“È un libro su personaggi del novecento, scritto da un signore del novecento, con uno stile che ha molto presente quella tradizione”. Parola di Emiliano Morreale, fresco vincitore del Premio Campiello opera prima per il suo L’ultima innocenza (Sellerio). Docente, critico, saggista, adesso narratore, si dice sorpreso e felice del riconoscimento, che stando alla motivazione, letta dal presidente della giuria Walter Veltroni, è un libro che mette a fuoco come “il cinema, anche nelle sue manifestazioni deteriori, si riveli un punto d’osservazione privilegiato per comprendere la storia del Novecento e il nostro paradossale presente”. L’ultima innocenza è un viaggio tra biografie storiche e memorie di un io narrante fittizio, alla scoperta delle “vie segrete” che connettono la mitologia del cinema, il suo immaginario, con la realtà, le realtà.
Se l’aspettava il premio?
No. Quando ho saputo di aver vinto il premio sono saltato sulla sedia. Sono molto stupito. Quando uscì l’elenco degli esordienti erano davvero tanti, quindi mi ero detto, va bene, ci hai provato, questo libro si perderà come lacrime nella pioggia, per citare Blade Runner. È una grande soddisfazione perché tenevo molto alla dimensione letteraria. Ci tenevo che venisse considerato un libro di narrativa, non un libro di cinema.
Scriverà altra narrativa?
Temo di sì.
Com’è scrivere un romanzo per la prima volta?
Avevo ventimila e più ansie e ce le ho avute fino alla fine. Il libro in realtà è diventato di narrativa man mano che andavo avanti. All’inizio c’era molto la dimensione saggistica, da non-fiction, poi il personaggio del narratore ha preso maggiore spazio. Ho capito che stavo raddoppiando i rischi. Al compito della saggistica, che riassume vicende spesso intricate in maniera lineare, si aggiungeva lo stile. Allo stile ho riservato molta attenzione, lavorando sulle parole, riscrivendo più volte le stesse, cambiandole, scegliendole con cura. Ho tormentato amici e conoscenti per avere consigli anche sulla scrittura.
Che stile pensa di aver dato al libro?
Quello che è uscito fuori, anche perché ho quasi cinquant’anni, è uno stile un po’ novecentesco, leggermente retrò. L’ho proprio cercato, siccome è un libro malinconico sul cinema visto come qualcosa di perduto. Insomma è un libro su personaggi del novecento, scritto da un signore del novecento, con uno stile che ha molto presente la tradizione. Potrei fare mille nomi ma uno è Mario Soldati, che è stato il primo a infilare il cinema nella sua letteratura.
È un libro sulla morte del cinema?
Volevo dare da subito un senso di elegia. La morte del cinema è un concetto vecchio quanto il cinema, ma si intensifica nell’ultimo mezzo secolo, proprio attraverso i film e i romanzi. L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich è del 1971, Nuovo Cinema Paradiso del 1988. Anche i romanzi contribuiscono a questo senso di malinconia, come L’autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino. Insomma, il cinema si rimpiange da molto tempo. Ma più cose vediamo scomparire, più ne rimpiangiamo. E senz’altro oggi la situazione è mutata, quel cinema che io racconto non c’è più, non ci sono dubbi. Diventerà altro, non sappiamo cos’altro, ma non c’è più. Forse anche a causa di questo che è diventato un soggetto letterario affascinante.
Com’era il cinema che lei racconta nel suo romanzo?
Era come il titolo del libro, “l’’ultima innocenza”: era l’ultima possibilità per chi lo faceva e per chi lo guardava. Per quanto sappiamo che era anche quella Babilonia che ci hanno raccontato di recente, c’era una comunità, un popolo, una storia, c’erano in fondo sofferenze, gioie, speranze che poi nutrivano quel cinema.
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