Michela Murgia, ti scrivo, così mi faccio rimproverare un po’.
La mia direttrice mi bacchetterà, a ragione, perché scriverò in prima persona. Non si fa, è una lezione base del giornalismo che ho assimilato dalle secche ed eleganti parole di Michele Brambilla e Roberta Ronconi, i miei primi maestri (continuo ad averne, perché in questo lavoro sopravvivi se non smetti di imparare) e che ha ribadito con fermezza Concita de Gregorio.
Michela Murgia, la malattia
Michela Murgia, mi rimprovereranno tutti, perché questo non è un pezzo SEO. Ma va così. Ho letto la tua intervista sul Corriere della Sera e non riesco a non pensare a te, a voi, a come hai raccontato ad Aldo Cazzullo del tuo tumore al rene, incurabile, al quarto stadio e di come lo farai nel tuo prossimo libro, Tre ciotole. A come gli uomini spesso – ma non sempre, pensate a Cosa sarà di Francesco Bruni, meraviglioso – raccontino la malattia come una battaglia con vincitori e sconfitti e le donne (penso anche al bellissimo libro di Francesca Mannocchi Bianco è il colore del danno) sappiano darle una dimensione diversa, strutturata, complessa e sappiano affrontarla davvero, invece di farne un mostro da battere o contro cui soccombere. Ma anche questa, alla fine, è una generalizzazione.
Sento l’esigenza di scriverne e credo che vada fatto con il massimo della sincerità e allora sì, non posso esimermi né dalla prima persona, né dal darti del tu.
Anche se, per anni, ho litigato con la speaker con cui ho fatto coppia in radio, Tatiana Fabbrizio (ascoltatela, è la migliore, su Radio Rock), perché non sopportavo alcuni toni delle tue riflessioni, c’era qualcosa che mi stonava delle tue intemerate e delle tue provocazioni. Ora posso dirlo, credo fosse che sono solo un uomo. Nel senso di maschio, ma anche di umano. Troppo fragile per prendermele tutte le mie responsabilità, soprattutto se qualcuno me le sbatte in faccia con un’onestà intellettuale disarmante e senza farmi sentire dalla parte giusta.
Lei mi ha mandato dei link, delle lezioni all’università, delle masterclass che ha tenuto con regolarità la scrittrice e intellettuale Michela Murgia (sì, ora tolgo la prima persona, mi sembra giusto dare importanza al tuo ruolo nella vita culturale del nostro paese). E ne sono diventato dipendente, così come di un qualcosa di radicalmente diverso e opposto, la passione, competente e quasi ossessiva, per il K-Pop (recuperate la puntata del podcast Mucchio Selvaggio in cui è ospite di Fedez e soci, meravigliosa), una passione inaspettata e divertentissima, ma anche arguta nell’analisi di un fenomeno. E nell’autoanalisi di sé, nel concedersi leggerezza e sano fanatismo, perché si può combattere battaglie con ruvida grinta – la stessa che mi aveva conquistato ai suoi esordi, quando racconto il suo, il mio, il precariato della nostra generazione – ma senza perdere la tenerezza.
Come cerco di non fare mai, mi ero adagiato sul pregiudizio collettivo, su chi per non ascoltarla e darle ragione la rendeva antipatica, raccontandola – noi giornalisti per primi – come la virago insopportabile e un po’ snob. Fosse stata un uomo sarebbe stata ironico, “con le palle”, implacabile. Lei era solo una rompiballe. Da qui una tardiva passione e un recupero di libri e lavori che mi hanno portato, mentre questo giornale stava nascendo, a proporre che tenesse una rubrica su THR proprio su K-Pop e i generi cugini. Poi, chissà perché, per pudore o troppo lavoro – probabilmente per tutti e due – quella telefonata non l’ho fatta, nonostante la proposta fosse stata accolta con entusiasmo da tutti. Miché, per inciso, se vogliamo cominciare domani, noi ci siamo.
Eppure Michela Murgia non va ringraziata per la battaglia intellettuale, politica, sociale, anche economica sul femminismo e sulla parità di genere, anche se Morgana, scritto con Chiara Tagliaferri, lo sto leggendo ai miei due figli maschi, anche se volevo andare a vedere con lei Mia di Ivano De Matteo e chiedere di recensirlo.
Michela Murgia e la sua passione per il K-Pop dei BTS
Non va ringraziata di sicuro per il K-Pop e per la sua passione insana per la boy band BTS, che ora sento di nascosto, con un certo senso di vergogna, meno male che c’è la masterclass che la scrittrice ha fatto con Chiara Valerio a ridarmi un briciolo di dignità con amici, parenti e colleghi, soprattutto radiofonici.
Non va ringraziata neanche per il suo attivismo politico, per il fatto che unica insieme a Saviano, pasolinianamente, non ha mai rinunciato a dire la sua sull’attualità, anche a costo di scontrarsi con politici senza scrupoli che hanno organizzato veri e propri attacchi squadristi sui social a lei dedicati.
Va ringraziata per questa intervista in cui ha svelato la malattia. Non perché sia un obbligo né un merito: la privacy è un diritto sacro e come qui in redazione sappiamo bene, c’è un altro sacrosanto diritto, quello di tenerselo per sé per evitare sguardi commiseranti. Michela Murgia questa scelta, per un tumore ai polmoni – questa volta è a un rene e purtroppo già in metastasi – l’aveva fatta quando si candidò alla presidenza della Regione Sardegna nel 2014. Un silenzio giustissimo, per quanto mi riguarda neanche il presidente degli Stati Uniti è obbligato a svelare le sue condizioni di salute, io sto con Jed Bartlet in West Wing, che la sua malattia degenerativa la condivide solo con 16 persone e non con l’intero Paese (che poi nella puntata Una difficile rivelazione ne verrà messo a parte). C’è un muro invalicabile tra privato e pubblico e siamo tutti obbligati a rispettarlo. Anche quando viene abbattuto dal malato, che si espone. E lo fa come vuole, che lo viva con la carica emotiva e ansiosa della partecipazione di tutti di Nadia Toffa o col pudore sorridente di Giovanni Allevi, o con l’umanesimo politico – la politica, Michela Murgia, l’ha trovata pure nei BTS, figuriamoci se non la trova in un’esperienza del genere – dell’intellettuale sarda.
In questa intervista ha parlato serenamente della malattia, senza locuzioni infantili (male incurabile, il mostro, la bestia, lo stronzo), ha raccontato con serenità che sì, c’entra anche il Covid, che l’ha portata a trascurare i controlli, che non si opererà ma che sta cercando di agire su qualcosa che migliori la qualità della vita che le resta e le possa dare qualche mese in più dai pochi che le hanno diagnosticato. Su Instagram pubblica la foto di un medicinale fondamentale per questa terapia che è passato dal servizio sanitario nazionale. Un cuore attorno alla dicitura burocratica che lo afferma, è il tenero e determinato atto sociale e umano di chi non rinuncia a essere se stesso, politico ed emotivo, neanche adesso che potrebbe serenamente fregarsene del paese, degli altri, di tutto. Ci racconta che si sposerà, ma solo per facilitare chi rimarrà, ma chiama il compagno marito e il magone sale; ci dice che ha comprato una casa piena di letti, per la sua grande famiglia queer. Neanche una parola detta a caso, ma una narrazione che ci dice tanto di più di quello che si legge.
Sì, Michela, ti ammiro tanto per tutte queste cose. Oddio no, per i BTS no, mi sei costata troppe prese in giro. E ringrazio quell’amica e collega per avermi scardinato dalla superficialità con cui avevo percorso molta della tua vita e carriera. Ma è quell’ultima frase, quella più importante. Quando alla domanda se non vivessi come un’ingiustizia una morte così prossima rispondi “ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi”.
I romanzi più belli dell’autrice sarda
Michela Murgia da Cabras, autrice di un capolavoro della letteratura contemporanea come Accabadora e di un’opera che ci racconterà come società meglio di tanti saggi (Il mondo deve sapere, da cui Paolo Virzì ha tratto l’altrettanto geniale Tutta la vita davanti), scrittrice, conduttrice radiofonica, drammaturga e mille altre cose insieme – forse davvero l’unica erede, in parte, del grande e mitico Pippo Fava – ci dà una lezione più importante delle tante, sue, che già possiamo trovare su pagine, link, YouTube, podcast.
In un mondo come questo, ossessionato dall’immortalità – dall’estetica al rifiuto della morte nelle narrazioni di ogni tipo, l’incapacità di conviverci con serenità come molte altre culture -, in cui tutti siamo ossessionati dal quanto vivere, lei ci ricorda che conta il come. Che sono meglio 50 anni da Michela Murgia, che 200 da Matteo Salvini. O semplicemente anche venti in più, ma vissuti nascosti, da sé e dal mondo, incapaci di incidere o anche solo di essere felici.
Gli Stati Uniti il diritto alla felicità lo hanno messo in Costituzione, ma forse è Michela Murgia ad averci fatto capire cos’è.
E allora Michela, tutto questo profluvio di parole, in realtà è “solo” un grazie.
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