Il mondo secondo John Ford, ed. Jimenez (euro 20,00), recita la quarta di copertina è “il tentativo, forse folle e disperato, di raccontare la poesia di Ford. Per provarci, Alberto Crespi ha inventato un percorso che non è cronologico, né di genere (i western e i non-western). Un percorso tematico partendo da un film: “Ombre rosse”, il film dove tutto è cominciato. Il film perfetto, che Orson Welles adottò come manuale vedendolo decine di volte prima di girare “Quarto potere”. L’autore ha quindi preso i nove passeggeri della diligenza, e ciascuno di loro sarà lo spunto per un capitolo: parlando di Ringo/John Wayne si analizza la figura dell’eroe fordiano, parlando di Dallas/Claire Trevor scopriremo che Ford è un regista assai più “femminile” di quanto si creda, e così via. Oltre ai nove passeggeri, in Ombre rosse ci sono altri due protagonisti. Gli indiani, ovviamente; e la Monument Valley, il paesaggio che Ford scopre in quel film e che per molti appassionati è diventato il Far West per antonomasia. Nove personaggi più due: undici capitoli per viaggiare nel mondo di John Ford, e scoprire la sua poesia”.
Alberto Crespi, collaboratore fondamentale di questa testata, ha deciso di regalare a The Hollywood Reporter Roma in esclusiva un estratto del suo volume, quello dedicato alle figure femminili nel cinema di John Ford. Forse il capitolo più originale e inaspettato.
Il libro uscirà il 1° settembre 2023, il 31 agosto sarà il cinquantennale dalla morte di chi ha costruito e immaginato il cinema come lo vediamo oggi.
La donna nel cinema di John Ford
Il dottor Cartwright, in Missione in Manciuria, entra in scena al decimo minuto di proiezione in groppa ad un asino: come Henry Fonda in Alba di gloria e in La croce di fuoco. Alla missione tutti si aspettavano un uomo: il cablogramma parlava di un “dottor D.R. Cartwright”. Ed effettivamente Cartwright è vestita da uomo: pantaloni, stivali, cappello da cowboy. La vediamo entrare nella missione in campo lungo, poi la macchina da presa stringe sul suo primo piano e vediamo il volto bellissimo ed espressivo di Anne Bancroft, che osserva tutto e tutte con un pizzico di malcelato disprezzo. Capiamo tutto, subito: è una donna, sì, ma è una figura dominante, con la quale non si scherza.
Il vero scopo del libro Il mondo secondo John Ford è provare a raccontare in cosa consista la “poesia” di Ford, ma ce ne sono altri. Uno è sfatare il luogo comune secondo il quale Ford sarebbe un regista “maschile”, che piace solo agli uomini. Missione in Manciuria, il suo ultimo film, si intitola in originale 7 Women, “sette donne”. Deriva da un racconto della britannica Norah Lofts, Chinese Finale, pubblicato nel 1935. Tutto nacque dalla volontà di Ford di fare finalmente un film “sulle donne”, e il racconto di Lofts, imperniato sul coraggio di una dottoressa che si sacrifica per salvare le altre donne della missione, evocò in Ford il ricordo del racconto di Maupassant Boule de suif che è alla base di Ombre rosse. Ma qui tutti i personaggi importanti sono femminili: gli unici uomini sono i feroci guerrieri mongoli di Tunga Khan e un prete debole e inetto, destinato a morte sicura, interpretato da Eddie Albert. Il cast, oltre a Bancroft, è un settetto di fuoriclasse: Margaret Leighton, Sue Lyon, Mildred Dunnock, Betty Field, Flora Robson e Anna Lee. Le cronache d’epoca raccontano una lavorazione veloce e idilliaca, durante la quale Ford fu incredibilmente gentile con tutte le attrici (a parte una sfuriata con Flora Robson, che aveva lamentato l’assenza della parola “Dame” sulla porta del camerino) e riservò le sue consuete torture da set al povero Eddie Albert, vittima di scherzi atroci. Nella sua durata di 87 minuti, Missione in Manciuria è un film perfetto. E la battuta finale che Cartwright rivolge a Tunga Khan dopo averlo avvelenato, e prima di suicidarsi a sua volta con lo stesso veleno – «So long, you bastard»: addio, bastardo – non era nel racconto né in sceneggiatura: Ford e Bancroft la improvvisarono sul set, ed è la battuta finale – rivolta da una donna a un maschio violento e stupratore – di tutto il cinema di Ford.
Cartwright è il personaggio femminile più forte, più aspro e più sentito del cinema di Ford. Ma sono tante le donne che Ford racconta con complicità, spesso affidando a loro i passaggi più importanti dei film per quel che concerne l’enunciazione dei valori sui quali il mondo fordiano si basa. In Maria di Scozia, film non del tutto riuscito ma importante per la presenza di Katharine Hepburn, attrice e donna da Ford molto amata, la regina appena arrivata a corte per riprendersi il suo regno afferma: «Non mi sposerò, ho seguito consigli di uomini per tutta la vita, ora vivrò la mia vita». È una dichiarazione forte, quasi femminista, e non dimentichiamo che Maria di Scozia è il racconto della lotta per il potere di due donne determinate come Maria Stuarda ed Elisabetta I.
L’incredibile storia del doppio finale di Furore
Ma pensiamo al monologo finale di Mamma “Ma” Joad (Jane Darwell) in Furore. Suo figlio Tom (Henry Fonda) se n’è appena andato, per continuare la lotta in clandestinità, come un partigiano. Nell’ultimissima sequenza, i Joad ripartono per un altro campo profughi, un’altra tappa della loro odissea. Forse troveranno altri lavori, forse no. Il figlio Al chiede alla madre se ha paura. «Paura?», ringhia Jane Darwell, quasi offesa. Non ha paura. È arrabbiata perché sembra che il mondo sia pieno solo di nemici, ma bisogna andare avanti. Il marito le dice: «È solo grazie a te che andiamo avanti. Io non mi sento più buono a nulla». E qui, Ma enuncia la sua filosofia: «Beh, Pa, una donna riesce a cambiare meglio di un uomo. Un uomo vive, diciamo, a strappi, una cosa dopo l’altra. Un bambino nasce, qualcuno muore, è uno strappo. Ti fai una fattoria, la perdi: un altro strappo. Per le donne è tutto un flusso, una corrente. Ci sono le cascate, ma il fiume va sempre avanti. La donna guarda la vita così. È quello che ci rende forti. I ricchi vengono, e muoiono. I loro figli non valgono nulla, e muoiono. E noi continuiamo ad arrivare. Noi siamo la gente che vive. Non ci possono spazzare via, non ci possono sconfiggere. Andremo sempre avanti, perché noi siamo il popolo».
Questa scena, nell’edizione italiana del film, non c’è. Fu tagliata. In Italia il film finiva con il congedo di Tom dalla madre. Quando lo scoprimmo, grazie a un dvd che conteneva la versione completa, pensammo a una censura politica. Una chiusa troppo populista, quasi “socialista”! È possibile, anche se sarà bene ricordare che Furore non uscì in Italia nel 1940, durante il fascismo, ma nel 1952 (quando per altro la censura democristiana picchiava duro: è l’anno di Umberto D.). Ma come spesso succede, la storia è più complessa, a volte ambigua. Scoprire com’è andata davvero la faccenda dei due finali di Furore è molto istruttivo: spiega come funzionava Hollywood, e come funzionava la testa di John Ford. Il monologo finale di Ma Joad era inserito nella sceneggiatura con un’aggiunta datata 1 novembre 1939, quando Ford era ancora impegnato nelle riprese. Ma pare che quando Darryl Zanuck (il capo della 20th Century Fox) chiese a Ford cosa ne pensasse del nuovo finale, Ford disse che andava benissimo e suggerì a Zanuck di girarlo lui stesso. Intervistato anni dopo da Peter Bogdanovich, Ford ammise che il finale di Zanuck era ok. Beh, quel finale probabilmente scritto da Nunnally Johnson (sceneggiatore del film) e ripreso da un passaggio del romanzo di John Steinbeck, girato da Zanuck in teatro di posa e accettato da Ford in quanto «all right» (è questa l’espressione che usa parlando con Bogdanovich), è meraviglioso. È uno dei tanti momenti commoventi di Furore ed è bellissimo affidare a Ma Joad le “conclusioni” del film. Anche se è un personaggio minore rispetto a Tom, Ma Joad è la forza ancestrale che tiene insieme la famiglia, è la sua coscienza emotiva rispetto alla coscienza politica, di classe, incarnata dagli uomini. Solo lei può parlare di “people”, di popolo, senza essere retorica.
Chissà se le riflessioni di Ma Joad sulle differenze fra uomini e donne, sul fatto che queste ultime «can change better than a man», suonano accettabili nel mondo di oggi, alla luce del #metoo e di tante altre giuste istanze? Prendiamoci la libertà di non rispondere. Quando si parla di Ford e in particolare di questo argomento – le donne nel suo cinema – nulla è più fuorviante che affidarsi a categorie ideologiche estranee a quel mondo. Ciò che conta, è che il cinema di Ford è pieno di personaggi femminili forti, che prendono in pugno le situazioni, che spingono in avanti le storie raccontate nei film e la storia dell’America che in quei film è sempre in sottofondo. Ricordiamo rapidamente Clementine Carter (Cathy Downs) in Sfida infernale, Philadelphia Thursday (una fenomenale Shirley Temple) in Il massacro di Fort Apache, la splendida Maureen O’Hara in numerosi film (forse l’attrice preferita di Ford, che ha reso lei e John Wayne una “coppia di fatto”), le bellissime Ava Gardner e Grace Kelly che si contendono Clark Gable in Mogambo (e dal film si capisce benissimo che la preferenza di Ford è tutta per Ava, tra l’altro l’unica capace di sfidarlo nel reggere l’alcol…) e tante, tante altre. Del resto, non dimentichiamoci che il titolo originale di Sfida infernale è My Darling Clementine: e chi, se non John Ford, poteva intitolare una storia di banditi e sceriffi, di rudi uomini del West, con il nome della donna che con la sua forza e il suo carattere ama prima il bandito, e poi lo sceriffo?
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