C’è una Milano di asfalto e sole rovente, cielo senza colore, più nessuno per le strade crepate dal caldo. Non nasce più niente. Chi c’è si nasconde fra le rovine, cerca l’ombra e ha perso tutto. Qualcuno in questo niente cerca di mantenere ordine e potere. A spaventare quel qualcuno, sono i ragazzi: quasi non ricordano più il passato, famiglia, scuola, aria respirabile e calore umano sono ricordi sbiaditi, ma la voglia di esistere straripa ancora. Alcuni si incontrano e creano spazi segreti e ribelli di vita.
È la Milano di Noi siamo campo di battaglia di Nicoletta Vallorani, uscito per la casa editrice Zona 42. È la Milano futura di un romanzo ma ha in sé qualcosa di vivo. Secondo la rivista Solarpunk Italia, “scrivere fantascienza significa scandagliare il presente per immaginare gli infiniti futuri possibili”. Noi siamo campo di battaglia va ben oltre la fantascienza, scarta dal genere, ma questa frase gli si addice particolarmente.
Asfalto bollente
Fuori dalle nostre finestre oggi ci sono circa 37 gradi, a Milano. A Roma si sono superati i 40, se ne prevedono 46 in Sicilia. La superficie terrestre (non quella atmosferica) ha raggiunto nei giorni scorsi i 45°C a Roma, Napoli, Taranto. 50°C alle pendici dell’Etna. Sono fra 8 e 10 °C in più rispetto alle medie già alte che si hanno, o ormai avevano, normalmente a luglio. L’asfalto è bollente, l’aria manca, le città si svuotano.
Fuori di qui, Cina e Stati Uniti superano i 50°C: sono proprio loro i paesi responsabili del maggior numero di emissioni. In questi giorni i responsabili per il clima dei due paesi, John Kerry e Xie Zhenhua, si sono incontrati a Pechino per riavviare i colloqui sul tema che si erano interrotti a causa delle tensioni degli ultimi mesi. Si parla di picco di emissioni in Cina nel 2030, di neutralità nel 2060, ma intanto la Cina investe in carbone e gli Usa non smettono mai di investire in gas e armi e non si smette mai di produrre e consumare come se di tempo e di risorse ce ne fossero per sempre, o piuttosto come se si potesse sempre farla franca. Intanto i ragazzi protestano, si incontrano ai Climate Camp di Torino o di Venezia.
Nella città fantasma di Noi siamo campo di battaglia si muovono Lukas, Amina, Luce, Attilio, Nina, Han e Biz: ragazzi soli, feriti, vivissimi. Tutti loro un tempo frequentavano la scuola di via Vivaio. È un istituto che esiste davvero, si trova vicino a Porta Venezia a Milano ed è speciale: si chiama Scuola per ciechi, ma in realtà integra attraverso studi musicali allievi vedenti, non vedenti e con altre disabilità: attraverso la musica lì trovano voce tutti. Nel romanzo la scuola si chiama semplicemente “il Vivaio”.
Chi perde tutto
Un vivaio è un luogo in cui far nascere qualcosa. Rapporti umani, legami, piante, un orto. La cura quotidiana e delicata che richiede un germoglio, la magia nel vederlo nascere se tutto fuori è arido: sono la stessa cura e la stessa magia che richiede un’amicizia, un legame umano in ogni sua forma. La prima ad arrivare al Vivaio e a farne il suo rifugio è Carla, la professoressa. Lei ha perso tutto: per questo, oltre a prendersi cura dei bimbi smarriti, smarrita a sua volta, ha bisogno di loro. Vulnerabile anche lei e quindi fertile anche lei, come i ragazzi, con i ragazzi.
In Noi siamo campo di battaglia c’è il presente di calore, siccità e arsura. C’è un futuro già in nuce in cui l’illusione di farla franca in alto finisce per disgregare il tessuto sociale in basso.
E c’è un altro futuro, il “futuro possibile”, anche quello già visibile oggi, in queste nostre città bollenti. Più nascosto eppure più quotidiano. Un vivaio è ovunque, è una pratica, un modo di stare.
Un rifugio climatico urbano
In Spagna i movimenti climattivisti parlano della necessità di creare un un nuovo tipo di spazio urbano: il rifugio climatico comunitario. “Spazi con acqua, sì, ma costruiti dalla comunità perché nascano e crescano come qualcosa che appartiene al quartiere e dove possiamo intervenire. (…) che facciano ombra, sì, ma non quella dei mattoni e della plastica, bensì quella di centinaia di alberi in cui si riproducono gli uccelli. Integrati in una rete di rifugi, sì, ma soprattutto densi e collegati nelle aree vulnerabili o densamente popolate, per facilitare l’accesso alle persone che oggi hanno meno spazi verdi. Organizzati per resistere agli effetti del cambiamento climatico, sì, ma anche a creare gli elementi costitutivi di una società in grado di affrontarlo” si legge in un articolo su El Salto.
Come i centri sociali, servirebbero da luogo aperto e di raduno per tutti, ma la crisi climatica dà un’importanza tutta nuova alla cura. Luoghi freschi non per l’aria condizionate ma grazie all’ombra delle piante, luoghi a cui possono approdare giovani, anziani, senza tetto, chiunque abbia bisogno di un rifugio dall’aridità non solo del clima. Dei vivai, che forse esistono già, nascosti nel caldo torrido delle nostre città, forse sono proprio i ragazzi e qualche professoressa come nel libro di Vallorani a costruire spazi segreti e ribelli di vita, ombra, piante e cura.
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