Niente ci aiuta a comprendere la grandezza, quella che entra nei libri di storia, come il confronto con l’attualità. Di fronte all’alluvione di immagini esasperate che raccontano la guerra in Ucraina, il dolore urlato, la ferocia esibita, la disperazione proclamata e spesso utilizzata come leva politica, le foto di Robert Capa sono quadri di sobrietà esemplare, eppure descrivono le tragedie del secolo scorso come poche altre testimonianze.
La spettacolare mostra antologica allestita al Centro Saint-Bénin di Aosta (Robert Capa. L’opera, L’œuvre 1932-1954, fino al 24 settembre 2023) diventa una boccata d’aria, la trattazione accademica di che cosa vuol dire rigore espressivo, con un accostamento che non ha bisogno di enfasi, perché a convincere bastano i fatti rappresentati.
Il luogo comune narra che Capa – nato a Budapest come Endre Ernö Friedmann nel 1913 da una famiglia di sarti di origine ebraica – sintetizzasse la sua tecnica con una battuta: “Se la foto non è buona, vuol dire che il fotografo non era abbastanza vicino”.
Eppure neanche la vicinanza con la storia può imporre una forzatura a uno sguardo maturo come quello che passava attraverso il mirino a telemetro della Contax di Capa. Non c’è scelta di campo rigida da esplicitare, se non l’attenzione pacata e affettuosa per l’umanità, che sia quella dei volontari chiamati a combattere i franchisti nella guerra di Spagna, o quella dei fanti americani terrorizzati mentre sbarcano su Omaha Beach in quel fatidico D-Day, o persino quella umiliata delle donne francesi collaborazioniste, condannate alla vergogna della testa rasata.
Nel suo libro autobiografico Slightly Out of Focus Capa raccontò che il giorno dello sbarco in Normandia con la “compagnia E” era paralizzato dalla paura, riuscì a salire su un mezzo da sbarco, a scattare qualche rullino, per poi tornare a bordo fradicio, tremante e imbarazzato. Si trovò assieme a un soldato sopravvissuto all’assalto, ed entrambi, raccontò, si battevano il petto dicendo: sono un codardo, dovevo restare su quella spiaggia. Solo al ritorno in Inghilterra Capa doveva scoprire che l’unico altro giornalista che aveva avuto la fortuna di trovare un posto sul mezzo da sbarco non era mai sceso sulla spiaggia, sotto il fuoco delle batterie naziste.
Di quel reportage del D-Day restano poche immagini, perché gran parte dei rullini esposti furono distrutti in uno sciagurato incidente di camera oscura. Su 106 scatti, appena undici furono salvati. Un disastro attribuito forse un po’ frettolosamente al ragazzo del laboratorio, quel Larry Burrows che doveva diventare anch’egli un grande fotoreporter protagonista del giornalismo di guerra e poi caduto sul sentiero Ho-chi Minh mentre copriva il conflitto del Vietnam.
Ma forse persino la perdita delle altre riprese ha contribuito alla leggenda, rendendo l’immagine mossa e sgranata del soldato fra le onde l’icona indimenticabile dello sbarco in Normandia. Lo stesso autore ammise che l’imperfezione tecnica delle foto era dovuta al fatto che la sua mano “stava tremando malamente”.
Paradossalmente, proprio il mito del grande fotoreporter amico di Ernest Hemingway, amato dalle donne, protagonista della vita bohémien, sempre elegante al punto da portare con sé l’impermeabile Burberry persino a Omaha Beach e poi doverlo abbandonare a malincuore tra i flutti, rischia di togliere risalto al valore del suo lavoro, che invece torna prepotente in una mostra antologica come quella aostana, con oltre 300 opere. Perché a ben vedere l’edificio complessivo costruito dal più grande narratore della guerra si basa su più pilastri: l’indiscutibile talento professionale, affiancato dal coraggio fisico, e allo stesso tempo la “leggerezza” di approccio, quasi una rassegnazione ironica e autoironica verso i limiti dell’umanità, unita alla compassione.
E forse, a rendere indelebile per sempre il suo lavoro nella memoria collettiva, c’era la dedizione senza limiti, quella che lo spinse a partire con John Steinbeck per documentare l’Unione Sovietica dell’immediato dopoguerra e che lo portò a raccontare la nascita di Israele.
La sua ansia di testimonianza doveva guidarlo fino alla fine: a quarant’anni, dopo aver dichiarato che non voleva più seguire le guerre, si lasciò tentare dalla proposta di coprire lo scontro in Indocina. Ad attenderlo su una strada della provincia di Thai Binh, mentre con due giornalisti di Time e Life accompagnava un reggimento francese, c’era una maledetta mina antiuomo. Era il 25 maggio 1954, la Magnum piangeva un fondatore, il mondo perdeva uno sguardo insostituibile.
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