“Ne dico tante, mi piace fantasticare, ma faccio sempre il comico. Non sarò mai io a risolvere un problema”. Si svincola dalle responsabilità moraleggianti che un certo tipo di pubblico generalista attribuisce a chi fa comicità, Filippo Giardina. Eppure, i suoi spettacoli sono un tentativo di ridimensionare le dinamiche di potere che dominano la società, perché “fare satira è mettersi un po’ a fare il bastian contrario, che tra l’altro è una caratteristica che purtroppo mi viene abbastanza naturale”.
Attualmente in tournée nei teatri con il suo Cabaret, Giardina è uno dei pionieri italiani della stand up (tipologia di spettacoli in cui il comico si esibisce in piedi davanti a tutti), nata negli Stati Uniti e giunta un po’ zoppicando nel nostro paese, per poi ottenere numerosi consensi negli ultimi anni. Prende in giro lo strapotere dei social guru e si serve della comicità come valvola di ridimensionamento dei mali della vita. Confida nei giovani talenti e diffida da chi, col passare del tempo, diventa sempre più autocelebrativo e egoriferito. Perché seppur il mestiere del comico implica necessariamente una certa dose di narcisismo, “se manca lo scatto dal particolare all’universale, tutto diventa un’aneddotica vuota”.
Che cosa vuol dire fare satira oggi?
Per me la satira è certamente politica, ma spesso e volentieri è più politico parlare di questioni etiche. Tendo a evitare la tendenza di prendere in giro il singolo atto e rincorrere l’attualità perché magari c’è una dichiarazione stupida di tal rappresentante politico. Sta più nel cercare di andare contro qualcosa che va particolarmente di moda.
Pensa che la comicità sia un modo per attaccare chi è più potente?
Nella satira c’è un po’ quell’arroganza del prendersela con i grossi, ma bisogna stare attenti pure a non trasformare la comicità in retorica. Da quando ho vent’anni sono fermamente convinto che chiunque debba poter andare a letto con chi gli pare, ma salire sul palco a dire tutti dobbiamo essere liberi di farlo con chi vogliamo lo trovo un po’ di una retorica stucchevole, non lo direi mai. L’idea di giocare un po’ anche sull’ambiguità è fondamentale per chi fa satira.
L’evoluzione della comicità subisce anche le mutazioni della società…
Sicuramente sì. La stand up adesso va di moda, proprio come sono andati di moda il rap, poi la trap e la drill. La gente esce meno di casa, si vede meno. Se prima c’erano i gruppi musicali che scrivevano insieme e si esibivano live, ora gli artisti scrivono le loro barre dentro casa, chiamano i produttori che scrivono la musica stando da un’altra parte, senza vedersi più. La stand up è per eccellenza l’arte della solitudine in una società di persone sempre più sole, separate e narcisiste.
La stand up sta effettivamente vivendo un momento d’oro o è solo un periodo di sovraffollamento?
Credo siano entrambe le cose. Il mio spettacolo io l’ho chiamato Cabaret proprio in aperta polemica con quello che gira adesso e viene definito stand up. Però insomma, quando tanta gente fa una cosa, tra tanti scarsi ci sono anche tante individualità interessanti, specialmente tra le nuove generazioni.
Chi le piace tra i suoi colleghi?
Mi piacciono i giovani come Davide Sberna, Sandro Canori, Andrea Saleri, Monir Ghassem, Benedetta Orlando. Ma la difficoltà di fare questo lavoro secondo me è legata alla scrittura, al cercare di avere sempre qualcosa che ti piace raccontare. Bisogna sapersi mantenere nel tempo.
Ci sono casi di stand up comedians che non l’hanno saputo fare?
Ricky Gervais è un ottimo esempio della direzione in cui sta andando la stand up: lui ha cominciato tardissimo, a quarant’anni, quando già era ricco e famoso e aveva scritto The Office. Si vede che non è nato facendo questo. Penso a Chris Rock, che quando prese lo schiaffo da Will Smith fu accusato da Twitter di essere un comico scadente. Invece è molto più bravo di Gervais, però come al solito entriamo in una dis-percezione causata dai social, per cui tutti si attaccano sempre a quello che va più di moda. Gervais è diventato quel tipo di comico che spiega la battuta, sempre più narcisista: fa uno spettacolo che è come una Instagram story dove è tutto “io, io, io”. Se manca lo scatto dal particolare all’universale, tutto diventa un’aneddotica vuota.
Recentemente Gervais è stato al centro di una polemica sulla possibilità di scherzare anche su tutto (al centro del caso c’era una battuta sui bambini malati oncologici). Cosa ne pensa?
La regola non scritta della comicità satirica è che se tu mi dici che una cosa non la posso dire, io la dico. È dunque presto detto che qualsiasi comico non può che stare dalla parte della libertà d’espressione. A meno che per opportunismo non voglia finire in qualche circoletto e farsi dire bravo.
Non pensa che la società possa non essere pronta a un certo tipo di black humour particolarmente forte?
È complesso, perché la vita di ciascuno di noi è un percorso ad ostacoli. Negli ultimi anni è nata questa illusione di poter togliere il dolore dalla testa delle persone, come se il linguaggio fosse la causa dei mali della società e non ne fosse solo una diretta conseguenza.
Proprio quando ci sono tante contraddizioni, quando c’è tanto dolore, secondo me è il caso di riderci su. La comicità ha un valore universale: non risolve nessun problema, però aiuta a vivere meglio una situazione, a prenderci meno sul serio. Oggi, è come se stessimo mettendo un trucco sopra i problemi. È come un ragazzino pieno di acne che pensando di rendere la sua pelle liscia si riempie la faccia di trucco. Invece la vita è anche questo: rendersi conto di essere pieno di brufoli ma andare bene anche così.
Essere un comico implica prendersi delle responsabilità?
È un senso di responsabilità particolare, il nostro. È come se io dovessi qualcosa alla satira, alla comicità, che sono cose più importanti di me. Non è tanto il messaggio che mando, è il ricordarmi ogni volta che il mio linguaggio è la risata. Io non devo fare prediche, devo sforzarmi di trovare una chiave paradossale a quello che dico, perché se togliamo le risate dalla bocca di un comico, spesso e volentieri poi esce fuori un Beppe Grillo, un qualunquista. Ne dico tante, mi piace fantasticare, ma faccio pur sempre il comico. Non sarò mai io a risolvere un problema, anzi. Forse la comicità è ciò che mi permette di spararle grosse, proprio perché poi non sento la responsabilità di cambiare le cose.
Umberto Eco diceva che “i social network danno diritto di parola a legioni di imbecilli”. Nei suoi spettacoli si schiera spesso contro il potere smodato delle reti sociali.
Certo. Penso che i fatti di cronaca degli ultimi giorni ne stiano facendo rendere conto tutti. Nella società della comunicazione, oggi, è come se fosse saltata la democrazia e si fossero create tante piccole dittature.
In tanti parlano del politicamente corretto come di una dittatura. Crede sia un fenomeno realmente esistente o è ingigantito dai media?
Quando ero piccolo essere permalosi era un difetto, oggi è diventato un diritto. Si è creata una polarizzazione: da una parte ci sono i fascistelli che si difendono dietro il “non si può più dire niente”, dall’altra c’è questa società di uomini e donne ricchi, bianchi ed eterosessuali, che si divertono a fare l’elemosina alle categorie marginalizzate cercando di proteggerle tramite i prodotti culturali. Nel mondo reale, invece, c’è sempre più violenza. E la diretta conseguenza di queste continue polemiche sterili è il tentativo di andare sul sicuro, quando il sicuro in Italia è Giorgia Meloni, purtroppo.
Comunque, credo che tutto questo finirà presto, perché mi sembra che le persone siano sempre meno interessate a queste figure che vanno tanto forti sul web. Penso alla faccenda della ristoratrice che si è suicidata. A partire da intenti condivisibili, torniamo a dei metodi molto fascisti e poco democratici. La gogna pubblica è un concetto di destra che negli ultimi anni è stato utilizzato da quelli che si spacciano per essere di sinistra, e lo trovo veramente deplorevole.
La preoccupa la possibilità che un giorno potrà non far più ridere?
Sinceramente no. Mi sono reso conto che invecchiando si peggiora fisicamente, psicologicamente, in tutti gli aspetti, e se uno sa riconoscersi, sa guardarsi con onestà, aumenteranno solo le possibilità di far ridere. Per me la stand up è un’autostrada che scorre accanto alla mia vita, negli spettacoli racconto tutte le cose che vivo, e spero di farlo anche diventando brutto, più vecchio, più incarognito nei confronti della vita. Più invecchio e più mi rendo conto che basta guardare la propria vita per vedere che c’è comicità ovunque.
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