Quasi un centinaio di persone, ma sedute tanto vicine da sembrare molte meno. Sullo schermo colori che tendono al verde, sul palco un quadrato di terra e una persona vestita con una tuta mimetica più simile a quella di un apicoltore che di un soldato. In una sala sotterranea e remota della Triennale di Milano, il pubblico sembra sia stato rapito. Sono venuti per vedere Amazonia 2040, la performance di Martha Hincapié Charry, danzatrice colombiana che ha studiato e lavorato in Germania per anni con Pina Bausch. Il Fog Triennale Milano Performing Arts è un festival di danza, performance, musica.
Ora che sono tutti lì seduti, che forse si sono rilassati, ignari oppure no, Martha – che dopo gli anni a Wuppertal è tornata a cercare il legame con gli antenati, le radici e la foresta – si scopre la testa, li guarda negli occhi e racconta una storia. A teatro si è costretti ad ascoltare, occhi e orecchie in ostaggio.
Fuggire dalla giungla con Hincapié Charry
La storia che racconta parla di donne che disperate lasciano la giungla e scappano in una città vicina e lì si ammalano o muoiono di malattie sconosciute: ma come tutti i migranti fuggivano da qualcosa di peggio, in questo caso i narcotrafficanti. Racconta poi di aver passato lei stessa del tempo nella foresta con una comunità indigena, e di portare ora, proprio a noi, un messaggio da parte loro. Si rivolge alla regia, chiede di mandare un video.
Dal video un uomo guarda negli occhi il pubblico rapito e parla di compagnie petrolifere, di inquinamento, di acque contaminate, di ossigeno che mancherà. Dice: “Se la foresta c’è ancora, è perché noi ce ne siamo presi cura. Se il fiume c’è ancora, è perché noi ce ne siamo presi cura. Se tra vent’anni ci saranno ancora le nostre tradizioni, i nostri riti, le nostre danze, allora qualcuno si starà prendendo ancora cura della terra. E se tutto ciò sarà sparito, sarà peggio anche per voi”.
Se a prendere il sopravvento sono i rifiuti
Poi la performance torna una performance, sul fondale scorre la deforestazione fra grafici e fotografie. E poi immagini della foresta verde, che sempre più si affiancano a immagini di una foresta di rifiuti, che sempre più prendono il sopravvento e ci fanno capire che quei rifiuti si trovano proprio nella foresta verde, al posto della foresta verde, e poi sempre più la fanno scomparire, la foresta. E poi però è la foresta a prendere il sopravvento sui rifiuti e sempre più lo schermo torna verde e ci si accorge che ancora si sente l’odore della terra provenire dal suolo o almeno da sotto i sedili perché sotto i sedili ci sono tanti piccoli fagotti di tela bianca da cui emana un odore umido e morbido, lontano e inebriante. Fagotti di terra in cui immergere le mani, in un delicato rito collettivo, per scusarsi e ringraziare.
“Negli ultimi secoli l’Occidente ha diviso il razionale dall’irrazionale, la mente dal corpo, il corpo dalla natura. È per questo che colpisce la terra senza rendersi conto di star colpendo anche il proprio corpo”, spiega dopo lo spettacolo Martha Hincapié Charry.
La performance in un sacchetto di terra
In questa performance arte e attivismo si confondono perché in questo momento storico e ancor di più in quei luoghi vita e attivismo si sovrappongono, necessariamente – lo raccontano le immagini, la performance, lo racconta lei. Un centinaio di persone riemergono dai sotterranei della Triennale di Milano con in mano un sacchetto pieno di terra, la raccomandazione di non tenere per sé quel dono ma di restituirlo alla terra, e la certezza che l’Amazzonia del 2040 dovrà essere protetta dagli indigeni e magari anche da noi, se avremo imparato a restituire la terra.
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