“Abbiamo bisogno della fantasia dei giovani: alimenta la nostra saggezza e dobbiamo sempre dialogare con loro”. Esordisce così Michele Placido, al microfono del direttore Franco Dassisti, al Bardolino Film Festival.
“I miei aiuti hanno 23 o 24 anni, non ho mai intorno vecchi barboni cinematografari. Trovo assurdo che ragazzi diplomati in scuole di cinema prestigiose poi non riescano, spesso, neanche a portare i caffè sui set. Ricordo Toni Trupia che correva da una parte all’altra mentre giravo Romanzo Criminale. A un certo punto chiedo “ma questo bravo ragazzo chi è, quanto si dà da fare”. E mi dicono che è appena uscito dal Centro Sperimentale. Mi incazzo, urlo “ma il caffè gli fate portare”. L’ho fatto sedere vicino a me per il resto della lavorazione. Io non voglio avere accanto a me gente appagata, la voglio affamata. Voglio avere il loro sguardo attento su tutto ciò che faccio. Noi vecchi siamo draghi che succhiano sangue ai giovani, abbiamo bisogno della loro testa, del cuore della loro anima”.
Con la consueta, quasi sfacciata sincerità – la stessa che ai David ha commosso Marco Bellocchio – l’attore e regista Michele Placido premia Selene Caramazza e dipinge un manifesto artistico che è anche un patto generazionale. In un paese gerontofilo come l’Italia, lui va controcorrente. Non a caso con Romanzo Criminale si è inventato uno star system ancora oggi incredibilmente in salute, puntando su ragazzi di talento. Forse perché come dimostra L’ombra di Caravaggio, premiato con il David Giovani, che lo ha visto alla regia in un’opera vitale e inquieta – sembra girata da un ventenne – e all’opposto Orlando di Daniele Vicari, che lo incastra invece in un ruolo silenzioso e tutto giocato in sottrazione, lui stesso rimane un eterno ragazzo, capace di essere uno, nessuno e centomila (citazione non casuale, come vedremo poi).
Michele Placido, Giordano Bruno e il nonno emigrante
“Sono davvero felice di questo premio – dice, sorridendo al suo ultimo regista, Daniele Vicari che lo ha premiato a Bardolino – perché fotografa un anno molto speciale, in cui ho affrontato due avventure notevoli. Una è stata la mia prima volta con un’opera che poteva contare su un budget notevole – un’opportunità ma anche una grande responsabilità – e che aveva però anche molte criticità. Una per tutte, il replicare 50 quadri di Caravaggio e varie location perché il Vaticano ci ha negato gli uni e le altre: sapete com’è, lì non dimenticano. Ce l’hanno ancora con lui, come con Giordano Bruno. La Chiesa è quel posto meraviglioso dove un uomo che si ostina a dire la verità viene mandato a morte e colui che ha firmato la sua condanna a morte invece viene fatto santo, San Bellarmino, si festeggia a ottobre. Ma noi ricordiamo Giordano Bruno, che gli dice in faccia “voglio andare a morire bruciato a Campo de’ Fiori, perché non posso negare una novità definitiva, filosofica e scientifica. Non discuto la religiosità, non potrei, e so che spesso non coincide con la scienza, ma non posso negare l’evidenza”. Del creato stesso, per lui era blasfemo mentire”.
Quando cominci a parlare con questo mattatore, ogni volta hai l’impressione di essere in platea, pubblico affascinato, e lo proietti su un palco, istrionico e sagace. Difficile capire se chi lo intervista, a quel punto, è un bravo comprimario di uno spettacolo o un reale interlocutore. “E poi è arrivato Orlando, e io da anni non interpretavo un personaggio così bello. Vedendo questo film mi sono detto per la prima volta: sei un bravo attore”.
Eppure di premi per quella che è sembrata, a chi l’ha visto, di gran lunga la performance più bella della stagione, non ne sono arrivati. A dir la verità solo un Nastro speciale, ma nelle cinquine degli attori protagonisti di David e Nastri il nome Michele Placido non è comparso. “Non voglio parlare di me, ci sono altri illustri assenti nelle varie cinquine e nei palmares. Ma posso dire serenamente che bisogna rivedere questi premi nazionali, riformarli, perché è evidente a tutti che non funzionano. Loro stessi si sono detti pronti a cambiare. Sono fondati su meccanismi anacronistici, in cui i giurati non vedono i film che giudicano. Orlando meritava delle nomination? Lo dicono tutti quelli che lo hanno visto. Ma quanti, non dico dei giurati del David o dei Nastri, ma degli addetti ai lavori lo hanno visto? Dicono che almeno per i riconoscimenti principali il prossimo anno sarà diverso. Comunque che vadano riformati è un’idea che abbiamo in tanti: registi, giornalisti, attori. Quelli che hanno il coraggio di essere liberi e pensarla diversamente dagli altri, almeno”.
Tornando al film di Daniele Vicari, il suo contadino taciturno e semianalfabeta che va incontro al suo passato (il figlio emigrato) e al suo futuro (la nipote) partendo per la prima volta dal suo paesino e arrivando a Bruxelles, sembra quasi una sorta di milite ignoto che combatte fiero un’Europa dei popoli mai nata. “Diciamo che questo può dirlo meglio il regista, che mi ha regalato questo personaggio che mi ha risvegliato vari ricordi. Vengo da un paesino delle Puglie, anche se sono lucano di sangue: la mia è una terra di emigranti, mia nonna è andata in America nel 1913, ma anche dei parenti di Daniele sono stati emigranti. Non è però un film sugli emigranti, è un’opera sulla memoria, sulla memoria di come l’Europa che forse ci aspettavamo poi non è diventata quella che forse i nostri padri e nonni che sono partiti in cerca di un futuro migliore sognavano. Ho lavorato al personaggio pensando a loro, a Zio Antonio, al ciabattino vicino casa mia, personaggi che rifiutano il mondo com’è diventato, fragili e fieri. Come mio nonno, che in America è andato per trovare fortuna, attratto quasi come una falena dalla Statua della Libertà, e forse come Orlando, con le sue 50 pecore avrebbe vissuto bene, tra i suoi affetti, pure nel suo paesino. Però grazie a lui abbiamo studiato in famiglia: mio padre, unico figlio – che lui ha lasciato in Italia che era bambino – grazie ai suoi dollari si è diplomato e noi, otto figli, tutti laureati. Aspetta, non tutti: io ero ciuccio, andavo male a scuola. Il suo sacrificio ha costruito il futuro di una comunità. Ho voluto restituire quella ricchezza umana di uomini e donne coraggiosi e silenziosi, impavidi nell’affrontare un’altra vita, un’altra cultura. Vale per chi è finito a New York come a Torino o Milano”.
Michele Placido, Pirandello e quel viaggio verso Stoccolma
Ed è un viaggio a essere al centro del suo prossimo film.
“Non so neanche cosa posso dire. Credo nulla, ma pazienza, lo dico lo stesso, anche se un film va annunciato quando c’è il cast, ci sono le date del set. Il mio prossimo progetto cinematografico parlerà di Luigi Pirandello, una delle mie ossessioni. E di un viaggio, appunto. Diversissimo da quello di Orlando, perché qui abbiamo come protagonista un uomo colto, celebre. Sarà il mio film più difficile, pure più de L’ombra di Caravaggio. Seguirò Luigi Pirandello – e no, non lo interpreterò io – nel suo pellegrinaggio fisico verso Stoccolma, dove va per ritirare il Nobel. Un viaggio notturno, per motivi familiari. Famiglia, quella di Pirandello mai raccontata”.
Una famiglia che sembra specchiarsi, più modestamente, in alcune delle dinamiche scarpettiane di Qui rido io di Mario Martone . “La moglie pazza con cui ha avuto un amore totale e carnale, l’amante giovane, la musa Marta Abba con cui il rapporto fu platonico per scelta di lei, un’accusa di incesto con la figlia Lietta”. Luigi Pirandello, genio del teatro e della letteratura ma sfortunatissimo in amore: la moglie gelosa che viene infine rinchiusa in un istituto, la figlia Rosalia (Lietta, appunto) che si sposa e va in Cile e lo “abbandona”, Marta Abba di cui si innamorerà perdutamente e che rimarrà allieva e pupilla che non smetterà mai di chiamarlo Maestro, ma non diventerà la sua compagna. “Un on the road che è la storia di una famiglia, ci sono altri due figli. Un film in cui ci sono anche tre grandi storie d’amore. Non dico altro, se non che per la complessità dell’operazione inizieremo a girare la prossima stagione, perché è un film lungo, costoso, europeo: sì perché Pirandello è siciliano ma anche mitteleuropeo, ha studiato e insegnato a Bonn”.
E infine sognante, con quello sguardo bambino con cui ti confessa, quasi goliardico, che vorrebbe “fare uno spettacolo teatrale su una mia grande passione, il calcio: sulla Juventus. Dobbiamo parlarne”, afferma, senza arroganza “io sono Pirandello”. Nel senso fisico, emotivo. “Ho l’età giusta per interpretarlo, sento addosso i suoi anni e le sue passioni e sofferenze, ma lo farà un altro perché io adesso questo film mi sento in grado di dirigerlo, perché è anche un’opera sulla vecchiaia, in un mondo circondato da giovani, da ragazze belle. C’è una scena bellissima in cui lui dice a Marta Abba “le vedi queste rughe, le vedi? Guarda le mie mani, sono vecchio, no? Ma ho il cuore caldo”.
Ha ragione Michele Placido. Lui è Pirandello. Cuore caldo e testa infiammata da tanti progetti. Un vecchio maestro che sprizza gioventù.
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