È una delle controversie più celebri della musica italiana, ma qualcuno potrebbe ancora non sapere che la celebre A mano a mano, che tutti associano alla voce graffiante di Rino Gaetano fu scritta in realtà da Riccardo Cocciante. Il cantautore crotonese si limitò a re-interpretarla, in una cover resa ormai ben più celebre dell’originale, grazie al ritmo coinvolgente e ben scandito.
Dopo anni di assenza dalle scalette dei suoi concerti, Cocciante riprende il suo brano, e lo intona alla conferenza della mostra su Rino Gaetano, che dal 16 febbraio anima gli spazi del Museo in Trastevere. Bastano poche parole, e l’intera sala stampa si ritrova a cantare con lui versi ormai resi immortali come “Ma dammi la mano e torna vicino, può nascere un fiore nel nostro giardino”, nella più cauta e classica versione iniziale.
A renderli dinamici e immortali, quei versi, ci pensò Gaetano, libero cantautore svincolato da ogni logica di successo e di potere. E la mostra, organizzata dal nipote Alessandro Gaetano (che ha dato vita, assieme a Ivan Almadori, anche alla cover band ufficiale del cantante) e Alessandro Nicosia con il patrocinio di Roma Capitale, ripercorre l’emancipazione e la lungimiranza di un artista che con la musica seppe dare voce alle fragilità dell’Italia.
A più di quarant’anni dalla sua morte, avvenuta nel 1981 a soli trent’anni, Rino Gaetano mantiene ancora viva la sua memoria in ogni generazione. Lo fa dalle odi più scanzonate come E cantava le canzoni o Berta filava fino a brani apparentemente leggeri dal sotto testo impegnato come Aida, Spendi spandi effendi o Nun te reggae più. Ne è evidenza il Rino Gaetano Day, evento che si tiene ogni 2 giugno (data di morte del cantautore) nella zona di Roma che Rino considerava la sua vera casa d’adozione, Montesacro. Migliaia di spettatori – tra giovani appassionati, bambini nei passeggini iniziati dai loro genitori e chi il fenomeno Rino Gaetano lo visse direttamente – assistono ogni anno ad un revival dei suoi brani e ne cantano ogni parola, nel segno dell’inesorabile attualità di quei testi.
La mostra del Museo in Trastevere tiene conto proprio di questa trasversalità di ricezione, e studia il genio dalle origini lungo il successi, fino alla prematura fine. Sono esposti i dischi d’elezione e d’ispirazione – alcuni riconducibili a lui ed altri totalmente inaspettati, da Rumours dei Fleetwood Mac a Non al denaro non all’amore né al cielo di Fabrizio De André -, cimeli di scena, come l’accappatoio con cui salì sul palco dell’Ariston e testimonianze di chi la sua arte la visse da vicino. E ancora istantanee, cartoline e lettere di corrispondenza con la famiglia. Un cospicuo archivio di premi e immagini postume, dai raduni del Rino Gaetano Day, a foto dal set del biopic Rai o del nipote Alessandro con Coez per la registrazione di Fra le nuvole, brano contenente un sample di Mio fratello è figlio unico.
Evidenze del fatto che anche nell’epoca della trap, di TikTok e dell’immediatezza, Rino Gaetano fu il più lungimirante tra tutti. Seppe cantare sul palco puritano e conservatore di Sanremo un’Italia impiegatizia, materialista e lussuriosa. Lo fece maniera raffinata e ingegnosamente astratta, con metafore che non tutti da subito seppero captare come sovversive.
La prima mostra su Rino Gaetano quindi è un minimo ma fondamentale riconoscimento all’artista che fu, una ricompensa necessaria per un cantautore che fece della musica italiana ben più della canzone leggera d’amore comunemente esportata in tutto il mondo. Seppe mischiare folk, cantautorato, avanguardia e canzone impegnata. Nazionale nel suo essere internazionale. Profondo nella finzione di essere spensierato. Cronista di una realtà di altri tempi, inspiegabilmente adattabile al presente, dopo quarant’anni ancora diretta e immediata, ma solo per chi ha voglia di capirla. Perché come cantava in Ad esempio a me piace il sud: “Se mai qualcuno capirà, sarà senz’altro un altro come me”.
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