L’ultimo addio di Robbie Robertson: l’amico geniale di Bob Dylan, l’ossessione di Martin Scorsese

Il leader di The Band si è spento a Los Angeles a 80 anni. Il menestrello ingaggiò il gruppo per i suoi tour europei nel 1965 e nel 1966: insieme registrarono il leggendario The Basement Tapes. Amato da Wim Wenders, Oliver Stone e Barry Levinson, ha firmato la colonna sonora di Killers of the Flower Moon

Noi italiani l’abbiamo scoperto in The Last Waltz di Martin Scorsese, sul palco del Winterland di San Francisco. Il film era del 1978, ma il concerto risaliva al 25 novembre 1976. La Band diceva addio. E mentiva, per fortuna. Hanno continuato a suonare per molto tempo, perché era gente cresciuta sulla strada, che senza musica sarebbe morta. E poi, pian piano, hanno cominciato a morire davvero. Il primo è stato il pianista Richard Manuel, nel 1986: aveva 43 anni e già nel film, dieci anni prima, ne dimostrava sessanta. Poi è toccato al bassista Rick Danko, nel 1999; e al batterista Levon Helm, nel 2012. Oggi, a Robbie Robertson, chitarrista e compositore, leader del gruppo. Curiosamente è ancora vivo solo l’organista e sassofonista Garth Hudson, il più anziano (classe 1937) ma probabilmente l’unico a risparmiarsi stravizi e sostanze assortite: Hudson veniva da una famiglia di musicisti perbene e per convincere i suoi genitori a lasciarlo suonare con la Band disse che quei quattro sciagurati erano suoi “allievi”, e lo pagavano per dar loro lezioni di musica. 

Jaime Robbie Robertson era del ’43. Era nato a Toronto, mezzo ebreo e mezzo mohawk, il popolo nativo-americano di sua madre. Il padre biologico si chiamava Klegerman ma il giovane, una volta in arte, prese il nome del secondo marito della mamma. Canadese come quattro membri della Band su cinque (solo Helm era statunitense), imparò la musica durante le vacanze nella riserva delle Sei Nazioni, sul Lago Ontario. Non è un caso che dopo essere uscito dal gruppo abbia inciso nel 1994 un disco splendido intitolato Music for Native Americans. È altrettanto bello il suo precedente disco solista, Storyville. Ma ovviamente la grandezza di Robertson è in gran parte in quegli anni in cui The Band diventa “il gruppo” per antonomasia, suonando con Bob Dylan e incidendo alcuni dischi epocali fra i quali spicca, per sempre, il primo: Music from Big Pink, 1968, dove il “grande rosa” era la casa dove abitavano a Woodstock e dove incidevano assieme a Dylan.

Inizialmente si chiamavano The Hawks e suonavano con un cantante abbastanza pittoresco di nome Ronnie Hawkins (in The Last Waltz è giustamente il primo ospite). Poi ebbero un colpo di fortuna, che lì per lì somigliò a una catastrofe: Dylan li ingaggiò per i suoi tour europei nel 1965 e nel 1966, e quello diede loro la fama, anche se in quei tour dovevano fare la parte dei “cattivi”. È una storia che Robertson racconta nella sua autobiografia Testimony (libro molto bello, edito in Italia da Jimenez). Ed è una storia ancora oggi incredibile. Dylan era talmente famoso come “menestrello” acustico e cantante folk “di protesta” (due categorie che odiava), che la svolta elettrica era per i suoi fans una bestemmia. Tutti i concerti di quei tour inglesi andavano così: Dylan saliva sul palco e suonava 7-8 pezzi da solo, con la chitarra acustica e l’armonica. Applausi scroscianti. Poi introduceva la Band e partiva con una seconda metà di concerto elettrica, durissima, per di più aperta quasi sempre da una canzone oscura e allora inedita su disco come Tell Me, Momma. E sul palco arrivava di tutto: fischi, insulti, oggetti, verdure marce, cani morti. Robertson racconta che lui e gli altri ragazzi ci stavano male, ma male sul serio: “Ma è colpa nostra?”, si chiedevano. Dylan rideva e andava avanti come un treno. Per lui era una metamorfosi, stava cambiando pelle come un serpente: stava distruggendo il folksinger per far nascere un dio del rock’n’roll. 

La collaborazione continuò: registrarono insieme a Woodstock The Basement Tapes (i “nastri della cantina” diffusi su dischi pirata, e usciti ufficialmente solo anni dopo), il disco più leggendario, seminale e misterioso della musica americana. Dylan li portò per mano nei meandri della musica popolare, che loro per altro già frequentavano. Blues arcani, ballate che sembravano arrivare dal Medioevo, storie di fantasmi. È grazie a questa full immersion nel grande “american songbook” che Robertson potè scrivere una canzone incredibile come The Night They Drove Ol’ Dixie Down, dove il “vecchio Dixie” è il Sud sconfitto nella guerra civile: lui, canadese mohawk, scrive la canzone definitiva sulla cultura del Sud che scompare azzerata dalla modernità. Ma in quegli anni, come Band, fioccano i capolavori.

E in realtà, senza conoscerli ancora, li incontrammo nove anni prima di The Last Waltz: uno dei momenti più belli di Easy Rider (1969) è legato alla canzone The Weight, che accompagna una tappa del viaggio in moto di Peter Fonda e di Dennis Hopper. E anche quella è una canzone misteriosa, in cui fanno capolino personaggi simbolici a cominciare da “Carmen and the Devil walking side by side”. La cantava Levon Helm (nella Band Robertson non cantava, scriveva e suonava la chitarra) e sembrava veramente un testo di Dylan. Con il sommo Bob, fecero anche il tour immortalato in Before the Flood, dove avevano a disposizione un intero set per i loro pezzi. Nel 1974 l’elettricità di Dylan era ormai un fatto accertato, e quel tour fu un trionfo.

Poco dopo, pensarono al concerto “d’addio”. Chiamarono tutti, da Hawkins a Dylan, e in mezzo Neil Young, Joni Mitchell, Van Morrison, Eric Clapton. Martin Scorsese li filmò e poi impiegò quasi due anni nel montaggio, alternandolo alla messa a punto di New York New York. È il periodo in cui, fra stress da moviola e cocaina a fiumi, Scorsese rischiò seriamente di morire, ma questa è un’altra storia. Lui e Robertson rimasero grandi amici e Scorsese lo coinvolse come autore della colonna sonora in numerosi film. La carriera cinematografica di Robertson comprende anche musiche per Oliver Stone (Ogni maledetta domenica), Barry Levinson (Jimmy Hollywood) e Wim Wenders (Fino alla fine del mondo), e un piccolo ruolo d’attore in Tre giorni per la verità di Sean Penn. È sua anche la colonna sonora del magnifico Killers of the Flower Moon, il kolossal di Scorsese passato a Cannes e che vedrete nella prossima stagione: guarda caso (anzi, non è un caso) un film sui nativi americani. Pensate a lui e alla sua mamma mohawk, quando lo vedrete (perché lo vedrete, vero?… guai a voi!).