Sottile, addirittura efebica, elegante, libera e bellissima. Cantante, attrice, regista, doppiatrice. Era un’icona di stile, un archetipo per le ragazze degli anni Sessanta e Settanta. Se n’è andata a 76 anni Jane Birkin, nella sua casa di Parigi, la metropoli che aveva scelto come patria, lasciando Londra – dove era nata nel 1946 – che era appena una ragazzina.
Gli occhi larghi di cielo e foglia, il perenne broncio e quel modo di camminare, gesticolare, imporsi come una diva per caso. Lei, proprio lei, che sembrava una marziana androgina ma aveva una sensualità profonda, moderna, fuori dai canoni. E fuori da ogni schema ha vissuto, sposandosi a soli 19 anni con il compositore John Barry, l’autore in musica della saga di James Bond, e diventando la mamma di Kate. E’ il 1966 quando Michelangelo Antonioni le offre la parte della “ragazza bionda” in Blow-Up.
Ricordando quel periodo e quell’incontro Birkin nel 2016 a Locarno disse: “Antonioni non era solo un regista, ma soprattutto un architetto. Curava personalmente ogni dettaglio di colore, di oggetti, di scenografia: e se avete visto Blow Up capirete bene che importanza avevano questi dettagli. È stato un film emozionante, lo è ancora oggi. Un film che racconta un’epoca, la mia epoca”.
Un’epoca che Birkin ha cavalcato vivendo con passione, senza pregiudizi. Quando conosce Serge Gainsbourg è un colpo di fulmine, per entrambi. Lui lascia la moglie incinta, lei si trasferisce a Parigi E’ una strana coppia: Serge il musicista, l’uomo navigato, il seduttore, lei una ventenne favolosa che non parla bene il francese, ha una voce bassa e si trova a cantare un pezzo scritto per un’altra. L’altra per eccellenza: Brigitte Bardot.
La canzone è Je t’aime… moi non plus, pubblicata nel 1969. Un brano che ebbe un successo planetario nonostante le censure, gli anatemi, lo scandalo. Un orgasmo trasformato in un 45 giri ma anche un inno di libertà usato in Spagna contro Franco. Birkin ha raccontato a più riprese l’ira del padre ufficiale della Marina di Sua Maestà britannica davanti a quel disco così audace, poi trasformato anche in un film omonimo in cui lei recita nuda.
Anche dalla relazione tempestosa con Gainsbourg nascerà una bambina – Charlotte – oggi attrice, cantante e regista di successo. I due si lasciano negli anni Ottanta, Jane si lega al regista Jacques Doillon e diventa madre per la terza volta. E’ il periodo in cui Birkin accantona la musica e si concentra sul cinema. Lavora con Jean-Luc Godard, Patrice Leconte, Paul Morrissey e soprattutto con Agnès Varda che nel 1988 le dedica il film Jane B. par Agnès V.
Sono gli anni della consapevolezza, della profondità e dei riconoscimenti: candidata due volte ai premi César, nel 1984 per La Pirate di Jacques Doillon e nel 1986 per La donna della mia vita di Régis Wargnier. Fino alla Mostra del Cinema di Venezia dove arriva nel 1985 con Polvere di Marion Hänsel e quasi sfiora il traguardo come migliore interprete femminile.
E poi, poi tutto il resto: il teatro, i musical, tantissimo cinema (con Bernard Tavernier, Jacques Rivette, Alain Resnais, James Ivory). Negli anni Duemila è sempre bellissima e molto più consapevole di sé: in musica collabora con artisti tra i più diversi ed eterogenei: Paolo Conte, Manu Chao, Beth Gibbons, Bryan Ferry, Hector Zazou, Caetano Veloso.
E’ una star, è la donna per la quale Hermès ha creato la Birkin Bag, una borsa che è oltre l’oggetto: è griffe, è icona. Come lei che si spende per decine di campagne umanitarie contro la guerra, il riscaldamento globale, i diritti dei fragili e scende in piazza, se necessario, nonostante una malattia cronica, una pericardite acuta. Ma è nel 2013 che Jane si trova a sopportare il più grande dolore della sua vita: il suicidio della prima figlia Kate. Un colpo durissimo. A quel punto si ritira dalle scene. E nel 2017 le diagnosticano anche una leucemia.
A Locarno dove le è stato assegnato il Pardo alla carriera ironizzò su sé stessa. “Io un sex symbol? Ma no. Sono solo stata una ragazza fortunata”. Un’eterna ragazza, una Peter Pan con le gambe lunghissime, che oggi ha chiuso la propria parabola terrena lasciandoci in eredità la sua voce, il suo corpo, il suo sguardo malinconico, le sue parole espresse con un pudore quasi infantile in due libri che sono cassetti segreti, aperti senza “aggiustare nulla”, senza mediazioni.
Il primo Munkey’s Diary (pubblicato in Italia nel 2019 da Edizioni Clichy) in cui parla a uno scimmiotto vestito da fantino, il suo peluche di bambina che “ha diviso con me la malinconia del convitto, i letti d’ospedale e la mia vita con John, Serge, Jacques, è stato testimone di tutte le gioie e le tristezze. Davanti alla devastazione delle mie figlie, ho deposto Munkey accanto a Serge nella bara in cui giaceva, come un faraone. La mia scimmia per proteggerlo nell’aldilà”.
E poi l’altro diario intitolato Post Scriptum 1982-2013, che inizia con la separazione da Gainsbourg e si conclude con la morte di Kate. Dentro c’è così tanto amore. Amore disperato per Serge il “maudit”, i tradimenti la gelosia, l’uomo che la faceva ballare in strada, le pestava i piedi per errore ed era “delizioso”, l’amore fortissimo, totale per le figlie. Amore per gli altri, poco per sé, per quella sua vita vissuta con “un ottimismo infondato”. Jane con la sua grazia lieve, i sorrisi appena accennati, fragile come una meringa. Irresistibile sempre. Per sempre.
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