Antonio Albanese è di quelli che non ne fanno più. Come artista e come uomo. Come comico ha segnato il nostro modo di pensare, ridere e riflettere, di raccontare.
La politica dopo Cetto La Qualunque e il Ministro della Paura non è stata più la stessa; e così il calcio dopo Frengo, la società (in)civile dopo Alex Drastico, persino il giardinaggio dopo Pier Piero. Come attore e regista ci ha fatto declinare la malinconia, i sentimenti, a volte la rabbia e spesso l’inadeguatezza e ancor più frequentemente l’indignazione con una dolce ruvidità tutta sua, con uno sguardo altro e alternativo.
Come uomo, sa colpirti con la sua sincerità e consapevolezza, con la sua fragilità sorridente e il suo coraggio normale. Quando ti confessa senza dirtelo apertamente che Giulia Lazzarini in Cento Domeniche – dal 23 novembre in sala – sì, è un po’ tanto mamma sua, solo dicendoti “scusa, sono in macchina, sono andato a trovare mia madre che mi chiama Giuseppe, che è pure interessante come cosa”.
Così, naturalmente, si scivola nel film, ambientato proprio in quei luoghi che lui ha vissuto, abitato e in cui ha lavorato per anni come metalmeccanico, “dai 15 ai 22 anni, io son figlio di operai, allora si poteva cominciare così presto, adesso sarebbe illegale o quasi”. In realtà basta nascondersi dietro espressioni burocratiche come “alternanza scuola lavoro” che fa la sua figura quando le morti bianche colpiscono ragazzi che dovrebbero immaginare il futuro e non essere materialmente schiacciati dal loro presente, ma questa è un’altra storia.
Olginate è “il luogo dell’anima, ora è una zona dormitorio, ma è rimasto bello questo territorio, ecco perché per questo film ho voluto circondarmi di questa terra, di queste persone, delle facce vere che conosco da sempre, mi sono persino rimesso al mio tornio”.
Cento domeniche è l’opera del cuore e della testa e della pancia, con quel finale impietoso e terribilmente bello, con quello scivolare all’inferno sul piano inclinato del capitalismo finanziario tanto infame quanto impersonale, sul tradimento dei valori che ora ridicolizziamo ma su cui, lo hanno detto tutti, da Pasolini a Bianciardi, abbiamo edificato la nostra morale, la nostra identità, il nostro essere umani. Per quanto la vita possa essere agra.
Cento domeniche è, incidentalmente, il racconto di un’ingiustizia insopportabile, esemplare di cosa siamo diventati, come mondo e come cittadini. Di come vittime e carnefici, lo aveva già raccontato in modo diverso e complementare Daniele Vicari nel capolavoro Sole cuore amore, vivano sullo stesso crinale, di come i confini tra bene e male passi attraverso i loro corpi, in cui colpe imperdonabili e colpi bassi ricevuti convivono.
Antonio, il protagonista del film, un pensionato che scopre di essere stato ingannato dalla propria banca che si è ingoiata tutti i suoi risparmi ingannandolo per anni, si chiama come l’uomo e il regista, Antonio Albanese. E in quel cognome, Riva, c’è la dignità specchiata di un calciatore mito, Gigi (a cui Milani, uno dei registi feticcio del cineasta ha dedicato un documentario), ma anche l’abisso del capitalismo cannibale della famiglia che ha reso l’Ilva la morte nera di una città intera, a oltre 1000 km più a sud della ridente (almeno un tempo) Olginate.
Chissà se la scelta è stata casuale, di quel cognome, oppure no. Nella lunga chiacchierata, ci è sfuggito. Ma forse è meglio solo immaginarlo.
Antonio Albanese è un uomo speciale perché ci vuole scienza, ci vuol costanza, parafrasando a modo nostro Guccini, per invecchiare senza perdere il coraggio di dire la verità anche contro un sistema come quello bancario, che tra tax credit e affini, tiene in piedi il cinema. “Ma non me la prendo con le banche, perché nel mio mondo erano un pezzo del nostro progresso, della parte buona della società, me la prendo su come tutto stia marcendo in nome dell’avidità feroce di pochi”.
Come nasce Cento domeniche?
Anni fa sono rimasto molto colpito da tante, troppe storie simili, quelle di risparmiatori e cittadini traditi nella fiducia riposta in istituzioni e uomini e donne di cui non avevano mai dubitato, che avevano visto crescere, che abitavano a pochi metri da loro.
Volevo da tempo raccontare quest’ingiustizia assoluta e allora mi sono detto ‘sfruttiamo le mie origini, il mio mondo, quel mondo che io conosco veramente e mettiamoci al lavoro con grande onestà per raccontarlo in tutte le sue sfaccettature’.
Un lavoro che alla fine è durato due anni, perché ho voluto consultare molte persone più competenti di me, leggere, sentire, chiacchierare. Ho capito che anche solo per avvicinarsi a qualcosa del genere ci voleva una serietà d’approccio totale.
Una cosa colpisce. Se uno pensa a Ken Loach, pensa al racconto di comunità disgregate dalla modernità. Qui succede il contrario, il paese rimane forte di fronte all’assalto di un presente, di un futuro che prova a demolirne l’anima più profonda
E noi partendo da lì ci siamo messi al lavoro. Hai ragione, qui l’individuo si perde e la collettività cerca di aiutarlo in ogni modo, soprattutto i suoi pari, magari lo rimproverano per la sua ingenuità ma gli offrono un appoggio, un aiuto, non lo lasciano solo neanche quando fugge, dimostrandogli che aveva ragione, che quei valori che lo hanno portato a perdere tutto materialmente, erano giusti. Era giusto credere nell’altro. Perché la società in cui riponeva fiducia sono loro, non i numeri di un estratto conto, non i dirigenti lontani e corrotti di una banca.
Sai perché c’è questa diversità tra me e lui? Perché Ken Loach in quelle realtà non ha mai vissuto, le ha sempre viste e raccontate da una certa distanza perché ha un’estrazione sociale diversa. Io invece tutto questo l’ho vissuto, so da bambino come funziona la nostra rete sociale, sono stato tatuato da questa solidarietà, dalla mano tesa con una naturalezza inevitabile, perché così si fa e basta, da questa serenità, gioia di vivere una vita con poche ambizioni, semplice, fondata su poche “giuste” certezze.
Quel volersi bene, abbracciarsi, aiutarsi che ormai, in questo pianeta, sembrano essere diventati una trasgressione, li conosco perfettamente e ho voluto raccontarli: che tu l’abbia colto mi fa piacere, perché proprio per quel pudore di provincia certe cose non le dico, ma se qualcuno poi nota che questo è un lavoro vero, sincero su un trauma collettivo che è una ferita ancora aperta nel tessuto sociale di quella zona, allora io sono felice.
Il riferimento principale è lo scandalo della Banca Antonveneta?
No, la verità è che sono decine e decine le banche che da Bari a Ferrara, dalle Marche, alla Toscana hanno vissuto la stessa parabola. Quella ferita si è aperta in tante collettività e non è solo qualcosa di materiale, perché quel senso di vergogna è rimasto anche quando molti hanno recuperato tutti o quasi i propri risparmi, hanno mantenuto una diffidenza a quel punto invincibile, hanno continuato a non uscire di casa, è come se quelle comunità fossero state colpite e infettate da questo dolore come da un virus implacabile che lascia segni perenni, per certi versi sono mali incurabili.
Alcuni sostengono che questo sia un bellissimo film ma fuori tempo massimo.
Questo è un film inattuale solo per chi legge esclusivamente i giornali che non trovano più questi scandali come una notizia da spolpare. Ma io che ho studiato il tema per due anni rispondo che tutto ciò non è mai finito, che questi scandali esistono ancora, è un problema che ritorna in maniera quasi ciclica dal 1898, da quando esiste il sistema creditizio moderno.
Cento domeniche è anche un urlo nel silenzio di chi fa finta che tutto ciò sia finito. Non è solo denuncia, è un invito a non ripetersi, a non tornare a un modo tossico di gestire banche e fare imprenditoria appena l’attenzione calerà. Perché queste realtà non hanno come unico compito e fine il profitto, hanno, volenti o nolenti, una responsabilità sociale, culturale, umana.
Dalla deregulation reaganiana, in Occidente non è passato anno in cui il sistema bancario non abbia alimentato questo virus. Non è un po’ combattere donchisciottescamente contro i mulini a vento scagliarsi contro un sistema invincibile?
No perché si sottovaluta la portata di questo terremoto emotivo. C’è un rapporto, mi spiegava un tuo collega, un esperto appassionato di questo settore, che è di 1 a 10: ovvero se a te accade una cosa del genere, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi genitori, i genitori di tua moglie, i tuoi amici più stretti ne verranno colpiti. Le comunità si deprimono perché nessuno può sentirsi escluso, nessuno lo è.
La questione economica, per quanto drammatica e macroscopica, diventa un dettaglio, è qualcosa che inerisce la dignità e il rispetto, il senso stesso di identità culturale e morale di una collettività.
La banalità del male di Hannah Arendt rapportata al nostro capitalismo cannibale. In cui chi è complice e ingranaggio di tutto ciò “eseguiva solo gli ordini”.
Bravo, sono esattamente come i nazisti, anzi come il Polizei-Bataillon 101, i primi che hanno sterminato gli ebrei. A loro è stato detto ‘guardate che ucciderete anche donne e bambini’. Alcuni non hanno accettato e si sono liberamente staccati da quel gruppo, allora era ancora possibile, gli altri, la maggior parte, hanno fatto quello che gli veniva ordinato in piena consapevolezza. Io capisco che il lavoro, lo status sia importante, ma a quale tradimento dei propri valori, a quale abiezione si può scendere per conservarlo o ottenerlo?
Quindi, sì, lì l’orrore è in chi decide ma pure in chi obbedisce, anche se le responsabilità sono diverse.
Ecco perché io non ce l’ho con le banche e non lo dico per opportunismo, sono convinto che siano un’istituzione necessaria e fondamentale. E anche un elemento fondante della nostra società. Per intenderci, il mio primo spettacolo a teatro e uno di quelli che ho più amato è stato Tamburi nella notte, ma non sarò mai d’accordo con Bertolt Brecht quando dice che non c’è differenza tra fondare una banca o rapinarla.
Ne è sicuro?
Ci siamo dimenticati storie come quella di Amadeo Peter Giannini, l’italiano che ha fondato la Bank of America che parte dalla Bank of Italy: aiutava i proletari, gli immigrati italiani, senza garanzie. Una storia di una bellezza infinita su cui nessuno ha fatto un film (in realtà è stato da poco ultimato un documentario di Valentina Signorelli e Cecilia Zoppelletto, A.P. Giannini – Bank to the future, e Luca Barbareschi ha in lavorazione come produttore e regista un film di finzione, un biopic dal titolo Il banchiere degli ultimi – ndr).
La verità è che, come ovunque, ci sono le mele marce che infettano tutto il cesto. Il mio Antonio Riva lo dice più volte, la considerazione che lui ha della banca è di un luogo amico, di un posto in cui trovare sicurezze, non di cui aver paura.
Più la ascolto, più vedo i suoi film da regista più mi viene in mente un cineasta con cui ha lavorato, Carlo Mazzacurati
Ecco. Sì, ci hai preso in pieno, Carlo è un artista che amo alla follia e un amico vero, anche perché abbiamo una figlia che ha la stessa età, sono nate a pochi mesi di distanza. Abbiamo fatto le vacanze insieme, io ho affittato una casetta a Scana perché lui ne aveva una lì, in modo da stare insieme il più possibile. Con lui ho fatto il primo film e il suo cinema anche da spettatore è qualcosa di prezioso per me, quanto amo la sua onestà, quel suo mondo così affine al mio, mi commuove pensare di essere affiancato a lui.
Ecco. Non riesco a parlarne al passato neanche dopo anni.
Ha altri autori di riferimento?
Aki Kaurismaki, che sa raccontare certi universi con una leggerezza feroce, Mike Leigh, lo stesso Ken Loach: le nostre case, i nostri ritmi, le nostre facce, pure i nostri vestiti si assomigliano. Anzi i miei ai loro! La mia squadra di bocce in fondo potrebbe serenamente trovare asilo in un film del regista finlandese, così come i miei personaggi che non hanno tatuaggi ma cicatrici.
Non ha mai lavorato così tanto sulla sua maschera, per sfruttarla prima e destrutturarla poi. Come ci è riuscito?
Ho consapevolezza di come anni di carriera da comico e una certa fisionomia abbiano lavorato sull’immaginario collettivo, così come della mia capacità di lavorarci su. Non ho avuto paura di perdere certezze io – amo farlo – e ancora di più mi piace che non le abbiano gli spettatori. E se c’è il desiderio di raccontare una storia al cinema, fai di tutto perché sia credibile e il più potente possibile e questo processo, questa parabola che tu descrivi partendo dal mio volto serve a mostrare la rabbia che cova dentro il personaggio e un po’ anche in me come cittadino che lo rappresento in quanto attore e autore.
Io sono per prima cosa uno spettatore e ragiono da tale e come regista, come narratore, venero il mio pubblico, lo rispetto e per farlo affronto il mio lavoro con il massimo della devozione e della concentrazione. Questo è il lavoro più bello del mondo e non è una fatica cesellare scena per scena, frase per frase, sguardo per sguardo se è necessario. In fondo cosa fa un musicista con il suo strumento per affinare il suo talento se non esercitarsi ossessivamente?
E la stessa cosa ha preteso dai suoi compagni di set. Penso alla bravura struggente di Liliana Bottone
Un talento formidabile, al suo primo film si è caricata addosso Emilia – la figlia di Antonio nel film, che lo vede crollare e vuole aiutarlo, dopo anni in cui lei orfana di mamma ha contato su di lui per qualsiasi cosa – con una grazia e un’abnegazione rare, ci abbiamo lavorato tanto sulla sua prova d’attrice complessa che aveva di fronte e lei si è buttata a capofitto nel personaggio, per arrivare ai livelli altissimi del dialogo in cui lei sbuccia una mela e incarna in pochi gesti e parole il senso profondo del film. In cui si dice pronta a rinunciare al sogno comune sorridendo, perché lui conta di più.
Qui torna su qualcosa che è già successo, ma lei è stato uno che ha predetto molte cose. Il Ministro della Paura ha raccontato un certo modo di rappresentarsi e di rappresentare la realtà delle destre moderne, Contromano è arrivato su certi temi e su quel punto di vista ben prima di Io capitano. Non parliamo di Cetto La Qualunque!
Mi fai un grande complimento perché è un mio obiettivo costante quello di sorprendere e magari capire prima ciò che accadrà. Sempre perché come spettatore mi rompo i coglioni facilmente e voglio spiazzare me stesso prima degli altri. Comunque se vogliamo giocare a questo gioco, in un mio spettacolo teatrale, Giù al nord, del 1997, parlando di lavoro avevo, avevamo avvertito tutti sul fatto che non si potesse avere una partita Iva ogni due abitanti.
E sai allora chi se ne accorse? Nessuno, se non una giornalista del Wall Street Journal che passava da Bologna, vide lo spettacolo e ci dedicò una pagina intera. Ma questo è il lavoro dell’artista, essere curioso e attento, vivere la realtà e immaginarla nel futuro. Prevederla, perché vede tutto più chiaro, magari con lucida fantasia.
In quegli anni ricordo solo Zero di Max Bruno dire cose simili e con la stessa forza su un palco. E a Genova 2001 urlavamo soffocati nel sangue ciò che poi 7-8 anni dopo si sarebbe puntualmente avverato.
Noi parlavamo già di cinesi, dell’analista delle gestioni integrate – che non si sa che cazzo di lavoro possa essere – e di tante altre cose. Hai citato Contromano, in cui c’era un’intenzione molto sana, di poter dire ‘diamo loro la possibilità di sfruttare quel meraviglioso territorio che hanno, quei luoghi fertili e fantastici, ribaltiamo le logiche dell’immigrazione, il punto di vista’ prima di Garrone e a suo modo Zalone. Il tempo ci giudicherà.
Ora nel futuro cosa vede?
Secondo me un tema che tra due anni o tre sarà centrale è quello dei fondi. Lo accenno in una battuta del film, quando finito di far l’amore con la mia amante parlo di suo marito che lavora con i fondi, dicendo che verremo comprati tutti da loro e poi buttati via. Una battuta tragica ma vera, i fondi non solo si stanno comprando la nostra economia ma anche la nostra identità.
Una scarpa ben fatta, con amore, con tessuti particolari che impieghi un mese per costruirla è una cosa, la stessa calzatura che ha avuto successo ed è stata comprata da un fondo multinazionale diventa solo un marchio.
La globalizzazione è appiattimento di gusti, estetico ed etico, alimentare, persino previdenziale o calcistico. Guarda le big del pallone che vengono comprate da arabi, americani e cinesi senza nome, da sigle che le fanno agire tutte alla stessa maniera, secondo schemi che esulano dalla fantasia dei singoli presidenti di un tempo.
I fondi stanno appiattendo tutto: il nostro senso per il bello, i nostri umori, i nostri caratteri, le nostre passioni.
Lo dico da fan. Ma tornare alla comicità non è un tema?
Ma scherzi, io ho fatto quest’estate una commedia con Milani molto divertente che uscirà a febbraio, con Virginia Raffaele. Un film divertente, schioppettante, ambientato in un piccolo borgo abruzzese.
Io ho bisogno della risata e della lacrima, l’una alimenta l’altra, non voglio rinunciare a nulla, vengo da un paesello famoso perché c’è la diga che regola il lago di Como e se tu ci vai sopra, dalla parte di Lecco dicono che l’acqua “comincia a sorridere” perché dà quell’illusione ottica quando si muove. Non potrò mai farne a meno.
Però la commedia che fa con Riccardo Milani è impregnata dei temi che ama: conflitto di classe, lavoro, le ingiustizie della società.
E vale pure per questo film, il cui titolo è Un mondo a parte, che parla dell’abbandono dei piccoli borghi, delle comunità periferiche, di scuole che chiudono. E quando succede a quelle elementari, perché non ci sono più bambini, vuol dire che i territori si stanno polverizzando e le comunità disperdendo. Ed è un depauperamento per tutti noi. Io amo recitare per Riccardo, che è un grande lavoratore oltre ad avere talento.
A proposito di Riccardo Milani, vedendo il documentario di quest’ultimo su Gaber torna alla mente quella splendida tavolata in diretta Rai in cui siete seduti lei, Celentano, Fo e appunto Gaber con Jannacci che arriva a suonare per e con voi. Deve essere stato indimenticabile.
Non chiedermi perché ma Giorgio Gaber mi adorava e ha insistito lui perché ci fossi, io non mi sentivo all’altezza. Ricordo ancora una delle sue ultime telefonate, già non stava bene, mi disse di andarlo a trovare e a bruciapelo fa ‘Antonio, io voglio dare a te Il grigio’. Quel doppio album di teatro canzone è un testo straordinario su cui lavorare, ma io rifiutai, dissi che non potevo, che avrei potuto forse trent’anni dopo. Mi voleva bene, mi stimava e mi ha voluto lì, a quel tavolo. Anzi ti dirò che meglio di un David, di un Oscar fu quando loro mi dissero, quella sera, ‘tu sei il nostro erede’.
Quello è un premio che non viene dalle corporazioni, da realtà economiche potenti e avide, ma da miti veri, di quelli che hanno saputo raccontare il nostro paese con un’intelligenza sublime. Io amavo Gaber perché non era mai in ritardo, era uno che lavorava come un matto perché amava quello che faceva, che aveva sempre ragione ma lo scoprivi un decennio dopo quando andava bene.
Però Destra Sinistra gliel’ha ispirata un articolo di Gino e Michele, a loro volta ispirati dai suoi Epifanio e Alex Drastico! Ci aveva visto più lungo di tutti e tre?
Ci avevamo visto lungo tutti e quattro. Io proprio con Alex Drastico vinsi un premio alla miglior battuta, una battuta ora appare semplice, banale. Mi chiedevano ‘ma tu sei di destra o di sinistra?’ e Alex rispondeva ‘non me lo ricordo’. Io, Gaber, pochi altri non abbiamo mai cercato fedi, case, etichette, abbiamo sempre e solo guardato le cose com’erano, ciò che accade e ci circonda con la massima onestà intellettuale possibile. Anzi, sai che ti dico, parlando con te dei fondi mi stanno venendo mille idee. Appena arrivo a casa a Milano tiro giù un po’ di appunti.
Come direbbe Zavattini, lei non ha mai smesso di prendere il tram?
No, io ho l’abbonamento alla metropolitana.
Tornando al Grigio. Sono passati vent’anni da quella proposta. Ce lo fa uno sconto e lo porta in scena?
Sei impossibile. Ok, te lo dico, ci sto pensando. Per ora però a teatro stiamo lavorando su un testo sulle religioni molto delicato, non a caso ci siamo fermati tante volte. Inizia con un uomo che si presenta, si muove in vari modi, scompostamente. Alza il braccio, entrambe le braccia, salta, alza e abbassa la gamba, fa gesti inconsulti e inspiegabili.
Poi si ferma, guarda il pubblico e dice ‘ho una gran voglia di pregare ma non trovo la posizione giusta’. Non è un inizio bellissimo? Un modo di raccontare la confusione di questi tempi, l’assurdità di certi conflitti.
È per questa sua cifra autoriale così marcata che i grandi, se si escludono gli Amelio e i Mazzacurati, non la chiamano come attore?
E chi ti dice che non mi cerchino? È che io sono un personaggio particolare: intanto ho una mia idea su chi siano i grandi registi e su quali siano quelli più abili a farsi credere tali e poi sono molto orgoglioso e ho un pensiero chiaro su quando un ruolo è importante, non per centralità o numero di pose, ma per la storia in sé e quando invece dà poco a loro e a me.
Non ho bisogno di mettere nomi in curriculum, tacche sul calcio della pistola.
Amo lavorare con chi conosco e amo, godere di ciò che faccio, fare solo ciò in cui credo. Mi piacerebbe molto lavorare con alcuni e se mi chiamano vedremo se c’è il tempo, se c’è la possibilità di farlo come dico io, se posso veramente aiutare quella storia.
De Niro dice sempre ‘se mi chiama Scorsese, io neanche gli chiedo il soggetto, neanche leggo la sceneggiatura’. C’è un autore per cui direbbe lo stesso?
Ho un grande amore per Matteo Garrone, ma al di là del suo talento estetico meraviglioso che arriva dal suo amore per l’arte, al di là del fatto che io reputo Gomorra e L’imbalsamatore capolavori assoluti, al di là che ha un tocco straordinario, la sceneggiatura gliela chiedo lo stesso. Ma sapendo che sarà bellissima!
Solo ad Aki Kaurismaki, se mi chiama, non chiedo nulla. Dico solo ‘obbedisco’!
Tornando al film, il finale di Cento domeniche è sempre stato questo?
No. C’era un finale più poetico, più rarefatto. Ma raccontando la storia ho capito che non era quello giusto, anche se forse sarebbe stato più sopportabile per lo spettatore. Abbiamo deciso di rispettare ancora di più questa storia, questa vicenda e le vittime arrivando fino in fondo, con quella posizione, che io chiamo della vergogna, che rimane nello sguardo, nel cuore, nella pancia di chi guarda (e solo per non fare spoiler non scriviamo il resto della risposta, bellissima e colta – ndr).
Ultima domanda. Le è mai venuto in mente un altro dei suoi personaggi oppure questa politica fa già troppo ridere di suo?
Non fanno ridere, sono ridicoli, è diverso. Sto pensando a un soldato. Strana idea, eh?
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