Ora che sono trascorsi cinquant’anni dalla sua morte, forse è arrivato il momento di distruggere definitivamente un cliché su Anna Magnani. Ovvero, il luogo comune duro a morire che Anna fosse come i suoi personaggi. Che nella vita fosse un incrocio tra la signora Pina di Roma città aperta, l’onorevole Angelina dell’omonimo film di Zampa e la Mamma Roma di Pasolini. Che fosse, insomma, una romanaccia caciarona e volgare, una Erinni capace di cavarti gli occhi se non le davi la giusta dose di guazza.
Chi c’era, o ha parlato con chi c’era, assicura che a un certo punto della lavorazione di Mamma Roma lei e Pasolini si trovarono a discutere, civilmente, ma pur sempre discutere. Pasolini l’aveva mescolata a tutti i suoi “interpreti” borgatari, gente presa dalla vita e dalle strade che talvolta, non essendo in grado di memorizzare un copione, durante i ciak diceva i numeri. Tanto poi si doppiava tutto!
Il regista si aspettava che Anna interagisse con loro in maniera automatica. Lei non ce la faceva. Lavorare con dei non professionisti non le veniva naturale, anche se l’aveva già fatto in Roma città aperta e in Bellissima – ma con registi come Rossellini e Visconti che la conoscevano bene, sapevano metterla a suo agio ed erano comunque assai più esperti di Pasolini al suo secondo film.
Tra l’altro, Anna era la prima attrice vera con cui Pasolini lavorava: in Accattone, il suo film d’esordio, erano tutti non professionisti. E aveva probabilmente rimosso la fatica improba che aveva dovuto spendere per portare Paolo Ferrari (grande attore di teatro) a doppiare in modo credibile Franco Citti: un lavoro che, di fatto, era toccato a Sergio Citti, amico e aiuto, che quando si trattava di dialetto romanesco era il traduttore ufficiale.
Insomma, Anna Magnani non ne veniva fuori. E a un certo punto Pasolini le disse: “Anna, ma qual è il problema, loro sono veri esattamente come sei vera tu”. E questa frase fece scattare qualcosa nella testa dell’attrice, le chiarì dove stava l’equivoco. E rispose, parola più parola meno: “Guarda che io nun so’ vera. Io so’ finta, ma talmente finta che alla fine sembro vera. Per sembrare vera, io lavoro. Si chiama ‘recitare’”.
Anna Magnani nella vita era una donna elegante. Pur non avendo mai conosciuto il padre, non veniva da una famiglia di pezzenti, tutt’altro. Era stata cresciuta dalla nonna e da un esercito di zie, aveva studiato al Conservatorio di Santa Cecilia, poi si era diplomata in recitazione in un corso speciale del medesimo Conservatorio dal quale era uscito anche Paolo Stoppa.
Si era fatta le ossa nella rivista con Totò: e checché ne possiamo pensare oggi, Totò improvvisava, sì, ma era anche lui un implacabile professionista. A casa sua non si incontravano teppisti e coatti, ma pittori, scrittori, intellettuali. Alle serate a Palazzo Altieri, a due passi da Piazza del Gesù, lei suonava il pianoforte e non suonava gli stornelli, romani, no: suonava Chopin. Le piaceva vestire elegante e guidare la macchina, e durante la guerra – quando la benzina era razionata – andava in giro per Roma su una carrozza a cavalli che aveva affittato in esclusiva. L’unica concessione erano i capelli: si piaceva spettinata. Insomma, quando faceva la popolana Anna Magnani recitava. Nella vita era tutt’altro.
Forse l’unico aspetto del suo lavoro in cui lasciava spazio alla vera se stessa era il rapporto con i bambini. Tanti anni fa, per una trasmissione tv, intervistammo Vito Annicchiarico, che in Roma città aperta è lo strepitoso interprete di Marcello, il figlio di Pina – il personaggio della Magnani.
Quando lo conoscemmo, Vito era un signore romano ormai anziano e ci raccontò tante storie bellissime su quel film, a cominciare dal modo in cui Rossellini lo scelse: “Facevo lo sciuscià, il lustrascarpe al Tritone, per gli americani. Rossellini mi abbordò e siccome avevo dieci anni ma ero già sveglio, lì per lì credetti che fosse un pederasta. Poi mi offrì un lavoro in un film e pensai che avrei dovuto lustrare le scarpe agli attori”. Invece Rossellini aveva visto la faccia giusta per un ragazzino partigiano nella Resistenza romana.
Sul set Vito ebbe un rapporto problematico con Aldo Fabrizi: “Mi teneva a distanza, non mi voleva tra i piedi. Un giorno mi disse una frase che non scorderò mai: a regazzi’, si nun te ne vai te sdilombo!”. Invece la Magnani lo trattava come un figlio: “Mi abbracciava di continuo, ho passato gli intervalli tra un ciak e l’altro tra le sue braccia, mi sbaciucchiava, mi adorava”.
E questo amore per i “regazzini” sarebbe emerso potentemente in altri film, come i citati L’onorevole Angelina e Bellissima. Ma per il resto, come dicevamo, Anna Magnani era un’attrice “tecnica”, capace di reggere ogni situazione, comica patetica drammatica tragica. La sua grandezza veramente immensa, ciò che fa di lei la più grande attrice italiana e una delle più grandi di tutti i tempi, è la capacità di far sparire la tecnica e di sembrare, alla fine, naturale: come se avessimo di fronte una donna vera, anziché un’immagine sullo schermo.
Un esempio per tutti? La famosa scena sulla panchina con la piccola Tina Apicella in Bellissima. È un aneddoto che ci ha raccontato Silvia D’Amico, figlia della sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico che è stata forse la migliore amica di Anna.
Quella scena fu girata all’aperto, a fine settembre 1951 (il film sarebbe uscito a dicembre, dopo un montaggio velocissimo). Silvia D’Amico, con la mamma, era presente. Faceva già abbastanza freddo, era notte, quando Anna parlava si vedeva il fiato. Per cui, dopo un paio di ciak inutilizzabili, l’attrice chiese del ghiaccio: se ne infilò in bocca un po’ di cubetti – vecchia tecnica attoriale proprio per non mostrare il fiato quando la scena non lo richiede – e fece quella scena così dolce, emotiva, straziante, con il ghiaccio in bocca. Voi in quella scena vedete una madre romana devastata dalla delusione e tenuta in vita dall’amore per la figlia; invece, davanti alla macchina da presa, c’era un’attrice con i cubetti di ghiaccio fra i denti.
Solo che era un’attrice sovrumana. Era Anna Magnani.
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