Un invito. Andate su YouTube e cercate l’esibizione di Amy Winehouse con Paul Weller. Sono ospiti di Jools Holland e insieme si esibiscono in una cover di Don’t Go to Stranger. Un brano del 1960, cantato da Etta Jones. Una performance di un’intensità sconvolgente. Lui al piano, cool come solo Paul Weller sa e può essere. Lei in piedi, abito nero e inconfondibili capelli cotonati, tra fiati e coristi. Una manciata di minuti capaci di rimettere in pace (o in lacrime di emozione) chiunque.
Amy Winehouse era nata per stare sul palco. Anche se lei avrebbe obiettato. Nel suo futuro si vedeva moglie e madre, non stella della musica. E parlarne al passato è un’ingiustizia. Per noi. Perché il suo era un talento puro. Svogliata, strafottente, ironica, a tratti distaccata. Eppure perfetta nell’esecuzione come lo erano Billy Holiday, Sarah Vaughan o Dinah Washington.
Amy Winehouse, la ragazza di Camden
Sembrava cantare senza sforzo con quell’attitudine spudorata che nascondeva abissi fatti di dipendenze e fragilità. E per lei. Perché morire a 27 anni – non staremo qui a parlare dell’affollato e, francamente, anche un po’ riduttivo club dei 27 – è semplicemente osceno. Oggi di anni ne avrebbe compiuti quaranta. Se n’è andata una notte qualunque di luglio nella sua casa di Camden. Sola.
Quel quartiere, tra tavoli da biliardo e pinte di birra, lo aveva scelto. Era il suo posto. Basta andare all’Hawley Arms per trovare una sua foto dietro il bancone. Nulla di sensazionale. Solo un piccolo ricordo di un passato felice. O allo Stables Market di Camden Town dove c’è una statuta scolpita da Scott Eaton con le sue fattezze.
Dodici anni fa una folla incredula si è recata in silenzioso pellegrinaggio davanti al cancello della sua casa al 30 di Camden Square per salutarla. Ma lei non c’era già più. Solo un mese prima un video della cantante, confusa e barcollante durante una tappa del suo tour europeo a Belgrado, era apparso in rete.
Frank e Back to Black. Due dischi, una leggenda
Gettata sul palco e ripresa da centinaia di smartphone. Una disfatta pubblica e virale figlia del tempo in cui viviamo. E non è un caso se Asif Kapadia per il suo Amy, documentario premio Oscar del 2016, abbia scelto proprio filmati privati, immagini rubate, riprese fatte con i telefoni e registrazioni audio per raccontare la sua storia senza lieto fine. Ma quella ragazza cresciuta ascoltando i dischi delle dive del jazz, i gruppi R&B e la Motown era molto più delle prime pagine dei tabloid inglesi che se ne prendevano gioco inseguendola o braccandola davanti l’ingresso della sua casa.
È la sua musica a parlare per lei. Due dischi, Frank (2003) e Back to Black (2006). È bastato questo a Amy Winehouse per entrare nella storia. Una manciata di canzoni. Se il primo album, prodotto da Salaam Remi, è un mix di jazz, hip hop e R&B di cui affermava di sentire l’appartenenza a metà a causa di qualche ingerenza di troppo della casa discografica è con il suo secondo lavoro – titolo anche del biopic in post-produzione diretto da Sam Taylor-Johnson con protagonista Marisa Abela – che si compie la congiunzione perfetta. Dieci tracce che raccontano, come se fossero un romanzo, la vita. Ogni brano un capitolo.
Al centro le sue relazioni. Su tutte quella assoluta e tormentata con Black Fielder-Civil che la introdurrà all’eroina e le spezzerà il cuore più volte. “Non scrivo musica quando sono felice, scrivo musica quando non ho niente” confessò Winehouse a Interview Magazine nel 2007.
Produttore del disco Mark Ronson, un moderno Phil Spector capace di trasformare in hit qualsiasi brano a cui metta mano. La coppia insieme realizza l’album del primo decennio degli anni Duemila.
Cinque Grammy vinti, milioni di copie vendute e un singolo, Rehab, nato durante una passeggiata dei due a Soho, New York. Amy raccontava al produttore di quando famiglia, amici e casa discografica avevano provato a mandarla in riabilitazione. Ma lei aveva detto “No, no, no”.
Un’amica chiamata musica
Da quella ripetizione, così musicale, scatta la scintilla per il brano beffardamente premonitore che l’ha trasformata nella nuova regina del soul. “Le persone che vanno in riabilitazione non hanno la musica nella loro vita. Posso svegliarmi con la voglia di morire: devo solo ascoltare Dinah Washington o un po’ di Ska e mi sentirò di nuovo in cima al mondo” aveva dichiarato nel 2006 a Black Sheep Magazine.
Ma non è la sola canzone ad essere nata nel giro di poco. Leggenda vuole che anche Love is a Losing Game, studiata nelle aule dell’università di Cambridge paragonata ai poemi di Sir Walter Raleigh, sia stata scritta in cinque minuti su un tavolinetto della sua casa, tra buste di patatine mangiate la sera prima.
Una lunga linea di eyeliner, capelli cotonati come se fosse uscita dalla copertina di un vinile delle Ronettes, tatuaggi su tutto il corpo, ballerine rosa. Amy Winehouse era iconica. Lo era la sua voce, inconfondibile. Lo era il suo stile debitore di un immaginario con il quale era cresciuta e che l’aveva nutrita fin dall’adolescenza, quando tredicenne, si ritrovò per la prima volta in mano una chitarra. Da lì la musica non l’ha mai abbandonata. Una passione e un destino. “La musica è l’unica terapia che ho a disposizione per trasformare i miei fallimenti in vittoria. E ogni brutta situazione è una canzone blues che aspetta di essere scritta”.
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