Quei giorni torneranno. Un titolo ottimista dà il nome al secondo romanzo del giornalista Fabio Luppino, edito da Santelli. Cinque donne, cinque racconti, cinque vite da protagoniste, fuori ma soprattutto dentro alle mura delle redazioni italiane. Attraverso le loro voci sono restituiti gli ultimi trent’anni di giornalismo e di clima politico, tra trasformazioni e decadenza ma insieme a un inguaribile quanto inevitabile sguardo fiducioso al futuro.
Luppino, classe 1964, ha lavorato per l’Unità, il Secolo XIX, il Corriere della Sera e dal 2018 è una delle firme dell’Huffpost. Un percorso che dall’odore della carta stampata lo ha portato ad avere conoscenza e consapevolezza anche dei meccanismi dell’informazione digitale.
Quei giorni torneranno è dedicato “ai giovani e alle donne che cambieranno il mondo”. Perché se in tre decenni “una generazione intera ha progressivamente perso il senso della realtà e del racconto”, si legge nella sinossi del volume, “ci sono giovani curiosi che interrogano il presente e si impegnano con passione per entrare nel mondo dell’editoria”.
Il libro esce in un momento, il 2023, in cui l’Italia è salita al 41esimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa di Reporter sans frontières. Come dice il rapporto annuale, il nostro Paese ha recuperato 17 posizioni e superato gli Stati Uniti (al 45esimo posto). Ma l’ultima analisi del World Press Freedom Index avverte che la libertà dei media è in pessime condizioni in un numero record di Paesi. La disinformazione, la propaganda e l’intelligenza artificiale sono le principali minacce.
Un senso di fine, facile da sentire, più difficile da contrastare. “Continuare a fare finta di nulla, lasciare che il giornalismo sia per sempre piegato all’opinionismo, spesso perbenista, consentirà ad altri, con altri obiettivi, di dire cosa sarà giusto o meno giusto fare. Non se ne accorgerebbe nessuno se un’intera categoria scomparisse dalla scena, perché già lo sta facendo, anche se inconsapevolmente. O una parte di essa. Moderni fenomeni di sostituzione già esistono, addirittura programmi che producono articoli, senza la necessità di un giornalista. La realtà si può anche ignorare, ma va avanti lo stesso e a un certo punto ti travolge, proprio quando sei pronto all’ennesima recita”, scrive l’autore.
Credere ancora è il messaggio finale: “Con l’auspicio di rafforzare in chi lo legge quanto sia importante battersi per le proprie idee, anche controcorrente. Perché c’è sempre una possibilità e che non siamo, non saremo mai, alla fine della storia”.
Un estratto di Quei giorni torneranno
Destra, sinistra, fine. Non vedevano l’ora di poterlo dire, nati marxisti e comunisti, proprio loro, attendevano questo momento da più di un decennio. Quelli che lasciano una chiesa sono i più duri, i neointransigenti, quasi dimentichi di averne fatto parte. Giù a martellare sulla fine delle ideologie, basta, sovrastrutture inutili e dannose, questa favola che vi siete raccontati, in nome di quante devastazioni e massacri. Questa virata non poteva risparmiare il giornalismo. Anzi, i primi ad abbandonare il pugno chiuso furono loro, sempre connotati e ora pronti a elaborare un verbo nuovo, nel segno, lo stiamo dicendo da un pezzo. Rappresentazione e autorappresentazione. Abbandonare progressivamente il racconto dei fatti e spostarsi sulla lettura, quasi a prescindere. Rifuggire dai conflitti e creare un fiume dal grande letto con tutto e tutti dentro. Un processo di sostituzione propagandato per laicità e modernità e veicolato con gli artifici della brillantezza, della ricercatezza verbale, del paradosso. La realtà al servizio del paradosso, sempre più vero, sempre più ficcante. Voi non sapete dove state andando, ve lo diciamo noi. Il laterale è principale, il nascosto è evidente, la vittima è carnefice. Perdere il contatto e giudicare, elaborare un diverso modo di rappresentare il mondo, con al centro il soggetto narratore e non l’oggetto. Sembra un gioco, in realtà non lo è.
Rovesciare l’evidenza dei fatti. Amico, non è come sembra, guarda il lato oscuro, cerca soprattutto quello. Per cui le superfetazioni mentali hanno via via soppiantato lo sguardo. Non ti fidare, non è lì il nodo del problema. La realtà oltre la realtà. Seguendo quel filo superi il confine e i fatti ignorati sono solo il pretesto per un vuoto esercizio dialettico che, se diventa opinione comune, si trasforma nella effettiva rappresentazione riconosciuta via via da un piccolo circolo sempre più largo e autoreferenziale, ma con grande presa mediatica. Gli stolti delle ideologie sono stati sostituiti dal tertium datur e quelli troppo inclini a schierarsi, dai tutto si tiene. Oltre il conflitto, oltre le contraddizioni, oltre tutto, ricchi e poveri, apocalittici e integrati, esclusi e inclusi, disparità di condizioni, di vita, di fatica. Un appiattimento teorico diventato opinione comune, con quelli animati dal principio di contraddizione e soprattutto da quello di realtà considerati come miopi e vecchi. Ma oltre la realtà non c’è nulla, il resto è elaborazione con la pancia piena, sguardo leggermente proteso fuori, ma con il sedere ben piantato sul divano.
Pancia piena, generazione che ha preso e avuto tutto, quando per arrivare non bisognava passare per un campo minato. Se i fatti diventano espedienti, quelli che ne sono protagonisti si accorgono di diventare ancora più marginali e quel che accade diventa secondario. La scomparsa dei fatti, il parametrare l’esistente alla propria condizione. E tutto questo è stato percepito, l’autoreferenzialità del giornalismo negli ultimi venti anni è la causa principale della crisi di credibilità. Parlarsi addosso, non scavare più anche se ci sarebbe moltissimo da cercare. I fenomeni implodono e poi esplodono, quasi sempre nella meraviglia di chi doveva capirli prima. Venir meno, per scelta, per noia, per moda. E riciclare la professione rovesciando l’ordine delle cose, con sempre più giornalisti che fanno domande a giornalisti. Ma come? Perché? Le Cinque W, allora? A che servono? Il lettore, il telespettatore, il radioascoltatore? Trasformarsi nella realtà da raccontare, più che raccontarla. Diventare ceto, casta, così come l’acqua che scorre, per censo, ma soprattutto per una visione del mondo tutta piegata a canoni precostituiti e qualsiasi evento si legge a partire da. Il diritto di cronaca quasi si appiattisce sul diritto di critica. Agli editori costa meno e farsi corteggiare per dire la propria opinione spesso e ovunque lusinga, eccome se lusinga. Si sta al gioco senza accorgersi di perdere sé stessi, la ragione profonda per cui si era scelto di fare questo mestiere. La realtà intanto va avanti, si complica, un puzzle inafferrabile. E la divaricazione sociale aumenta, diventa un fattore strutturale, accettata come ineludibile. Il giornalismo certo non cambia lo stato delle cose, ma può far emergere, denunciare, attaccare. Non tutto è perduto, certo, ma un conto è lavorare in solitaria, un altro è essere percepiti in generale come luce del mondo. Attori sul palcoscenico, con il microfono non offerto, ma preso.
Accade da un bel po’ e nello stesso periodo sale la richiesta di informazioni, anche se la disillusione ha allontanato i fruitori dal media più antico, il giornale, ma non è la moltiplicazione di strumenti per accedere a una notizia ad aver innescato lo spostamento e la distanza, quanto lo sgretolamento della missione stessa dei giornali. Con eccezioni, certo. Autenticità e credibilità, quando si perdono è finita per sempre. La chiacchiera stanca, il tono della voce, giudizi tagliati e fuori dalla realtà indignano. Un po’ come i politici, rappresentanza e rappresentati. Sentirsi sufficienti, fermarsi, non faticare più, non studiare più, soprattutto, non andare a vedere e raccontare. Non fare domande, se non retoriche, e farsele fare, come delle star. Una mutazione su cui non si riflette abbastanza. E poi rilassarsi nel tranquillo tepore dell’appartenenza, darsi di gomito, parlare bene a prescindere da qualcuno o da qualcosa, perché poi tutto questo ritornerà, senza avere alcun appiglio con il giornalismo. Non rischiare più, non stroncare un libro se è brutto, “eh, ma questo ce lo dobbiamo tenere buono”. O parlarne bene senza averlo letto davvero. Un seminato in cui si entra e di cui non ci si accorge nemmeno più. Leggere meno e lasciarsi andare ai passatempi tecnologici, perdere un pomeriggio per azzeccare la formula giusta di un tweet o per elaborare la frase a effetto e poi girarsi e vedere espressioni di consenso, anche questa l’ho detta giusta, non sbaglio mai. Diventando avatar, ma dentro la realtà, staccandosene, completamente. Il metaverso prima del metaverso, con l’appagamento di aver imposto il proprio punto di vista. Ma poi a chi? A chi fa esattamente la stessa cosa, ritrovandosi in compagnia a confrontarsi con opinioni quasi a prescindere. Il circo si forma e si compone quasi sempre con gli stessi attori e le stesse parti, muta lo studio, il cartonato, il conduttore e lo spettacolo non s’interrompe mai. Gli stessi attori con gli eventi che cambiano, hanno sempre un’opinione da offrire, basta mettere il gettone.
Poi, magari, gli eventi sorprendono, superano le costruzioni prefabbricate. Ma da quel fiume non ci si allontana e su eventi diversi in ogni caso non c’è sorpresa. Da uno o dall’altro avrai l’opinione che ti aspetti, deve recitare fino in fondo la sua parte e riproporla nella giostra di studi, siti web, interviste sui giornali in cui sarà chiamato a esprimerla. La coerenza è salva, ma a vantaggio di cosa? La povertà aumenta, un mondo in fuga preme, l’angoscia dei giovani si moltiplica, si muore per lavorare, ragazzi fuggono da scuola senza un vero perché, scoppiano guerre, si moltiplicano i produttori di mezzi militari e i trafficanti di armi, il futuro non si vede, anzi, solo presente. Il metro per giudicare non cambia. La realtà ha preso il suo corso, i suoi interpreti non l’hanno prevista, ma sempre in quel fiume deve andare a finire. Il principio di contraddizione continua a essere espulso, così la lotta di classe, non tocchiamo il capitalismo, certo, meglio dal volto umano, ma le alternative restano peggiori, per cui… Le città sono sempre meno a misura d’uomo, chi non ha viene quasi allontanato, si creano i ghetti, ma la colpa è di chi ci vive. Ma se, a un certo punto, a quest’onda di conformismo ammantato da genialità si contrappone il populismo insofferente, allora, ecco i soliti semplificatori, antipolitica, deriva, scorciatoia. Cos’altro non è o non è stato il populismo, se non una potente onda d’urto contro la riduzione della realtà ai canoni interpretativi di una casta tranquilla, comoda, supponente e benpensante? Che continua a contrastare le onde di pancia con distacco e i soliti schemi, finendo per non capire e per non spiegare nulla di fenomeni sociali in pieno corso, di tensioni crescenti, di famiglie il cui significato sta cambiando, non solo in nome delle libertà, di tutte le libertà, ma anche come tentativi per superare disagi e malesseri, togliere tappi a vite sommerse. Il vero avvitamento di chi fa informazione e opinione sta tutto qui. Si può interrompere se si riesce a segnare una vera discontinuità. Tornando ai ferri del mestiere, imponendoli.
Le tecnologie ci cambiano se ci facciamo cambiare, se si perde consapevolezza di diritti e doveri. E dei diritti e dei doveri di tutti, tornare a occuparsene con convinzione, svolgendo la funzione democratica a cui si è chiamati. Continuare a fare finta di nulla, lasciare che il giornalismo sia per sempre piegato all’opinionismo, spesso perbenista, consentirà ad altri, con altri obiettivi, di dire cosa sarà giusto o meno giusto fare. Non se ne accorgerebbe nessuno se un’intera categoria scomparisse dalla scena, perché già lo sta facendo, anche se inconsapevolmente. O una parte di essa. Moderni fenomeni di sostituzione già esistono, addirittura programmi che producono articoli, senza la necessità di un giornalista. La realtà si può anche ignorare, ma va avanti lo stesso e a un certo punto ti travolge, proprio quando sei pronto all’ennesima recita.
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