sembra più così lontano. È un sogno?
R.: Io sono felicissimo per il successo e i risultati che stanno ottenendo. Sono grande fan di The White Lotus. È questo che vogliamo vedere dai nostri talenti e gli Emmy è la prova che sappiamo raggiungere tutto ciò che ci prefissiamo. Non che avessimo bisogno di dimostrarlo, ma è così. Ci hanno infuso un po’ di ispirazione e coraggio. Fortunatamente ho già avuto modo di approcciarmi a produzioni internazionali, essendo anche bilingue. Penso alla serie Hotel Portofino, ma anche al thriller psicologico di Andrea Niada, Home Education, di cui sarò protagonista accanto a Julia Ormond e Lydia Page. Ma non ho intenzione di lasciare l’Italia. Magari di fare la spola.
C.: È qualcosa che attira. Dopo la laurea un’esperienza, anche solo di studio, vorrei farla. Sicuramente quello di The White Lotus è un caso eclatante, ma la cosa ancora più bella è che non sono state loro ad andare negli Stati Uniti, ma sono stati gli Stati Uniti a venire in Italia. Comunque un’apertura con Fedeltà di Netflix l’ho percepita in tal senso. Dopo mesi dall’uscita, continuano a scrivermi da qualsiasi parte del mondo. Non riesco ancora a farci l’abitudine.
In Noi anni luce, invece, siete protagonisti di un teen movie: perché, secondo voi, piacciono così tanto?
R.: Perché viene descritto un momento, durante l’esistenza, che attraversano tutti, quella fascia d’età in cui ci sentiamo fragili e la nostra mente è una fucina di paure che supereremo o non lo faremo mai, di traumi a cui metteremo un cerotto e altri di cui rimarrà una voragine. È questa la forza di tale genere seriale e cinematografico e il perché, sia a livello nazionale che internazionale, rimarrà sempre in voga.
C.: È la prima volta che mi approccio a una storia prettamente dedicata agli adolescenti. Ho preso parte a dei thriller, a narrazioni che hanno un peso più adulto come Perfetta illusione o Fedeltà. Ma la cosa bella dei teen movie è che possono parlare proprio a tutti.
La storia di Noi anni luce vi vede nei ruoli di Elsa e Edo, in una storia che unisce amore e malattia. Siete fan di questo filone di film? Immagino abbiate visto Colpa delle stelle.
R.: Sono storie in cui mi lascio trasportare. In cui si attiva il mio lato sensibile, empatico. Lavorare con Tiziano Russo ha fatto la differenza. Ci siamo conosciuti sul set di Skam 5, mi ha voluto per la sua opera prima e in lui ho trovato una guida, come persona e come professionista.
C.: Colpa delle stelle l’ho visto e anche letto il libro. Ma non sono mai stata una vera e propria fan del genere. Un po’ per alcuni miei motivi personali, per non rivangare troppo storie già sentite in famiglia. Poi, purtroppo, sono film che tendono ad essere stucchevoli. Noi anni luce non lo è.
R.: Infatti ho amato la scrittura del film. Con Tiziano è stata una lotta quotidiana per non lasciare che, alla fine, si raggiungesse un effetto di pietismo. Non era quello che stavamo cercando. Non ci siamo sforzati per tirare fuori la lacrimuccia, ma ci siamo rivolti al pubblico con un linguaggio sincero. È la storia naturale di due persone a cui succede una cosa brutta. Ma l’amore che sentono inizia a bruciare tantissimo e, per questo, lo prendono così. Nel suo essere travolgente e bellissimo.
C.: Noi anni luce colpisce perché tocca la nostra paura più profonda: la morte che intacca la giovinezza. Abbiamo cercato di togliere qualsiasi tipo di pathos, di andare al nocciolo della questione senza caricare il racconto, senza voler far piangere. È un film sulla malattia, ma che punta alla vita, a cosa c’è di più grande, magari anche a quel briciolo di incoscienza di cui possiamo beneficiare durante l’adolescenza.
E cos’è, allora, che vi fa piangere?
R.: Tutto e nulla. È questa la magia del commuoversi. Nonostante si cresca e si vedano tante cose brutte, non voglio nascondere la parte più sensibile di me sotto una corazza.
C.: Le lacrime arrivano all’improvviso. Se penso che una cosa mi farà piangere, non piangerò. Magari accade con le cose più stupide. Oppure, dopo che mi succede qualcosa, può darsi che scoppio a piangere dopo tre mesi. La cosa più estrema che mi è successa? Piangere per una cosa avvenuta un anno prima. Così, di punto in bianco. A suo modo, però, è liberatorio. Accettare di poter piangere in qualsiasi momento. Come anche il ridere al punto da farsi uscire le lacrime, o quando mi sento stanca.
Avete fatto un’esplorazione personale della morte durante la preparazione del film? O era un pensiero che vi balenava già prima di conoscere la storia di Edo e Elsa?
R.: Sono sempre stato tanatofobico. Il pensiero della morte è abbastanza costante. Fare questo film, ovviamente, ha accentuato le cose. Non volevo però arrivare impreparato, e ho avuto l’occasione di poter fare alcune domande a una mia amica, soprattutto su come si affronta il quotidiano, l’ansia, cosa si prova quando la posta in gioco è così alta. Ne ho tratto una bella lezione: non aspettare una diagnosi per vivere come fanno Edo e Elsa, apprezzando le cose semplici, curando i rapporti con gli altri, a non lasciando nulla indietro. Questo film potrebbe sembrare dirigersi verso la morte, ma in verità va incontro alla vita.
C.: Con la scusa di fare questo film sono riuscita a porre alcune domande che volevo approfondire. È stato intenso. Una persona può pensarci costantemente, ma elaborare il lutto e la morte è diverso. Anche per la mia Elsa rimane uno spauracchio complicato da affrontare.
Nonostante la malattia, i vostri protagonisti intraprendono un viaggio, il film diventa quasi un road movie. Esce il loro lato ribelle. Cos’è la cosa più ribelle che avete fatto?
R.: Hai preso due ex secchioni. Io forse sono stato anche troppo bravo. Oddio. Una volta a sedici anni sono andato a Londra e i miei pensavano che stessi nel nord Italia. Ma non era nulla di ribelle, volevo solo stare un po’ per i fatti miei e i miei genitori non volevano che partissi, ma io l’ho fatto lo stesso.
C.: Anche io non ho mai avuto colpi di testa. Al massimo sono stata una notte fuori e non ho avvertito su dove mi trovavo. Ecco: l’ultimo anno marinavo la scuola, però era per andare a studiare in biblioteca visto che facevo su e giù da Roma per i provini.
Perciò non siete stati nemmeno egoisti, come spesso si ripetono i protagonisti del film?
R.: Il confine tra l’essere o non essere egoisti, soprattutto in simili circostanze, è davvero sottile. Come la beneficenza, perché ti gratifica, ti fa sentire bene, ma dovrebbe essere disinteressata. Però è vero che la tua felicità può derivare spesso dal rendere felice qualcun altro. Elsa e Edo, ad esempio, si trovano in un momento di necessità per entrambi, e va bene così.
C.: Esiste anche un egoismo sano. Appartiene a tutti. La domanda è fino a che punto si può definire egoismo il voler aiutare qualcuno. Edo vuole difendere Elsa. Ma è ovvio che a volte oltrepassa un confine, pur facendolo con buone intenzioni.
La malattia debilita il corpo di Elsa e Edo. Per un attore il corpo è fondamentale. Come lo vivete, soprattutto in relazione al vostro mestiere?
R.: Trasformarsi fisicamente per un ruolo aiuta molto. Nel prossimo film Home Education, thriller dalle tinte dark, sono imparruccato e incurvato, questo mi ha permesso di far vivere il mio personaggio, che è un metallaro. Cambia enormemente l’approccio mentale. Mi fa paura prendere o perdere peso per un ruolo. Ma se un progetto è davvero scritto bene, dopo la reticenza iniziale, accetterei senza problemi.
C.: Sento che, se giustificato, potrei spingermi anche in là con il corpo. Deve avere senso, deve essere qualcosa di bello e si deve capire perché si utilizza in quella maniera. Mi piace mettermi a disposizione e sperimentare. Lavorare col reparto costumi lo trovo fondamentale. Quando mi immagino un personaggio, non devo essere io. Quando penso a Elsa di Noi anni luce o a Lei di Vetro, loro non sono me, non hanno la mia faccia. Sofia di Fedeltà per me, ad oggi, è ancora castana, liscia e con gli occhi scuri. Tutto ciò che non sono io.
Siamo in chiusura. Il titolo Noi anni luce è una prospettiva, è la collisione tra due universi, è un sentimento che nasce nelle avversità. Per voi che significato ha?
R: Ci vedo proprio la luce. Elsa e Edo vivono anni luminosi, dove tutto ciò che si prova è ancora più profondo e intenso. È una data di scadenza che brucia e si trascina fino alla fine, ma in realtà è l’inizio di un sentimento che è appena nato.
C.: È la scia di una stella che non si estingue. È la suggestione del titolo che si riscontra nel film. È una supernova velocissima che lascia uno strascico, qualcosa che entra nella tua vita in maniera velocissima. Ciò che, inaspettatamente, può cambiare tutto. Come l’amore.
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