Quando l’arte s’interroga sull’impatto di un evento storico, un fenomeno sociale, inquietudini politiche o l’affermazione di nuove tecnologie, significa che il cambiamento è già in atto. Sta già accadendo e all’artista resta il compito – nobile – di sollevare dubbi, alimentare domande. Re:humanism, manifestazione di arte contemporanea nata nel 2018, ha sempre chiesto agli artisti partecipanti di raccontare il rapporto tra arte e intelligenza artificiale, già in tempi non sospetti, o comunque meno sospetti di ora.
ChatGpt e le sue derivazioni, infatti, sono ormai una realtà, probabilmente agli albori, i cui effetti saranno tangibili tra qualche anno. Il titolo della terza edizione di Re:humanism – di scena al We Gil di Roma fino al 18 giugno – è Sparks and Frictions, cioè quelle scintille e attriti che animano l’esplosione creativa e allo stesso tempo provocano un corto circuito emotivo.
I temi della terza edizione di Re:humanism
Tanti i temi affrontati dai 12 artisti provenienti da India, Cina, Regno Unito, Stati Uniti, Slovenia, Spagna e ovviamente Italia, come ci racconta Daniela Cotimbo, la curatrice della mostra e presidente dell’associazione Re:humanism: “Il filo conduttore è aperto su più tematiche. Non solo intelligenza artificiale, ma anche metaverso, biohacking, esplorazioni spaziali, l’inquinamento letto attraverso dati scientifici convivono insieme ad opere più immaginifiche che riprendono rituali antichi dall’india, magia esoterica, teatro delle marionette”.
Quelle che il visitatore vedrà negli spazi di We Gil sono opere digitali e fisiche, in parte create dall’intelligenza artificiale, ma non per esaltarne le doti creative, piuttosto con uno scopo critico. “Spesso ci dimentichiamo che l’IA è un puro strumento statistico, quindi quantitativo e non qualitativo, che tende a riprodurre delle preferenze che sono sempre standardizzate. Se da una parte andiamo incontro all’appiattimento dell’immaginario, dall’altra c’è il rischio di omologazione, e questo è il rischio principale, senza dimenticarci dell’impatto ambientale, perché noi pensiamo che l’intelligenza artificiale sia qualcosa di virtuale ed impalpabile, ma invece dietro ha delle strutture molto inquinanti”, considera la curatrice di Sparks and Frictions.
Le opere esposte alla mostra: l’IA e il rapporto con l’arte
Quello che vedranno i visitatori della mostra, spazia da Zoophyte, visionaria creazione dell’inglese Joey Holder ispirata dalla criptozoologia, che delinea un ambiente popolato da creature marine inventate, non scoperte o di cui la scienza ufficiale sa poco, al Monologo di Riccardo Giacconi che unisce le antiche tecniche del teatro di figura alle reti neurali artificiali fino all’opera dell’artista e designer cinese Yue Huang: Artificial Life che de-costruisce l’immaginario fantascientifico di un’IA iper performante mettendoci davanti ai fallimenti di un’intelligenza goffa e divertente. Insomma, opere digitali che convivono con l’arte fisica e oggettuale.
Secondo la curatrice della mostra però, per l’arte contemporanea non c’è un rischio concreto di essere sostituita da algoritmi di machine learning, perché anche “quelle opere generate che fino ad oggi sono state create dall’IA, erano la conseguenza della volontà umana, che voleva usare lo strumento. L’IA non ha alcuna necessità di fare arte, più che altro nel mondo dell’arte contemporanea potrebbe esserci un appiattimento di stile”. E questo è condivisibile. Ma il tentativo di usare l’intelligenza artificiale per sostituire la capacità creativa dell’essere umano di scrivere, che sia una sceneggiatura o l’articolo per un giornale, questo è un rischio possibile? “Sì, è vero, nell’industria creativa della comunicazione e del cinema potrebbe essere pericolosa perché con tempi brevi e costi contenuti potrebbe rispondere ad una varietà di esigenze”. Speriamo di fermarci prima.
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