Non c’è un unico modo per parlare di un videogioco. Proprio come non c’è un unico modo per parlare di un film, di una serie o di un libro. L’esperienza di chi gioca – pardon: di chi videogioca – cambia in continuazione. E non dipende unicamente dal videogioco. Dipende dai temi, dagli argomenti, dal tipo di gameplay; dallo stato d’animo, anche, di chi decide di giocare. Dipende dall’ambiente circostante, da quello che succede e che non succede.
I videogiochi non sono, come qualcuno ha detto, una via di fuga. Non promuovono né la violenza né l’amarezza della solitudine. I videogiochi sono pezzi di intrattenimento, con un loro linguaggio e una loro dignità. E snobbarli a priori, senza prima provare a capirli, non è solo sbagliato: è pericoloso. Si interrompe qualunque tipo di dialogo, così. E si sceglie una strada che non è per tutti, ma per pochi, e soprattutto per chi scrive, per chi prova a raccontare qualcosa, rischia di essere un errore.
I videogiochi come spazio di dibattito
In queste ore, dal giorno del suo lancio, The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è al centro di tantissime discussioni. Da una parte chi l’ha amato senza contestarne minimamente la bontà e la resa; e dall’altra, una minoranza, chi si è sentito preso in contropiede da una storia che non si discosta poi molto – almeno per quanto riguarda il design – da Breath of the Wild, il capitolo precedente della saga. Ma il punto non è questo: i pareri, e pure quello che scriveremo in questo articolo, sono soggettivi; sono influenzati, come dicevamo prima, da tanti fattori.
Quello che conta è il dibattito che si è innescato. Perché il videogioco è anche questo: confronto. A volte appassionato, acceso, intenso. Altre volte pacifico e diplomatico. È così con tutto, del resto. Anche con i libri, i film e le serie tv. Un videogioco, per sua stessa definizione, offre intrattenimento. Ma in questi anni, grazie all’avanzamento tecnologico e all’aumento dei mezzi a disposizione degli sviluppatori, si è aggiunto un altro elemento. Spesso essenziale. L’immersività.
In italiano questa parola non esiste (provate a cercarla sulla Treccani: non c’è; provate a digitarla su Word: vi darà errore), ma viene comunque utilizzata. Chi gioca ai videogiochi finisce per immergersi in un mondo nuovo, diverso, e allo stesso tempo familiare. Perché i videogiochi sono la somma del passato, di altri videogiochi, macerie digitali che si uniscono ad altre macerie digitali per offrire fondamenta al futuro.
Tears of the Kingdom: un’esperienza maestosa
The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom non fa eccezione. È letteralmente costruito su Breath of the Wild; ne riprende, in parte, le meccaniche di gioco, e riutilizza anche alcune delle sue ambientazioni. Ma è più grande, più lungo, più intenso. Chi ci ha lavorato – la Nintendo, il regista Hidemaro Fujibayashi e il produttore Eiji Aonuma – ci ha lavorato con il chiaro obiettivo di fare qualcosa di differente, di andare oltre; di non dimenticare il passato, ma non di lasciarsi nemmeno travolgere dalle aspettative.
Tears of the Kingdom inizia piano, forse pianissimo. Non cerca la stessa spettacolarità del titolo precedente. Non subito, almeno. Dà tempo al videogiocatore – questa è stata la nostra sensazione – di riabituarsi ai comandi, ai nemici, a quello che serve o non serve. Ripetiamo: inizia piano.
Un’evoluzione di Breath of the Wild
Ma poi? Poi riesce a intrecciare una storia più ampia e approfondita, rispetto a Breath of the Wild, con delle trame verticali più interessanti, fini, più accattivanti. E il gioco? Il gioco offre ancora più possibilità. Dall’unire più oggetti al costruire macchine e zattere volanti. (Non stiamo esagerando: è così). E poi c’è la musica, che è una delle colonne portanti di tutta l’esperienza. E la grafica. Che non è fotorealistica. Non ci prova nemmeno. Ma è unica, intima, avvolgente. I colori sono fondamentali. E così i piccoli dettagli. Come le unghie della “nuova” mano di Link, o la forma degli anelli che decorano ogni dito. (Piccola parentesi: in questo braccio particolare, maledizione e benedizione insieme, non c’è qualcosa del braccio del nobile Ashitaka di Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki?)
Non vogliamo parlarvi della trama nello specifico, perché, per noi, non ha senso. Non ce l’ha quando si parla di un film o di una serie tv, e non ce l’ha nemmeno quando si parla di un libro. È importante concentrarsi su altro: su quello che, ora, Tears of the Kingdom sta rappresentando. Tutti ne parlano, e a questo abbiamo già accennato. Ma si è creata anche una produzione letteraria, tra recensioni, pareri e approfondimenti, semplicemente straordinaria.
Esplorare Hyrule
È quello che fa l’arte, in generale. Riesce a ispirare. A far venire le parole alle mani e al cuore. Ad arricciare la pelle sulle braccia, e a far tremare i capelli per l’eccitazione. L’arte è in grado di offrire qualcosa di più – non un videogioco da amare, ma un videogioco da usare come punto di partenza per riflessioni e considerazioni. Tears of the Kingdom non dura poco. Volendo saltare tutte le missioni secondarie e puntando immediatamente alla meta, alla conclusione cioè della storia principale, forse può essere finito in una ventina di ore. Ma questo è un videogioco che pretende tempo e cura. Che pretende la massima attenzione da parte del giocatore. Perché, ecco, anche la scoperta e il senso di meraviglia hanno un ruolo fondamentale.
Lasciarsi andare a Tears of the Kingdom
Ci sono stati alcuni titoli, nella storia più recente dell’industria videoludica, che hanno sfruttato tracce letterarie e filmiche; che hanno scelto un taglio più cinematografico e una direzione precisa. Pensiamo, per esempio, a The Last of Us, che è diventata anche una serie tv, e a Death Stranding di Hideo Kojima. Tears of the Kingdom è un’altra cosa. È un open world, e non prova a costringere in alcun modo la sete di curiosità del videogiocatore. Lo invita, anzi, a lasciarsi andare. A credere a quello che sta vedendo, e a innamorarsi dei personaggi che incontra nel corso del viaggio.
La storia di Link, che è il protagonista, e della principessa Zelda è una storia decennale. Che è entrata, di diritto, nell’immaginario comune (non è una banale coincidenza se la figlia di Robin Williams si chiama Zelda). Per qualcuno (per più di qualcuno: scusateci), questa saga ha significato molto di più di qualche ora davanti a uno schermo. E in questo passaggio non c’è nessuna intenzione di riabilitare il linguaggio videogioco provando a paragonarlo o ad accostarlo ad altri linguaggi.
Tears of the Kingdom è un pezzo d’arte
Tears of the Kingdom si presenta come caso perfetto per portare la comprensione, da parte di un pubblico generalista, non videogiocante, a un altro livello. I videogiocatori piangono per quello che giocano. E non perché sono frustrati: ma perché sono profondamente commossi. I videogiocatori sorridono, gioiscono, ridono. I videogiocatori – alcuni videogiocatori – tengono diari, prendono appunti; si divertono a cercare online, nelle guide, curiosità e dettagli. I videogiocatori, spesso, decidono di giocare insieme. Chi a casa propria, con la propria console. E chi, invece, insieme. Davanti allo stesso televisore.
C’è condivisione, nel videogioco. Non isola, come qualcuno insiste a ripetere. Non alimenta gli animi di guerra e di tensione. Il livello di profondità che può raggiungere un’esperienza a volte può lasciare degli strascichi: e quel pensiero ritorna, e quell’idea non se ne va via. Ma i videogiochi non sono feticci; non sono nemici. Sono arte, e Tears of the Kingdom ne è una prova.
Un miracolo su Nintendo Switch
Centinaia di migliaia di persone, in queste ore, ci stanno giocando. In Italia come nel resto del mondo. E ne parlano. Si esprimono. Ci sono fazioni e tifoserie, come in tutte le cose. Ma non è un argomento da ignorare, non è un mondo da tenere in disparte solo perché ci sembra irraggiungibile e inconsistente. I videogiochi sono il futuro – parte del futuro – dell’industria dell’intrattenimento. Sono il prossimo grande bacino di storie per film e serie tv. Sono ciò che, a breve, finirà per popolare e abitare i grandi e i piccoli schermi. Pensiamoci. E pensiamo anche a un altro aspetto, nel frattempo.
Tears of the Kingdom gira – come si dice – su Nintendo Switch, e va benissimo. Fluido, preciso, funzionale. In alcuni modelli, ci sono picchi nel riscaldamento: è vero. Ma è impressionante vedere una resistenza del genere in una console progettata anni e anni fa. Una console piccola, compatta e portatile. Tears of the Kingdom rappresenta un passo in avanti nell’evoluzione dei videogiochi. Non importa, ora, se grande o piccolo. Non importa se drastico o superficiale.
Alla ricerca di Zelda
Quello che va sottolineato, oltre alle vendite (mostruose) e alla sua straordinaria capacità di coinvolgere milioni di persone quasi istantaneamente, è la potenza del racconto che vuole offrire. Noi siamo Link; Zelda non è una principessa che ha bisogno di essere salvata, ma che va ritrovata. Siamo coinvolti in una ricerca. Nella sua ricerca. Siamo cavalieri, eroi, spadaccini. Non abbiamo una voce: ma due orecchie a punta, occhi svegli, capelli biondi. Dobbiamo ricominciare. Come sempre, come nella vita: abbiamo perso tutto, salute, equipaggiamento, abilità. E dobbiamo ritrovare noi stessi. Avanziamo, perdiamo, incassiamo. E intanto scopriamo un mondo, quello di Hyrule, che ci sembra familiare. Sì, ci sembra. Perché in realtà è cambiato.
Sentiamo voci dal passato, completiamo dungeon e rompicapi; troviamo soluzioni che forse erano state previste dagli sviluppatori o forse no. E siamo padroni del nostro destino – come Link, certo, ma anche come videogiocatori. Tears of the Kingdom è una grande, grande avventura. E i voti non bastano per darne un’idea. Per accennare alla sua meraviglia. Se c’è qualcosa che conta è giocare. Conta, in generale, abbandonare qualunque tipo di pregiudizio. I videogiochi sono qui per restare, e stanno diventando sempre di più un punto di riferimento. E allora è arrivato il momento di fare sul serio: è arrivato il momento di giocare.
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