“Certo, ho sparato alle persone nella schiena, era più realistico. In pratica ho fatto tutto quello che John Wayne non avrebbe mai fatto.”
Non ha mai avuto paura di confrontarsi con le convenzioni e l’iconografia del cinema americano, Clint Eastwood. E questo nonostante il fatto che lui stesso sia da più di cinquant’anni un’icona intoccabile di quello stesso immaginario, nonché una colonna portante dello show business hollywoodiano. Alle sue regole, ovviamente. Su questo e altri dualismi che caratterizzano la carriera dell’attore/regista/produttore Ian Nathan ha costruito l’ossatura del suo nuovo libro Clint Eastwood – The Iconic Filmmaker and His Work, volume che viene pubblicato negli Stati Uniti da White Lion il 29 agosto.
Dr. Clint and Mr. Eastwood
La dicotomia fondamentale che Nathan evidenzia raccontando la carriera di Eastwood parte proprio da quel nome e cognome talmente popolari. Da una parte infatti lo scrittore scompone e analizza la star Clint, volto iconico di un certo tipo di cinema capace di lavorare a livello più viscerale per arrivare al consenso del grande pubblico. Dallo “Straniero senza Nome” dei film di Sergio Leone o dei primi western da lui stesso diretti, passando ovviamente per il “Dirty Harry” Callahan del fragoroso successo del 1971 diretto da Don Siegel, Clint ha rappresentato il volto affascinante, incorruttibile e neppure troppo velatamente conservatore con cui il pubblico americano ha flirtato per decenni.
Dall’altra invece c’è Eastwood, l’autore che fin dall’esordio come regista grazie a Brivido nella notte (Play Misty For Me 1971) ha deciso di mettere in discussione quel ruolo, la sua mitologia “machista” e con esso tutto quello che ha rappresentato per un Paese anch’esso più diviso di quanto gli americani stessi vogliano credere, sia ieri che oggi. Se quindi la star Clint ha costantemente cercato il sostegno del pubblico e conseguentemente del botteghino, il regista Eastwood ha seguito ciecamente il proprio istinto realizzando progetti capaci di parlare prima di tutto a lui stesso, al suo desiderio di scavare sotto la superficie dei generi e dei personaggi. Per questo Eastwood in molte occasioni ha avuto bisogno di Clint, di un’icona da analizzare, mettere in discussione, magari addirittura smentire. “Nei suoi capolavori come Il texano dagli occhi di ghiaccio (The Outlaw Josie Wales, 1976), Gli spietati (Unforgiven, 1992) o Million Dollar Baby (id., 2004) Eastwood si è ritrovato a esplorare la mitologia di Clint” osserva Nathan nel suo testo.
E come lo ha fatto? Andando dritto al sodo: “Qualche volta sottrarre è la scelta migliore. Talvolta puoi dire più con uno sguardo che girando troppo intorno alle parole”. E quello stile di recitazione inconfondibile che fin da Per un pugno di dollari (id., 1964) è diventato la cifra stilistica di Clint si è successivamente tramutato nella poetica della regia di Eastwood. I suoi film migliori vanno infatti dritti al punto: dei personaggi, delle storie, delle immagini stesse. Una concisione nello sguardo e nel racconto che lo hanno reso l’ultimo grande cineasta classico americano. E in questo caso l’artista rispecchia totalmente la figura privata: il libro di Nathan – biografia non autorizzata – racconta infatti di un uomo che nonostante la sua icona si è sempre tenuto lontano dallo stardom di Hollywood. Un uomo che ad esempio sul set non grida mai “Azione!” ma preferisce rassicurare i suoi attori con un semplice “Bene, vai pure”. E allo stesso modo non urla “Cut!” ma sussurra “Ok, può bastare”.
Scherzando, Tom Hanks dopo avervi collaborato grazie al successo Sully (id., 2016) disse che Clint Eastwood tratta i suoi attori come cavalli, intendendo spiegare che predilige un set in cui siano assenti urla o suoni potenti, in modo da creare un’atmosfera che non intimorisca chi deve lavorare dietro o davanti la macchina da presa. Insomma, un cineasta talmente sicuro della sua visione da non aver bisogno di imporla. Il che non significa comunque scendere ad alcun tipo di compromesso per trasformarla in immagini. Lo stesso Nathan narrando della lavorazione de Il texano dagli occhi di ghiaccio ricorda come proprio Eastwood non esitò un momento a far licenziare il regista Philip Kaufman – che lui stesso aveva scelto – per prendere definitivamente le redini del progetto, mettendo a serio repentaglio la carriera di quello che poi sarebbe diventato il regista di culto di Terrore dallo spazio profondo e Uomini veri.
E se Nathan si dimostra acuto conoscitore del cinema dell’autore premiato due volte con l’Oscar per la regia, allo stesso modo tende a smussare o addirittura tacere alcuni aspetti del carattere e della storia personale di Eastwood che possono essere considerati quantomeno “contraddittori”, come ad esempio la lunga e dolorosa separazione dalla collega/compagna di vita Sondra Locke e il conseguente affossamento della sua promettente carriera di attrice e regista. Questo nuovo libro spiega in maniera esaustiva quanto Eastwood sia sempre stato un artista costantemente rivolto al futuro, al prossimo progetto, a quello che può e deve essere migliorato, anche a costo far radicalmente piazza pulita col passato.
La scissione tra Clint ed Eastwood può essere artisticamente avvicinata a quella di Mr. Hyde e del Dottor Jekyll? Il paragone col personaggio creato dal capolavoro letterario di Robert Louis Stevenson potrebbe sembrare in un primo momento azzardata. Eppure leggendo da cima a fondo Clint Eastwood – The Iconic Filmmaker and His Work non si possono ignorare le zone d’ombra, i lati oscuri, le pulsioni recondite e spesso indicibili che Clint ha costantemente cercato di nascondere alla luce del sole dei suoi personaggi, mentre Eastwood ha smascherato pezzo dopo pezzo nei suoi film maggiormente personali.
A ben guardare, Clint Eastwood è veramente la doppia faccia dell’America. E lo è da molto tempo. Forse addirittura troppo.
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