Henry Kissinger e Diego Armando Maradona, la storia da cinema della guerra che nessuno conosceva

E' quello che potremmo chiamare il trattamento Maradona by Kissinger. “Soltanto lo sbarco in diretta di un’astronave extraterrestre carica di omini verdi potrebbe convincere tanta gente a raccogliersi contemporaneamente davanti a un televisore per due ore”, diceva sempre il buon Henry che in Diego trovò prima l'opportunità di colonizzare quello sport, poi un nemico da eliminare in ogni modo

Di seguito un estratto del libro Diegopolitik (ed. Bibliotheka, euro 15) di Boris Sollazzo, uscito il 26 maggio 2023. Il capitolo è il numero 16 (anzi, il 10+6, in onore dell’iconico numero di maglia del fuoriclasse argentino) ed è intitolato “Kissinger, l’arcinemico”. Diegopolitik è una biografia politica del calciatore e attivista Diego Armando Maradona, incentrata in particolare sugli anni che vanno dal 1995 al 2015. 
In questa parte del libro vengono raccontati gli incontri-scontri tra Henry Kissinger – scomparso il 29 novembre 2023 – e il campione, a partire dal mondiale argentino del 1978 fino a Usa ’94.

“Questa manifestazione è stata studiata in modo sbagliato. E assurdo che si giochi a mezzogiorno, in un clima che ti taglia le gambe, che ti sottopone a uno sforzo inaccettabile, che può causare anche malori e drammi. Havelange e Blatter sono egoisti, hanno pensato solo agli interessi legati alle tv. Non accetto che i calciatori siano sfruttati. Per anni gli industriali che governano la Formula 1 hanno finto di ignorare ì pericoli. Hanno pensato alla pubblicità, ai soldi: poi, quando è morto Senna, hanno cominciato a pensare a come modificare i regolamenti”.

Dritto, senza ambiguità. È il 15 giugno del 1994, siamo nel pieno dei mondiali di calcio statunitensi, e il riferimento non è casuale, il pilota brasiliano è sempre stato uno degli idoli di Diego Armando Maradona. Antonio Careca ha raccontato che quando andò a trovarlo, dopo la tragedia, a San Paolo, chiese come prima cosa di onorarne la tomba. “Amava chi dava gioia al mondo” ha raccontato l’ex 9 partenopeo.

Potete immaginare quella dichiarazione che effetto ebbe. I calciatori perdevano fino a quattro chili tra massa grassa e muscolare, in poco più di 90 minuti. Alcuni di loro negli spogliatoi, tra il primo e il secondo tempo, avevano piccoli collassi. Più di una volta a fine partita sono intervenuti medici e paramedici. 

Diego vedeva tutto, in tanti si lamentavano con lui, e ogni giorno alzava la posta. 

D10S era risorto ed era disposto a sacrificarsi per salvare tutti gli altri. Questa cosa doveva finire. Possibilmente con una bella, esemplare, umiliante crocifissione. Ma facendolo passare come ladrone, è ovvio.

A dirlo, in un paio di telefonate e in una riunione carbonara dei massimi dirigenti Fifa e delle federazioni più importanti è Henry Kissinger. Il cui rapporto privilegiato con Gianni Agnelli era il minore dei difetti. Heinz Alfred Kissinger, sodale e amico strettissimo di Nelson Rockefeller è un personaggio tanto deleterio quanto affascinante. Ebreo tedesco, scampò all’Olocausto fuggendo a New York e alla povertà grazie alla Seconda Guerra Mondiale: da soldato semplice naturalizzato statunitense in una settimana riuscì a ripristinare l’ordine in una cittadina tedesca di mezzo milione di abitanti, in Germania, così dicono i suoi agiografi.

Nelson Rockefeller lo consiglia a Eisenhower già nel 1955. Lavorerà per tutti i presidenti successivi (fino a Gerald Ford), ma il suo momento più alto è con Nixon, che in lui trova un fratello, un’anima gemella, un compare. Condividono cinismo e ossessione per il potere, un gusto per la segretezza quasi patologico, la capacità di navigare per acque torbide con grande naturalezza. E una naturale propensione al rancore. 

Entrambi vivono anche il senso di rivalsa sociale di chi era ai margini – Nixon per carattere e propensione alla sconfitta, Kissinger per quell’accento tedesco marcato e l’infanzia difficile – e vuole diventare il migliore, costi quel che costi.

Henry ce la fa: vince addirittura un Nobel, nell’anno in cui con un golpe eterodiretto – la sua dottrina di politica estera prevedeva serenamente ingerenze politiche e militari nei governi di altri paesi non allineati agli Usa – consegna il Cile a Pinochet. 

La storia e un paio di processi hanno sostenuto che il mandante fosse lui, così come dell’omicidio del generale René Schneider, comandante in capo dell’esercito cileno ai tempi delle elezioni che portarono l’Unidad Popular di Allende a vincere. Un militare atipico, Schneider, noto per teorizzare il non intervento delle forze armate in politica, in alcun modo. Tutto questo avveniva già negli anni ’70. Uno dei pezzi “pregiati” dell’Operazione Condor – un alleanza sistematica tra le destre e servizi deviati e un pezzo degli eserciti di gran parte del Sud America per tutelare il continente dalle influenze comuniste, a qualsiasi prezzo, fossero dollari o vite umane – iniziata con diversi colpi di stato fin da metà anni ’50.

Intendiamoci, Kissinger è uno che ha saputo alimentare la propria leggenda e che, come l’Andreotti sorrentiniano, si deve ancora capire quanto fosse potente o strumento di altri potenti, più capace a creare il proprio mito che ad azzeccarne troppe. In ogni caso, in Italia è stato sospettato da molti – vedova compresa – di un’implicazione decisamente importante nell’assassinio di Aldo Moro, anche a seguito di sue minacce neanche troppo velate per convincere il politico pugliese a recedere dal proposito di attuare il compromesso storico.

Uno, insomma, che farebbe tremare chiunque e che per sottrarsi a processi come criminale di guerra nel corso degli anni è dovuto fuggire in tutta fretta da Irlanda, Francia e Argentina, a causa di tre procedimenti (tra i tanti) aperti contro di lui.

Ma Diego Armando Maradona non ha mai avuto paura del Potere. Non ha mai pesato i suoi nemici, ma solo le cause per cui valeva la pena battersi. Per sua sfortuna, però, Henry e Diego si sono incrociati sin troppe volte. 

Il mondo non è il Marvel Universe, è un luogo meno eroico e decisamente più squallido in cui però, le ossessioni private diventano pubbliche e il personale, politico. Vale per Diego, che dalla propria biografia ha attinto la forza, il desiderio, il sogno di cambiare il mondo, vale per il tenace e cinico Kissinger che dalla propria ha attinto una sete di potere che ha rovesciato, ricambiato, sul suo mecenate per cui ha fatto instancabile attività di lobbying (Rockefeller) e per il paese che l’ha adottato consegnandolo alla stanza dei bottoni, trasformando la già feroce dottrina Monroe in un sistematico e selvaggio sistema di affermazione del neoliberismo nel dopoguerra.

Per chi non lo sapesse James Monroe esplicitò la vera essenza, ma sarebbe più giusto dire assenza, del sogno americano il 2 dicembre del 1823. Lo fece, il quinto Presidente degli Usa, in un discorso sullo Stato dell’Unione. Apparentemente era un’affermazione di sovranità degli Usa che rifiutavano qualsiasi ingerenza esterna: peccato che la estendessero all’America Latina e ai processi di indipendenza coevi, allora con l’intenzione di respingere l’influenza dell’Europa e in particolare dei coloni spagnoli. Fu la prima affermazione dell’imperialismo statunitense come lo conosciamo ora – e non a caso divenne l’asse su cui costruire una santa alleanza con l’impero britannico – e travestito da isolazionismo virtuoso Monroe prima, con gretta arroganza, e Jefferson poi, in maniera più raffinata, intesserono rapporti privilegiati con le maggiori potenze del Centro e Sud America, fingendo di volerle proteggerle ma, in realtà, iniziando a depredarle, controllarle, manipolarle in un processo inquietantemente simile a quello che pochi decenni dopo si affermò in Italia tra Nord e Sud. 

Kissinger prese questo caposaldo dell’identità della superpotenza a stelle e strisce e lo fece diventare un interventismo attivo in tutti i processi – democratici, economici, sociali – dell’America Latina, facendo sì che i suoi interessi con multinazionali e potenze economiche divenissero strumento e fine di una strategia imperialista che considerava il Sud America “il cortile di casa”. E si sa, se sei un nordamericano, nel tuo cortile puoi fare tutto: sparare a chi vi entra, abbattere tutti gli alberi se la cosa ti aggrada, metterci dentro chi (e cosa) vuoi, sotterrare nel giardino spazzatura e rifiuti tossici, difenderlo ad ogni costo. 

Il buon Henry dall’alto di posizioni sempre apicali, nel gotha politico ed economico e, vedremo, anche sportivo, non ha lesinato impegno nel perseguire la sua strategia, forte di un’amoralità totale – dal terrorista Posada Carriles ai dittatori argentini, ogni alleato era buono per mantenere il dominio nordamericano su un cortile peraltro pieno di risorse umane e naturali – e di una violenza politica, bellica e tattica di rara intensità.

Condita da un senso, se non delirio, d’onnipotenza che aveva un preciso cardine, la rimozione, non importa con quali armi, di qualsiasi ostacolo alla sua visione, che dagli anni ’70 in poi ha attecchito soprattutto nel Nord America più repubblicano, da Nixon ai teocon che si sono avvalsi, per la loro affermazione (soprattutto con Bush jr) della stessa classe dirigente o, al massimo, dei suoi allievi (con Donald Rumsfeld e Bush sr. a capeggiare l’armata).

Da Segretario di Stato, dal Cile, fin dal 1970, per arrivare all’Argentina del regime militare, ha messo a ferro e fuoco un Sud America lacerato da tensioni interne ed esterne, appoggiando, quando non condizionando direttamente, dittature e affini che hanno cancellato le generazioni migliori di quel continente, è stato il promotore di una guerra sorda e continua che ha avuto quasi esclusivamente vittime civili. La cui colpa a volte era stare solo sull’aereo sbagliato e in altri casi, di credere in ideali di uguaglianza, progresso umano e politico, equità sociale. O anche solo di leggere i libri sbagliati o vestire la maglia di una squadra nota per il suo impegno politico, come il San Lorenzo de Almagro (che vide molte vittime anche tra i suoi tifosi).

Kissinger, ancora sugli scudi da centenario – nei maggiori consessi mondiali da Davos in giù ha detto la sua persino sulla guerra in Ucraina “consigliando” a Zelenski la cessione di territori ai russi per la pace, dall’alto del Nobel più immeritato della storia -, ha fondato la sua missione su un’implacabile capacità di schiacciare i propri nemici, fossero interi Stati o singoli. E a questa schiacciasassi dal volto ferocemente sorridente nelle foto di gala non è stato sottratto neanche Diego Armando Maradona, che a Kissinger ha imposto umiliazioni non da poco.

Fin dal 1987, quando offrì passaporto americano e 100 milioni di dollari all’argentino per divenire il testimonial di Usa ’94 – in fondo, una dozzina d’anni prima Pelé si era accontentato di molto meno per “vendersi” ai Cosmos e al mercato americano – fino al ritorno al calcio giocato prima offerto su un’autostrada partita dall’Australia e arrivata fino a Boston e poi murata da un posto di blocco sotto forma di estromissione dal mundial statunitense per un doping grottesco, studiato a tavolino per punirlo delle prese di posizioni pesantissime contro Fifa e comitato organizzatore (in cui Kissinger era il deus ex machina) per il trattamento degli atleti e per l’organizzazione economica. 

Kissinger è stato, più di ogni altro, l’arcinemico di Maradona. E proviamo a mettere in fila una serie di sfortunate, inquietanti, illuminanti coincidenze legate a fatti inconfutabili. Provando ad analizzare un tanto al chilo strategie, sfere d’influenza, storia dell’ex segretario di Stato a stelle e strisce.

A chi sorride per il fatto che si metta il miglior giocatore della storia del calcio sullo stesso piano di un Nobel per la pace e tra i politici e consigliori più influenti del dopoguerra in almeno tre continenti, ricordiamo che il rapporto di Kissinger con il calcio è decennale. A partire da diverse dichiarazioni di sostegno alla giunta militare argentina – tra cui la migliore è, un anno prima della rassegna e con i lavori su impianti e infrastrutture in devastante ritardo, “i mondiali in Argentina si faranno e li vincerete” – all’influenza diretta su organi di stampa, in particolare italiani, con la complicità di Licio Gelli (il padre della P2), influentissimo in quel pezzo di mondo: le cronache di quel 1978 dovevano essere esclusivamente sportive e ignorare ogni tipo di considerazione politica, aiutati dalla bolla, anche architettonica (mura che hanno ghettizzato interi quartieri, come successe a Rosario, per dirne una) costruita attorno agli atleti e alla stampa al seguito da Videla e soci.

Non vi basta? A capo del comitato organizzatore inizialmente, l’Ente Autàrquico Mundial, fu messo il generale Omar Actis, prontamente assassinato e sostituito di fatto dall’ex capitano di vascello Carlos Alberto Lacoste, che arriverà fino al grado di ammiraglio e per 11 giorni fu persino presidente ad interim a capo del paese, era la fine del 1981. Quel Lacoste che già prima, sotto il contrammiraglio Julio Cesar Bardi aveva, nel 1976, azzerato i vertici calcistici nazionali ancora in mano ai peronisti, con modalità brutali e ultimative. 

Lacoste, in ottimi rapporti con Kissinger e diretta espressione di Emilio Massera, uno dei tre capi militari del regime, quello che venne, grazie ai rapporti con la famiglia Rizzoli, a fare propaganda in un’Italia connivente che in quel viaggio, attraverso molti personaggi influenti, chiese lasciapassare per desaparecidos “raccomandati” dimostrando di sapere cosa accadesse a quelle latitudini. Lacoste, sotto la presidenza puramente onorifica del generale Antonio Louis Merlo, diresse l’enorme sforzo organizzativo e di propaganda che mise su la grande menzogna di un’Argentina che in quell’estate con le mani torturava e con i piedi giocava la competizione che il paese sognava di vincere da sempre.

Cosa c’entra Lacoste con Kissinger? Facile. È il militare che acconsente alla presenza negli spogliatoi del politico prima di Argentina-Perù, la “marmelada” (l’equivalente del gergale “biscotto” in italiano, ovvero di un risultato di una partita aggiustato) che permise ai padroni di casa di arrivare in finale per differenza reti il girone di semifinale con un argentino naturalizzato peruviano nella porta dei biancorossi, Quiroga, che quella partita non doveva nemmeno giocarla.

Lo hanno sempre saputo tutti che quel 6-0 fosse stato accomodato, ma José Velazquez, centrocampista della nazionale peruviana sostituito nel secondo tempo per troppo impegno, lo ha confermato in un’intervista alla testata Trome nel 2018. Kissinger, che non smise mai di prevedere per l’Argentina “un grande futuro” e che alla trimurti militare diceva di “fare presto quanto necessario” perché con Carter la sua sfera d’influenza e di copertura si sarebbe ridotta di molto.

E si sbrigarono, infatti, l’80% degli scomparsi si sono accumulati nei primi due anni regime. Bene, quest’uomo considerato uno dei maggiori statisti del mondo e della storia (in realtà è sempre stato un Richelieu meno onesto intellettualmente) aveva inoltre rapporti fortissimi sia con Videla, che lo accompagnò negli spogliatoi, che con Francisco Morales Bermùdez Cerruti, generale che prese il potere a Lima nel 1975 con il golpe definito Tacnazo (dal reparto d’artiglieria comandato da Roberto Viaux che ne fu il leader militare).

Bermudez, uno dei beneficiari dell’Operazione Condor che, come ricordiamo, era una missione di politica estera nixoniana di concerto con la CIA volta a preservare l’influenza statunitense nei territori più caldi del Sud America e in particolare quelli a più forte influenza socialista e comunista. Strettamente legato a Kissinger, guarda un po’, e che si ritrovò alla sbarra, nel 2015, nel processo istruito dal procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo contro le sparizioni forzate degli anni ’70 in America Latina. Ben 143 imputati, tra cui lui e molti altri capi di stato. Con Videla e Massera esentati solo dal sopravvenuto decesso, ma presenti in centinaia di pagine dell’istruttoria.

Ed è a Bermudez che si riferiscono Videla e Kissinger quando all’allenatore del Perù e ad alcuni giocatori ricordano “gli ottimi rapporti tra i due paesi”.

Torniamo però a Lacoste. È anche il padrino di Julio Humberto Grondona, il tesoriere della federazione (e in seguito lo diventerà anche della Fifa) che nel 1979 divenne presidente dell’AFA. E a chiudere il cerchio sarà lui l’uomo a cui il mefistofelico Henry imporrà l’allontanamento dalla squadra del presunto dopato Maradona nel 1994, nel pieno di una cena di gala quantomeno inopportuna. La sera prima del dramma sportivo del campione, infatti, Julio Grondona e Joao Havelange (vicepresidente e presidente Fifa) siedono allo stesso tavolo a Washington.

Brindano, e nel frattempo decidono cosa fare di Dieguito. A chi brindano? Sembra una barzelletta, ma a Henry Kissinger, la cena di gala la federazione calcistica mondiale l’ha organizzata in suo onore. I tre cercheranno di nascondere l’incontro, ma una tempesta che bloccò il volo del presidente da Washington fece saltare la copertura. Magari possiamo anche far finta che tutto questo fosse un caso: in fondo era inevitabile che la Fifa organizzasse qualcosa per il boss dell’organizzazione, specie se diplomaticamente così influente. Sbagliato, 21 anni dopo Grondona e Blatter, per togliere ogni dubbio sul doppio filo che lega Henry e la Fifa, daranno allo statista l’Ordine al Merito, la più alta onorificenza calcistica. Dopo che Sepp gli aveva già consegnato, sì anche questa sembra una gag, le chiavi della commissione d’inchiesta sulla corruzione. 

Kissinger e il calcio, quindi, possiamo definirli organici l’uno all’altro. D’altronde 25 anni fa Vittorio Zucconi rivelò una celebre frase attribuita proprio all’uomo di fiducia di Nixon che fa capire quanto la diplomazia sportiva (era l’uomo di palle e palloni, dalla diplomazia del ping pong a quella del football) fosse essenziale alle sue strategie. “Soltanto lo sbarco in diretta di un’astronave extraterrestre carica di omini verdi potrebbe convincere tanta gente a raccogliersi contemporaneamente davanti a un televisore per due ore”. 

Perché diventa l’arcinemico di Diego Armando Maradona? Per tre ottimi motivi, che lo porteranno, letteralmente a cercare prima di sedurlo e poi di eliminarlo. Non fisicamente – il caso Allende suicidato da un golpe eterodiretto dalla Cia e cardine dell’Operazione Condor gli mostrò come i martiri siano una fiaccola accesa negli ideali dei popoli -, ma umanamente e professionalmente. Lo insegna la mafia: se non puoi comandarli o comprarli, screditali, rovinali, devastali. 

I tre ottimi motivi sono il grande voltafaccia personale e politico del 1987: rifiuta, Diego, di diventare testimonial a stelle e strisce, perché “io rimarrò sempre e solo argentino, nessuno può comprarsi la mia identità, neanche con un passaporto così ben pagato” e va a Cuba a prendere un premio per conoscere Fidel Castro.

Il secondo è che sostiene, Diego, il nemico pubblico numero uno di Kissinger, quel rivoluzionario barbuto che a 50 km da casa dimostrava a tutti che si poteva combattere una superpotenza, e che si poteva farlo senza se e senza ma. Sostiene, tra le altre, anche quel Nicaragua che con la rivoluzione sandinista è stata l’unica altra esperienza continentale, sempre a due passi dai propri confini, in cui gli Usa sono stati sconfitti dai ribelli.

Non una simpatia, un capriccio, ma un vero e proprio sodalizio politico. Tanto che il calciatore dirà, nel 1994, che se avesse vinto il suo secondo mondiale, non avrebbe stretto la mano degli alti papaveri della Fifa né di politici nordamericani, ma avrebbe dedicato la Coppa a Fidel Castro.

Infine Diego Armando Maradona diventa il portavoce dell’ALBA, del bolivarismo chavista, anche come anchorman su Telesur, confidente del venezuelano e ovviamente di Fidel, e cardine della loro strategia comunicativa e politica. Chavez rivelerà di aver condiviso con lui informazioni che non diede neanche ai suoi collaboratori più fidati o al suo gabinetto politico, Castro lo inserì nell’ultimo vertice con l’amico e sodale Hugo, nel 2011, e Maduro, nella commozione dell’ultimo saluto a Diego, si lasciò sfuggire che quest’ultimo, nei momenti più duri, lo aiutò a bypassare l’embargo alimentare ai danni di Caracas.

Il leader nicaraguense Ortega condivise con lui dettagli del progetto del canale transcontinentale che doveva demolire il monopolio di quello di Panama solo col campione, in una riunione privata di due ore. Non proprio un ruolo politico di secondo piano, o folcloristico, come molti ci hanno voluto far credere in Occidente, ma di primissimo piano, come è evidente.

Attivo, centrale, influente. Tanto che quando Cristina Kirchner provò a tornare presidente nel 2019, pensava addirittura a un ticket con Diego come vice. E il suo sostituto – lei dovette scegliere un ruolo di secondo piano per la malattia della figlia -, Alberto Fernandez ha continuato a tenere in grande considerazione Diego, che lo ha sostenuto con tutte le sue forze, anche per il suo odio, politico e sportivo, per Macrì. “Non ti è bastato rovinare il Boca, hai voluto farlo anche con le prossime due generazioni di argentini”.

E Kissinger la centralità dell’icona e del politico Maradona, la capì prima di tutti. Così dal 1987 le provò tutte. Prima con una proposta che non poteva rifiutare, poi cercando di determinarne il futuro sportivo, a livello di club e di nazionale. Si offrì, Henry, di aiutarlo ad andare a Marsiglia nei momenti più difficili con Ferlaino, grazie ai rapporti strettissimi con Bernard Tapie, quasi riuscendoci.

E fu determinante nel suo ritorno dopo la prima squalifica, spingendo Sepp Blatter, che Kissinger sostenne fin da quando era solo un grigio colonnello svizzero nella sua corsa verso i vertici mondiali, nell’aiutare l’argentino prima ad andare a Siviglia e poi a Usa ’94. 

E questi sono solo i fatti. Poi possiamo anche mettere in fila degli eventi e immaginarne la connessione. 

Sono tanti. Prendiamo le strategie note del Kissinger politico. Seduzione, mediazione – sempre oliate da opportunità economiche -, contrapposizione violenta, attacco alla reputazione personale e professionale, strumentalizzazioni e induzione di crisi attraverso alleati potenti, terra bruciata (e nel caso dei golpe, dal Cile in giù, incendiava anche Case Rosade e presidenti), esilio.

Lui ha sviluppato un enorme potere negli Stati Uniti e in Italia. Sarà una coincidenza, per carità, ma Diego Armando Maradona non è mai potuto tornare negli Stati Uniti – se non goliardicamente con il fratello Lalo, passando con un auto a noleggio la frontiera dal Canada – per i suoi trascorsi con la droga. I reati per detenzione di stupefacenti sono gli stessi che Kissinger e soci hanno ignorato per fargli giocare, però, il mondiale nordamericano.

Esilio. In Italia, altro luogo in cui la longa manu kissingeriana si muoveva spesso e volentieri, il numero 10 del Napoli non è potuto tornare per anni, se non a prezzo di umiliazioni imbarazzanti (con tanto di orecchini pignorati da agenti delle tasse e poi ricomprati da Miccoli), per evasione fiscale. Peraltro mai commessa come dimostra la beffarda sentenza della Cassazione ottenuta dall’avvocato Angelo Pisani, che nel 2014 prese in carico la missione di dimostrare davanti a tutti l’innocenza del campione, nella primavera del 2021. Quattro mesi dopo la sua morte.

Sugli alleati potenti, sappiamo quante multinazionali, capi di stato – ricordate Vicente Fox che istericamente lo insulta quando capisce che l’ALCA sta saltando? Il presidente messicano usò la sua forza mediatica per mostrarsi il più fedele dei kapò di Bush jr – personaggi equivoci e persino terroristi muovesse Kissinger. Fare esempi prenderebbe un altro libro (e c’è il DiegO Rivoluzionario dell’ottimo Francesco Amodeo che di sicuro lo fa con dovizia di particolari), ma andiamo sul semplice: zio Henry aveva stretti legami con Carlos Menem, attraverso Grondona.

Menem, dopo aver sfruttato l’immagine di Maradona, lo vende ai giornalisti e lo fa arrestare in diretta tv – annientamento della reputazione – il 26 aprile del 1991 per sviare l’attenzione da accuse di corruzione legate al narcotraffico del suo entourage. Menem è lo stesso che chiamato da Grondona, nel 1994, per avere un consiglio su come affrontare la positività mondiale del Diez, dice “Julio, sono con te”. In confronto Giuda era uno leale. 

E questa è la versione light di quello che potremmo definire come il trattamento Maradona.

Trattamento che potremmo vedere, in filigrana, anche pensando alle due squalifiche per doping. Unite, in entrambi i casi, dalla manomissione della provetta della contranalisi e l’annullamento dell’obbligatorio anonimato. Una coincidenza che avviene in due continenti diversi a tre anni di distanza. Curioso, di peggio ricordiamo solo il caso Schwazer, ormai evidentemente riconosciuto come un complotto. Come se non bastasse il laboratorio italiano in cui furono analizzate le urine del calciatore del Napoli era quello dell’Acqua Acetosa, finito al centro di uno degli scandali legal-sportivi più clamorosi del dopoguerra. E in entrambi i casi Diego sapeva di essere pulito. Nel primo perché sapendo di essere dipendente dalla cocaina, procedeva ad analisi private che gli consentissero, in caso di tracce rilevabili, di non giocare. Nel secondo perché per il suo ritorno mundial non intendeva in alcun modo lasciare nulla di intentato. Ma sono coincidenze, per carità.

La terra bruciata è arrivata nel suo mondo, in cui Maradona nonostante abbia conservato sempre carisma e capacità d’attrazione, si è visto tagliato fuori da tutto. Pochi ricordano che dopo l’eliminazione dell’Argentina con un poker nei quarti di finale subito dalla Germania ai mondiali sudafricani, il dibattito sul prosieguo dell’avventura di Maradona da ct della nazionale fu molto acceso. Tanto che Grondona non riuscì a esonerarlo.

Ce la fece qualche settimana dopo, quando l’argentino partecipò a un’iniziativa politica di Hugo Chavez in cui prese posizioni importanti sulle strategie economiche e politiche del leader – in particolare sul petrolio usato non come elemento di lucro ma come trampolino per gli altri paesi del continente, venduto in cambio di servizi e risorse e non dollari (ricordate la moneta virtuale Sucre?) – e al suo ritorno a Buenos Aires si ritrovò al centro di una polemica feroce in cui molti politici anti kirchneristi chiesero, ottenendo, la sua testa.

Se sorridete del Maradona folcloristico di Dubai e dei Dorados, pensate che non ha mai avuto davvero alcuna opportunità in Occidente, nel calcio evoluto. Solo il popolo lo ha protetto, acclamandolo come ct della nazionale e regalandogli l’ultima romantica, folle, dolcissima avventura al Gymnasia, con tanto di trono.

Per Kissinger Maradona era un nemico pericoloso, strutturato, con una potenza mediatica e una capacità di unione di diversi mondi su un’unica piattaforma di rara forza. Uno da attenzionare a tutti i livelli, persino quello dei servizi segreti. Cercate la parola Maradona nei file Wikileaks: comparirà sei volte. Nessun altro sportivo ha lo stesso trattamento. Un paio di citazioni possono sembrare normali, informative. Le altre, meno. C’è anche da dire che nel suo lavoro a Telesur ha preso posizioni e fatto interviste che fanno sembrare persino pochi quei passaggi nello scandalo politico del secolo. 

Seduzione, mediazione – sempre oliate da opportunità economiche -, contrapposizione violenta, attacco alla reputazione personale e professionale, strumentalizzazioni e induzione di crisi attraverso alleati potenti, terra bruciata, esilio. Se sostituite l’esilio con la morte avrete un bel pezzo dell’Operazione Condor ma anche il modus operandi della criminalità organizzata. Sarà una similitudine dura, ma basta chiedere a qualsiasi esperto del ramo. Mafia, non a caso, è l’accusa pesantissima che Maradona ha rivolto ai suoi nemici: Bush jr e Blatter e Havelange in testa. Aveva intuito il metodo, non il mandante (Kissinger, appunto), anche se dopo il 1994 lo ha sospettato, pur senza mai attaccarlo direttamente.