Ha gli occhi gravi che gli abbiamo visto in tutti i film, dal primo I cento passi del 2000 fino all’ultimo, Delta, del 2023. Occhi gravi e anche sorridenti. Ha raccontato la mafia con I cento passi, appunto, ma anche con la recente serie televisiva The Bad Guy, il Sessantotto con la La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, le stragi di Stato con Romanzo di una strage, le Brigate Rosse con Buongiorno Notte di Marco Bellocchio. Film impegnati, duri: ma mai pesanti. Spesso i suoi personaggi sono d’indole pacata, equilibrata, ma con in sé un germe di follia, fanatismo, rabbia, violenza. Esseri molto umani.
E’ di Luigi Lo Cascio che stiamo parlando. Ma qui lo troviamo nelle vesti di scrittore: nel suo libro Storielle per granchi e scorpioni, appena uscito, indaga le paure e ossessioni umane cercandone il paradossale e il grottesco, dando voce ad altri esseri viventi per andare ancora più a fondo, con la libertà speciale concessa dalla favola. Presentato anche al Salone del Libro di Torino, è una raccolta di 33 racconti umoristici al cui centro ci sono anche gli umani, ma non solo. Ci sono anche mosche che filosofeggiano mentre vengono torturate, capre che si innamorano della luna e scrivono poesie, fiori, gatti, batteri, e appunto granchi e scorpioni che parlando di letteratura.
Nel 2018 Lo Cascio aveva già pubblicato Ogni ricordo un fiore nel 2018, anche questo edito da Feltrinelli. Il primo era una sorta di Conversazione in Sicilia al contrario: un lungo viaggio in treno da Palermo a Roma. Ecco l’intervista con THR Roma.
Il granchio e lo scorpione sono due personaggi di uno dei racconti. Come mai proprio loro hanno dato il titolo al libro?
Il titolo è legato al finale un po’ umoristico del libro. Spesso un autore ci tiene a dire che tutto ciò che ha scritto è reale, o al contrario, che è tutto inventato e ogni rifermento a fatti o persone esistenti è del tutto casuale. In questo caso invece sono tutte storielle strambe, paradossali: è ovvio che hanno a che fare con la fantasia. Alla fine del libro, però, c’è un mio avvertimento: dico che questi racconti vanno prese “con le pinze”: che non si creda che una capra può davvero volare o una mosca mangiare un divano! Quindi quale miglior pubblico di un granchio e uno scorpione? Però anche noi lettori ipotetici potremo apprezzare il libro se avremo la stessa capacità a di immersione e di “prendere le cose con le pinze” che hanno questi due animali.
Il granchio e lo scorpione si lamentano del fatto che gli umani parlano sempre di loro stessi. Da quando si è cominciato a discutere in maniera più diffusa di crisi climatica, ci si è posti anche il problema di questa specie umana che in effetti parla solo di sé. Tu dai voce a molte altre specie. Capre, fantasmi, batteri, mosche…
Sì, è sicuramente liberatorio, anche al di là del discorso politico, sociale, storico e geologico e della crisi climatica. Stiamo compromettendo il pianeta in maniera duratura, stiamo lasciando tracce fin sulla crosta terrestre, e sicuramente dobbiamo cambiare passo, uscire da tempi frenetici e miopi per trovare soluzioni più grandi. Ma al di là di tutto ciò, parlare non solo di se stessi ma anche di capre, mosche e batteri libera veramente l’immaginazione e la fantasia. Vuol dire poter inserire nelle storie dialoghi abbastanza azzardati a cui solitamente non prestiamo attenzione. È capitato anche a certi grandissimi autori come Bergman di sentire la necessità di andare a rinfrescare la fantasia nel mondo delle fiabe. Non fa male spalancare le possibilità dell’immaginazione grazie a un procedimento che non segue troppo le categorie della logica a cui siamo abituati o del principio di realtà.
In uno dei racconti un uomo torna a casa e quando apre la porta vede che il suo divano non c’è più. E proprio dove stava il divano ora sta una mosca. La incolpa di averlo mangiato, vuole una sua confessione, la tortura, ma la mosca non cede, resiste. Parli più di “grandi ingiustizie” o di rapporti di potere quotidiani, in cui tutti siamo umano e mosca?
Sicuramente il tema dell’ingiustizia mi muove molto, il fatto che chi detiene il potere si accanisca contro il debole è una delle cose che scatena più la mia indignazione. Però per me le storie nascono prima per conto loro, non con un’idea da difendere alla base. Sta al lettore fare poi delle connessioni con la sua vita, con le cose che pensa. Non avrei la forza di utilizzare la scrittura come braccio armato di un ideale che ho in mente e che voglio suggerire a qualcun altro. È tutto molto spontaneo.
Il suo libro fa pensare ad autori come Landolfi, Manganelli, Kafka, Wilcock, Borges. Ma forse anche Buzzati, o Calvino. Ce n’è qualcuno a cui si è più ispirato o che aveva più in mente mentre scriveva?
Non c’è uno scrittore a cui mi ispiro attivamente – con il desiderio di assomigliargli, diciamo – ma ci sono gli scrittori che ho letto, che formano il mio immaginario, che mi influenzano nel modo di costruire la storia e che fanno sì che poi mi piaccia quello che ho scritto nel momento in cui lo rileggo, probabilmente neanche in modo consapevole. Sicuramente avevo in mente Wilckock e Leopardi, forse Pirandello e Kafka. Anche se poi in Pirandello c’è molto di Leopardi e in Wilcock c’è molto di tutti questi, anche di Borges… infatti erano amici. Quindi posso dire, in un modo o nell’altro, tutti loro: gli autori che hanno formato il mio immaginario.
Nel 2018 hai pubblicato Ogni ricordo un fiore. Ma la scrittura era già presente nella tua vita, prima di questi libri?
Fino al 2018 avevo scritto delle drammaturgie che avevo poi messo in scena e una sceneggiatura per il cinema, La città ideale. Però la scrittura, al di là della pubblicazione, viene da molto prima. Nasce quando studiavo all’Accademia di arte drammatica. Al liceo non ero un grande lettore, ero molto ignorante pur avendo fatto il classico ed essendo considerato “bravo”. Ma era uno studio esteriore, non c’era niente che mi riguardasse veramente. Poi, invece, all’Accademia è scoppiato questo innamoramento fortissimo per la lettura, per i grandi autori, soprattutto per il teatro e la poesia, ma poi sono diventato onnivoro proprio perché sentivo di avere un vuoto enorme. Sono stato travolto, e mi è venuto subito come un riflesso di scrivere per cercare di rispondere a quello che leggevo. Queste risposte erano versi, accenni di drammaturgie, piccole prose. Da allora ho sempre continuato, è come un diario di bordo esplorativo, mio. Quando poi ho intravisto che qualcosa di quello che scrivevo poteva essere interessante anche per gli altri, è venuta l’idea del libro.
Il tuo lavoro di attore, quanto contribuisce alla scrittura?
Molto viene da lì. Per esempio il racconto Sogno di una capra è nato quando nell’estate 2020 sono andato a Recanati a leggere alcuni canti di Leopardi, e lì mi è venuta l’idea di questa storiella, che si rifà al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Il lavoro che faccio mi porta a incontrare storie e persone che possono diventare la scintilla. Tutti questi racconti vengono da qualcosa che mi è successo in vita o che mi è accaduto come lettore. E le mie letture sono molto legate al mio lavoro. Il racconto intitolato Il superorganismo è nato mentre giravo il film Il signore delle formiche e interpretavo un poeta e mirmecologo, ossia esperto di formiche, che parlava spesso del superorganismo in cui si strutturano le formiche, come fossero un’unica entità.
E al contrario, cosa porta la scrittura al tuo lavoro di attore?
Quando si scrive, più che dire: “Ora ti racconto una storia”, si dice: “Ora ti racconto come sono fatto io”. Propongo a te lettore un argomento che mi sta a cuore ma soprattutto lo tratto in un certo modo e quindi ti do degli indizi sulla mia sensibilità, su come funzionano i miei pensieri. Quindi la scrittura porta anche me a conoscermi meglio. Prima di scriverle magari non sapevo di avere a cuore certe cose in maniera così specifica. E tutto ciò che contribuisce alla conoscenza di me è un elemento importante per poi sapermi mettere anche da parte, per sapere che cosa di me devo togliere, quando devo interpretare un personaggio. La scrittura come laboratorio di conoscenza di se stessi contribuisce agli elementi che si mettono in campo durante il lavoro da attore.
A proposito di diversi linguaggi che si influenzano, recentemente è stato protagonista di The Bad Guy, una serie. Cosa cambia, rispetto al cinema?
Il linguaggio cambia dal punto di vista della scrittura, ma questo riguarda solo gli sceneggiatori. C’è una grammatica diversa, attenzioni particolari per far durare l’attenzione sei ore invece di due. Ma per me come attore è lo stesso, mi riferisco a un personaggio che è immerso in una storia, come per un film mi deve sembrare interessante quello che dicono i personaggi, la storia e il modo in cui viene girata. Penso che se le cose sono scritte bene, hanno una loro intelligenza e sono girate bene possono essere messe su qualsiasi supporto.
C’è chi ha ancora un’idiosincrasia per le serie televisive, ma ce ne sono di brutte esattamente come ci sono sempre stati film brutti.
Si fa l’errore di pensare che se ci si rivolge a un pubblico ampio bisogna essere semplici, impoverire il linguaggio, essere immediatamente comprensibili. E siccome spesso ci si imbatte in scritture di questo tipo resta il pregiudizio, un marchio che colpisce in modo ingiustificato cose anche molto interessanti. Ma credo che anche nel mondo delle serie televisive si stia capendo che non è semplificando e impoverendo che si crea un prodotto “per tutti”, bisogna invece fidarsi pubblico, proponendo qualcosa di spettacolare anche per la mente, non solo per l’azione.
Ne ha una preferita?
Non ne ho viste tante perché ho poco tempo. Ma la serie che ho capito che non potevo perdermi e dovevo vedere per forza è Breaking Bad, forse una delle più belle mai fatte. E poi ho aggiunto Better Call Saul.
Il tuo ultimo film, Delta, è molto denso: c’è una natura molto presente anche lì. E tocca temi delicatissimi: la crisi ambientale vista come questione di classe, i bracconieri che non sono i cattivi ma i più sfruttati, l’associazione ambientalista che si trasforma in una banda squadrista.
Delta mi ha colpito appena ho letto la sceneggiatura. Racconta un mondo che non conoscevo e che mi ha intrigato: parla di tutto ciò che vive intorno al fiume, attorno al delta del Po, realtà che non conoscevo per niente. E poi la storia è tratta da cose che sono accadute davvero. C’erano davvero questi bracconieri di fiume, e davvero molte comunità fino ad allora pacifiche hanno dato il peggio di sé cercando di farsi giustizia da sole. E poi il crimine che si compiva era nei confronti del fiume, qualcosa che sembrerebbe inerte, e non un organismo come è. Ma soprattutto mi interessava molto il mio personaggio: un uomo pacifico, con degli ideali, che lavora in un impianto idrovoro e quindi si occupa di mantenere l’equilibrio fra l’acqua e la terra, un pacifista e un ecologista ma che, toccato nei suoi effetti personali e incontrando un lutto fortissimo perde la capacità di equilibrio che avrebbe potuto conservare altrimenti. Questa trasformazione, questo andare verso l’eccesso, verso la mancanza di controllo delle proprie facoltà, mi attraeva dal punto di vista della ricerca espressiva.
Questo aspetto c’è sia in Delta che in The Bad Guy che in Breaking Bad…
In effetti mi attrae il fatto che tutto ciò si annida nell’animo umano, e poi il modo in cui le circostanze e l’ambiente ci trasformano. Pensiamo di avere una natura, un’identità e invece nascondiamo cose che possono veramente sorprenderci. Mi affascinano le potenzialità che abbiamo in situazioni particolari, anche positive. Siamo un magma di possibilità e potenzialità. Le nostre vite abitudinarie danno spazio ad alcune di queste mentre invece circostanze particolari possono portare a sorprese rispetto a come siamo.
Immagino sia una cosa che si capisce facendo l’attore, devi poter essere qualsiasi cosa.
Abbiamo la stoffa fisica, vocale, intellettuale, emotiva e sentimentale per poterci trasformare in qualsiasi cosa.
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