Ava DuVernay è una delle registe più all’avanguardia della contemporaneità. Vincitrice di Emmy e Bafta e candidata all’Oscar e ai Golden Globe, il suo secondo nome dovrebbe essere “Prima”.
Con Middle of Nowhere del 2012 è stata la prima donna nera a vincere per la miglior regia al Sundance Film Festival. Con Selma del 2014, il primo film in studio mai realizzato su Martin Luther King, è diventata la prima donna nera a dirigere un film candidato al Golden Globe per la miglior regia e la prima donna nera a dirigere un film candidato all’Oscar, sempre come miglior film.
Con XIII emendamento del 2016, il primo documentario ad aprire il New York Film Festival, è diventata la prima donna nera a ricevere una nomination agli Oscar come regista (nella categoria miglior documentario).
Con Nelle pieghe del tempo del 2018 è diventata la prima donna nera a dirigere un film con un budget di oltre 100 milioni di dollari. E con il suo ultimo lavoro, Origin (2023), è diventata la prima donna nera a dirigere un film presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Film sperimentale, quest’ultimo, che illustra i pregiudizi in vaste aree storiche e geografiche e il modo in cui l’autrice Isabel Wilkerson, vincitrice del premio Pulitzer, li ha collegati tra loro nel suo libro best-seller del 2020 Caste: The Origins of Our Discontent.
La rivista Time ha inserito Ava DuVernay tra le 100 persone più influenti del mondo. Nel corso della seguente conversazione con THR, registrata anche in formato podcast, la regista ha riflettuto sul suo percorso tortuoso verso l’industria cinematografica, in cui ha lavorato inizialmente come pubblicista. Ha anche parlato dell’evoluzione della sua coscienza sociale e del desiderio di raccontare storie che mettano in luce le ingiustizie nel mondo e di come i suoi sentimenti nei confronti di Hollywood siano cambiati nel decennio successivo a Selma.
Ava DuVernay, innnzitutto dove ci troviamo?
Siamo ad Array. È un campus creativo che ho comprato con i soldi diNelle pieghe del tempo qualche anno fa. Volevo avere un luogo di lavoro che mi facesse sentire a mio agio.
È un campus di quattro edifici a Los Angeles, in una zona piccola della città, la storica Filipinotown. E lei è seduto nei nostri uffici di post-produzione.
Bene. Ripartendo dall’inizio. Dove è nata e cresciuta?
Sono nata a Long Beach, in California, e cresciuta a Compton, sempre in California.
Mia madre era dirigente delle risorse umane in un grande ospedale della zona e mio padre era un piccolo imprenditore.
Anche prima di interessarsi al cinema, ha sviluppato una grande coscienza sociale. Merito della famiglia?
E di un concerto degli U2 per Amnesty International. Ci andai con mia zia Denise. Ricordo di aver ricevuto un opuscolo all’entrata e di aver sentito queste quattro rockstar bianche che parlavano del dottor Martin Luther King.
Il brano era Pride in the Name of Love e questo ha dato inizio alla mia storia d’amore con gli U2 e ha aperto il mio mondo a un certo senso di giustizia che deve essere raggiunto, lavorato. E che non può semplicemente essere urlato o pensato.
Quindi, forse da questo è nata l’idea di fare l’avvocato?
Oh, sì, ero già un avvocato al liceo, nella mia mente. Poi quando sono arrivata all’Ucla (Università di Los Angeles, ndr), mi sono laureata in studi afroamericani e in inglese e ho iniziato a orientarmi più verso l’arte e la parola scritta, interessandomi al giornalismo.
L’Ucla aveva già una storia di produzione di molti grandi registi. Ne era a conoscenza?
No. Non è assurdo? Tra loro c’era anche Julie Dash che poi ha diretto un episodio della mia serie Queen Sugar. Erano “la ribellione di Los Angeles”, ma all’epoca non erano nel mio radar, a dimostrazione del fatto che per molto tempo quel gruppo è stato sottovalutato.
La gente non sapeva che esistevano o che lavoro facevano. La situazione è cambiata, e ne sono orgogliosa.
Lei è una parte importante di questo cambiamento.
Ne sono felice. Ma all’epoca non ne ero consapevole.
Quindi il cinema in sé non era nemmeno sul radar per lei?
No, non passavo nemmeno davanti a quella scuola di cinema. Era dall’altra parte del campus. Era troppo lontano.
E poi eri molto impegnata lì. Quali sono le cose che ha fatto all’Ucla?
Scrivevo per la rivista studentesca nera, frequentavo molte serate hip-hop a microfono aperto a Los Angeles e dintorni, lavoravo come cameriera in un locale di cibo soul molto popolare a Los Angeles chiamato Aunt Kizzy’s Back Porch, dove guadagnavo molti soldi, che spendevo ogni settimana per farmi fare i capelli e le unghie per impressionare il mio ragazzo che era nella squadra di basket.
Queste erano le cose che avevo in mente. Le priorità quando si è al college! Ma queste cose iniziarono a cambiare intorno al ’92. È stato un periodo molto intenso per la nostra città, soprattutto per le tensioni tra la polizia e la comunità nera (in seguito al caso di Rodney King, ndr), e ho iniziato a crescere molto rapidamente e ad abbandonare quei pensieri frivoli e dedicarmi all’attivismo e per conoscere meglio la nostra storia afroamericana.
A quel tempo ero passata dal voler fare l’avvocato a voler fare la giornalista.
Perché questa svolta?
Non lo so. Mi interessava l’idea di viaggiare per il mondo e portare la verità alla gente. Non volevo essere la persona che parlava sullo schermo, volevo essere la persona che trovava la storia e la costruiva. Ero entusiasta di farlo, così ho lottato per ottenere questo prestigioso stage al Cbs Evening News con Dan Rather e Connie Chung. È stato un periodo breve.
In quel periodo iniziò il processo a O. J. Simpson. Ero una stagista e mi fu assegnato un giurato, e pensai: “Wow, sarà interessante, farò delle ricerche”. Ma, a dire il vero, quello era un periodo di celebrazione delle notizie, in cui le notizie diventavano un po’ più salaci e i paparazzi erano di moda. Così mi sono rapidamente allontanata da questo fenomeno.
Non so se molti lo sanno, ma il suo primo coinvolgimento nel mondo del cinema, di Hollywood o simili, è stato come ufficio stampa. Da dove è nata l’idea?
Non volevo più fare la giornalista, non sentivo che era qualcosa che volevo perseguire, così sono andata al centro per l’impiego e stavo cercando un lavoro e ho trovato un posto per un assistente pubblicitario.
Ho fatto un grosso colloquio con l’NBA per il loro dipartimento di pubblicità. Ma alla fine ho ottenuto un lavoro di PR in un piccolo studio e me ne sono innamorata.
Ha poi avuto una specie di epifania, ancora
Fu sul set di Collateral di Michael Mann. Ero già stata su molti set, ma c’era qualcosa in quel set: c’erano molte riprese notturne, tutte notturne, in pratica, e stavano girando con telecamere digitali, che non avevo mai visto usare e questo creava un’energia, un processo più veloce. Io sentivo di voler fare qualcosa, volevo buttarmi in quel caos.
C’erano Tom Cruise, Javier Bardem, Jamie Foxx, Jada Pinkett e Mark Ruffalo, un cast incredibile, e stavano girando in zone che conoscevo a Los Angeles, comunità nere. Comunque, qualcosa mi ha fatto pensare: “Oh, forse posso fare qualcosa”.
È successo nel 2003. E da lì in poi che cosa ha fatto? Qual è stato il passo successivo?
Beh, voglio solo sottolineare che ho detto: “Penso di poter fare delle cose”, non ho mai detto: “Penso di poter diventare un regista professionista e guadagnarmi da vivere”, o “Penso di poter diventare famoso per un certo tipo di film”. Solo “Penso di poter fare del materiale”. Voglio provare a fare qualcosa”. E quindi era un’asticella molto più bassa.
Nei successivi otto anni hai continuato a fare da ufficio stampa, ma anche a produrre cose. Il primo è stato un cortometraggio del 2006 intitolato Saturday Night Life, in qualche modo legato a sua madre
Sì, è stata la prima volta che ho realizzato qualcosa. Ho detto a mia madre che volevo provare a fare un cortometraggio.
Dovevo realizzare qualcosa in un unico luogo, perché avevo letto da qualche parte che se non ci si sposta si risparmia. In quei due anni ho seguito i corsi esterni della Ucla e poi ho deciso di trovare qualcuno che potesse girare questo film.
Ricordo che cercai un direttore della fotografia e mi venne in mente la storia che mia madre mi aveva raccontato di una sera in cui si sentiva particolarmente giù. Aveva vestito me e le mie due sorelle con le scarpe di vernice più belle della domenica e lo aveva fatto apposta perché la gente dicesse: “Oh mio Dio, le tue ragazze sono così belle! Oh mio Dio, ti stai prendendo cura di loro, stai facendo un ottimo lavoro!”. Perché nei momenti difficili, questo era qualcosa di cui aveva bisogno, che rafforzava la sua fiducia.
Così mi ha raccontato questa storia e io ho pensato: “Un posto, un negozio di alimentari!”. E così è nata questa piccola storia dolce che ora non si trova da nessuna parte perché esiste solo nel mio cassetto.
Il progetto successivo è stato il suo primo documentario, un anno dopo, Compton in C Minor…
Era un piccolo documentario. Stavo cercando di giocare con i documentari, perché avevo sentito da qualche parte che i documentari sono economici. Così ho fatto un piccolo doc, molto impressionistico. Mostrava solo la bellezza di Compton.
A Compton c’è un’enorme comunità equestre che molte persone non conoscono – ci sono scuderie, cavalli e un’intera comunità in cui i cavalli vagano per la strada, ma la gente non conosce quello spazio – quindi era molto incentrato su questo e su altre cose diverse che la gente non associa a Compton.
Era un piccolo documentario, uno dei tanti che ho presentato al Sundance e che non sono stati accettati nei primi anni, sì. Poi ho realizzato un lungometraggio, intitolato This is the Life.
Questo era un po’ più grande e riguardava il movimento hip hop di Los Angeles nei primi anni ’90. Curiosità: chi è MC Eve?
Eve era il mio soprannome prima – c’è una Eve molto famosa. Ma prima di lei c’era una Eve non molto famosa, che ero io, a Los Angeles. All’epoca si chiamava backpack rap, un’espressione molto artistica ed esoterica dell’hip-hop.
E c’era un intero gruppo di artisti, molti dei quali lavorano ancora oggi. Era un’epoca vivida e splendida. Così ho realizzato un documentario su di loro e sulla scena, a cui ho partecipato quando ero al college.
I Will Follow è stato il suo primo lungometraggio, uscito anch’esso nel 2010. E si torna alla zia Denise degli U2, giusto?
Sì, è vero, parlava di zia Denise. Parla del tempo che abbiamo trascorso insieme quando le è stato diagnosticato un cancro al seno. Prima che morisse, ci siamo trasferite in una casa insieme, in una zona della città che lei ha sempre amato, a Long Beach.
E quindi I Will Follow è un’altra idea di come si possa fare un film con pochi soldi, trovando una location e non muovendosi. I Will Follow era incentrato sul giorno in cui mi sono trasferita dalla casa che condividevo con lei.
E all’epoca si è autodistribuita attraverso la sua società African American Film Festival Releasing Movement, che nel 2015 è diventata Array. Ma da cosa è scaturita la scelta?
La scintilla è stata: “Nessuno distribuirà il suo film, signora! Lei è una regista di circa 30 anni, una trentenne che fa un film su una protagonista nera che affronta il suo dolore? Non c’è nessuno che lo distribuirà”. Ma conoscevo tutti questi bellissimi festival cinematografici in giro per il paese, festival di cinema nero, uno importante in ogni città che aveva proiezioni affollate e liste di spettatori che pagavano i biglietti, e ho iniziato a pensare in modo imprenditoriale. Probabilmente lo stesso spirito con cui ho avviato una società di pubbliche relazioni a 27 anni. “Perché non lo faccio io?”.
Così ho chiamato tutti questi festival e ho detto: “E se lavorassimo tutti insieme? Vi conoscete tutti?”. Non si conoscevano. “E se ci chiamassimo tutti “una cosa sola” e facessimo uscire dei film? Lo fate uscire a Los Angeles, lo fate uscire a New York, lo fate uscire a Seattle, a Boston e in qualsiasi altro posto nello stesso giorno? Io faccio i manifesti, mi occupo della pubblicità nazionale, so come fare, e proviamo. E lo facemmo, e funzionò così. E così quella “cosa” è stata chiamato AFFRM – African-American Film Festival Releasing Movement – che è diventato Array. E lo facciamo ancora oggi per i registi.
Quindi Middle of Nowhere è stato possibile perché I Will Follow ce l’ha fatta, giusto?
Esatto. Abbiamo inserito quei soldi nel film successivo.
E Middle of Nowhere è iniziato prima di quasi tutto questo, giusto?
Sì, Middle of Nowhere è stato il primo film che ho scritto. L’ho girato solo in seguito perché non sapevo come farlo bene.
Non sapevo come mettere insieme un film del genere. Non avevo i soldi per farlo.
È la storia Middle of Nowhere è la storia di una donna il cui marito è stato condannato a otto anni di prigione, che deve capire cosa fare della sua vita. Questa è stata la prima, ma non l’ultima volta che ha esaminato il complesso carcerario-industriale e il modo in cui colpisce i neri. Cosa l’ha ispirata a scrivere il film?
L’avevo sperimentato crescendo, non all’interno della mia famiglia, sono fortunata, ma con le persone nel mio quartiere, dall’altra parte della strada, a scuola – “Dov’è tuo fratello? Non lo vedo da un po’”. “Beh, è dentro”. “Dov’è tua madre?” “In carcere”. Le persone scomparivano.
E mi ha sempre affascinato la gente che viene lasciata indietro. Mi interessavano molto le persone che conoscevo e che vivevano un guscio della loro vita, solo un’ombra di quello che avrebbero potuto essere, perché erano in attesa di qualcuno, stavano scontando una pena con qualcuno.
Non l’avevo mai visto rappresentato sullo schermo.
Come è arrivata ad avere David Oyelowo nel cast?
David Oyelowo si è autoinvitato. Nessuno pensava a lui. Sapevo certamente chi era, ma pensavo che fosse irraggiungibile. Prima di tutto, è inglese. Questo mi intimidiva. “Non so come raggiungerti. Dove sei, a Londra? Come facciamo?”.
La seconda cosa è che ha avuto piccole parti memorabili in film importanti, grandi film.
Credo che lo stesso anno abbia recitato in Lincoln, giusto?
Con Spielberg! E io? Lo chiamo per un film da 250.000 dollari? Quindi di certo lo conoscevo, ma non era affatto nella sfera delle persone che sapevo come raggiungere. Si è scoperto che viveva a tre isolati dal mio ufficio ma era stato su un aereo con un uomo che stava leggendo la sceneggiatura di Middle of Nowhere.
Perché stava leggendo la sceneggiatura? Perché il proprietario dell’edificio che mi aveva dato l’attrezzatura per farlo e mi aveva aiutato a raccogliere un po’ di soldi aveva dato la sceneggiatura a quest’uomo, che è canadese e stava andando a Toronto.
David era seduto con lui e si misero a parlare. Questo incontro casuale mi ha cambiato la vita. David Oyelowo, che è sempre stato un tipo e un produttore coraggioso, si convince a fare il film per un’altra grande coincidenza. Mi aveva vista tre giorni prima sulla Cnn a parlare di I Will Follow e del mio modello di distribuzione che utilizza i festival di film afroamericani per distribuire i film. Ha riconosciuto il nome e ha detto: “Posso leggere la sceneggiatura?”.
E mi ha chiamata: “Salve, mi chiamo David Oyelowo. Sono un attore”. Molto dolce. “Sono un attore e mi piacerebbe molto che mi prendeste in considerazione per qualsiasi parte disponibile nel vostro bellissimo film”. Questa è stata la chiamata.
Se quei due uomini avessero preso voli diversi, quanto sarebbe stata diversa la sua vita?
Tutta la mia vita sarebbe stata diversa. Non ci sarebbe stata Selma. Non ci sarebbe stato David, un grande amico nella mia vita.
Middle of Nowhere va al Sundance e…
Finalmente riesco a entrare. Dopo nove tentativi, sì.
E non solo ce l’ho fatta, ma ho vinto il premio per la miglior regia. Questa onorificenza ha portato più opportunità?
No. No, non è successo. Ho continuato a lavorare nel mio studio per altri anni, ma quel premio ha aperto le porte ad altre persone.
Ed è stato allora che ho iniziato a capire che quest’esperienza sarebbe comunque stata diversa.
Quasi altrettanto folle della storia dell’aereo è la storia di Selma. Questo film era in circolazione dal 2007, quando è apparso nella Black List delle migliori sceneggiature non prodotte e molti registi hanno abbandonato il progetto prima di arrivare a lei. Ma ci fu il problema dei diritti d’autore sui discorsi di Martin Luther King. È così?
Sì, io ho scoperto il film perché avevo firmato un contratto come ufficio stampa per il film. Poi arrivò Lee Daniels, con un film incentrato su un solo episodio della vita di King. Ed entrò in gioco David Oyelowo, che nel frattempo lavorava per mettere insieme i fondi per produrlo.
Lee Daniels era molto, molto, molto interessato ma lasciò il progetto perché il budget non si muoveva. Oyelowo scelse di andare avanti cercando un regista in grado di fare il film con un budget ridotto e che lo avrebbe tenuto come protagonista. E cercò me.
Con 20 milioni di dollari, anziché i 250 mila dollari di cui lei disponeva l’ultima volta…
Avevo appena vinto il Sundance, quindi avevo quella piccola cosa che poteva dire. Ero abituata a lavorare con piccoli budget. Mi parla di 20 milioni di dollari e io quasi svengo. Mi ha fatto una proposta difficile. E in una sola telefonata ho ottenuto il lavoro.
È incredibile. Gliel’ha detto lui o qualcun altro?
Sì, me l’ha detto lui. Il fatto che non sia accreditato come produttore è incredibilee non è giusto.
C’è un altro credito mancante in quel film, il suo come autrice dei dialoghi di King. Come si fa a raccontare la storia del Dr. King senza le sue stesse parole? Avete ereditato la sceneggiatura esistente?
Nel film originale non c’era l’oratoria del più grande oratore della storia moderna, non faceva mai un discorso. Non sapevo come avrebbe potuto funzionare. E in secondo luogo, non c’erano persone nere.
Sono stata invitata ad apportare significative modifiche alla sceneggiatura, ho creato personaggi e scene e attività propulsive intorno a un gruppo di persone che hanno deciso di cambiare il mondo e l’hanno fatto, e ho anche creato scenari e scritto discorsi che sembravano quelli del dottor King.
Quindi la definirei una riscrittura integrale della sceneggiatura.
Perché non è accreditata?
Perché non ero iscritta alla gilda degli sceneggiatori, e nemmeno lo sceneggiatore accreditato lo era. Legalmente c’era poco da fare, anche se Oprah Winfrey, da produttrice, si è battuta per noi.
Ricorda la prima di Selma?All’AFI Fest insieme ad American Sniper…
Ero in preda a un attacco di panico totale. Ero terrorizzata.
Di cosa aveva paura?
Del rifiuto. Del ridicolo. Era una cosa così grande, ed è stato come se, in quel momento, la paura mi avesse colpito. Perché stavo andando troppo veloce.
Non avevo mai avuto il tempo di fermarmi a pensare. Non c’è stato nemmeno il tempo di metabolizzarlo.
E poi sono arrivate le nomination agli Oscar…
Non pensavo che una nomination a me come regista fosse possibile. Non me l’aspetto nemmeno adesso.
Sta dicendo che non crede che sia possibile per lei o per qualsiasi donna nera?
Spero che ci sia una donna nera che riesca a destreggiarsi tra le difficoltà che comporta la realizzazione di tutto questo.
Perché non si tratta solo di una questione di merito. Per Selma avevo il cuore spezzato non per me, ma David Oyelowo. Voglio dire, se il film è stato nominato per il miglior film, perché lui no?
Uscendo da quel periodo, è combaciato molto per lei. È diventata all’improvviso un modello per le altre. Ha sentito la pressione?
No, in realtà. Volevo solo un altro film da fare e non arriva. Non ricevevo copioni.
È possibile che pensassero che lei volesse dirigere solo cose scritte da lei?
Penso che avrebbero potuto chiedere. L’unica volta che mi è stato offerto qualcosa da uno studio è stato Nelle pieghe del tempo.
Prima che ciò accadesse, lei e Oprah avete deciso di fare Queen Sugar, serie andata in onda per sette stagioni. E nel frattempo lei ha realizzato XIII emendamento, un documentario che esamina il complesso industriale carcerario. Nessuno lo sapeva. Come si fa a mantenere un segreto del genere?
Ho ricevuto una telefonata da Netflix che mi chiedeva se volevo fare qualcosa. Non so se l’ho mai detto, ma la chiamata era per sapere se volevo fare un documentario speciale connesso a Orange Is the New Black.
Non credo di averlo mai detto da nessuna parte. Dopo aver fatto delle ricerche ricerca e aver imparato così tanto sull’argomento per Middle of Nowhere, avevo molte cose da dire e da esplorare al riguardo. E così è diventato un pezzo a sé stante.
Questo ha portato alla sua prima nomination all’Oscar.
È stata la prima e ancora l’unica ma, ehi, la prendo”
Poi è arrivato Nelle pieghe del tempo, un adattamento di un libro che era in circolazione da generazioni. È stato sorprendente per lei che fosse questa la storia che volevano che lei raccontasse?
Mi ha sorpreso che volessero che raccontassi qualcosa. Capisce cosa intendo? Volevano che la ragazza fosse una donna nera a farlo.
Lei ha detto una volta, cito: “Ho avuto la mia esperienza con Nelle pieghe del tempo, che non è stata un’esperienza orribile. È stata un’esperienza”.
Credo che sia una citazione piuttosto neutra e diplomatica, non crede? La lascerò così. Voglio dire, è stata un’esperienza in studio, e io sono un regista indipendente che ha un talento imprenditoriale.
Mi piace costruire le mie cose. Queen Sugar mi ha fatto prosperare. Era il mio show. Facevo le mie cose. Questo campus in cui siamo seduti è il mio posto per fare le mie cose. Quindi ho lottato. Non so se ho lottato esteriormente, ma certamente interiormente, in un processo in cui avevo molto meno controllo su quasi tutto di quanto avessi mai sperimentato.
Vorrebbe ancora fare un altro film in studio?
Adesso no, non credo. Dipenderebbe. Dipenderebbe da chi e cosa è coinvolto e dalle circostanze.
Un’altra cosa che ha realizzato durante il periodo di Queen Sugar è stata la miniserie serie When They See Us, che è stata forse più impegnativa di qualsiasi altra cosa che avesse mai fatto prima: cinque ore e mezza in totale. Quanti giorni di riprese?
Troppi. Troppi a New York. New York è un posto difficile da girare, soprattutto quando le giornate sono piene di prigioni e centri di detenzione. È stato un lavoro duro.
Per quanto riguarda il formato, come si è trovata?
Mi piace molto ma credo che lo vedremo sempre meno. È costoso. Non si può ammortizzare in tutto.
Si montano questi set, si montano tutte queste cose, ed è una cosa che si fa una volta sola e non continua, nemmeno per le troupe. Sento dire: “Vogliamo più lavoro continuativo”. Era uno dei punti dello sciopero.
When They See Us era originariamente, intitolato Central Park Five. Perché è cambiato?
Quando ho conosciuto gli uomini coinvolti, non si sono identificati come i “Central Park Five”. Si sono identificati come i “Cinque scagionati” e ho sentito che era quello il messaggio.
C’era qualcosa di veramente legato alla casta in quell’idea.
Questo ci porta a Origin. Conosceva personalmente Isabel Wilkerson prima del progetto?
No, non la conoscevo, non l’avevo mai incontrata. È stata una telefonata completamente a freddo.
Come le è venuto in mente di fare una telefonata a freddo?
Forse verso la seconda volta che ho letto il libro ho avuto l’idea che avrei potuto fare un film con queste idee davvero difficili se avessi avuto lei come personaggio guida.
Sapeva tutto quello che stava succedendo nella sua vita privata mentre ci lavorava?
Sapevo solo di suo padre e di suo marito, quindi non sapevo cosa avrei trovato. Non sapevo come fosse la sua vita. Ma sapevo che una donna nera che risolve il mistero di un fenomeno globale è piuttosto interessante. Se riesco a capire come ci è arrivata, potrebbe esserci qualcosa.
Volevo parlarne con lei. Ma mentre parlavo con lei, mi è apparsa una storia che ho interpretato come una storia di dolore e perdita reale, una donna che stava scrivendo questo libro per ancorarsi al mondo e continuare ad andare avanti. E poi questo è diventato molto affascinante per me, a causa delle mie esperienze di perdita, che così si sono intrecciate, ed è diventata una vera e propria avventura che non avevo nemmeno previsto.
E Wilkerson è una narratrice, ovviamente. Ha capito quello che voleva fare con il film?
Ricordo di aver parlato con lei e di averle detto: “Ti considero un’accademica”. E lei: “Mi considero un’artista”. E da questa posizione di artista-storyteller, mi ha dato le storie da raccontare e il permesso per farlo.
A punto ha i suoi attori di riferimento. Niecy Nash-Betts è una di loro. E come protagonista, cosa l’ha spinta a scegliere Aunjanue Ellis-Taylor?
Tutti noi abbiamo degli attori che amiamo. E lei, in categoria di donna nera, adulta, cresciuta nel suo mestiere, che sa come usare il suo strumento, penso che sia molto più avanti di molte altre persone e avevo bisogno di quel tipo di rigore.
Ci sono molte attrici incredibili che fanno cose diverse in modi diversi, ma io avevo bisogno della sua mente e sapevo come lavorare con lei. Con Aunjanue si tratta di un processo di pensiero ed era di quello che avevo bisogno.
Quanto è stata coinvolta Isabel Wilkerson durante la realizzazione di questo progetto?
È stata molto gentile nel permetterci di prendere la palla al balzo. Voglio dire, se lo guardo dall’esterno, lei sta guardando un progetto che sta per raccontare le più grandi perdite della sua vita – suo marito, sua madre, il suo migliore amico che era suo cugino, uno dietro l’altro in un periodo di tempo molto breve – che ha portato alla scrittura del libro.
Non credo che racconterei questa storia a nessuno, tanto meno vorrei essere coinvolta nella sua quotidianità. È stata gentile, nel corso di due anni, a raccontarmi quelle storie, ad affidarmele e ad affidarmi anche la loro interpretazione. Mi ha dato le storie e poi ci ha permesso di interpretarle e raccontarle.
Ovviamente si tratta di un film non convenzionale. E c’è stata una certa resistenza: come l’avete considerata?
Lo capisco. Il libro è quasi impossibile da filmare. Quando la gente lo legge, si chiede: “Cosa farà? Come lo farai? Come sarà?”. Mi chiedono: “Perché non ne hai fatto un documentario?”. Ho ricevuto tutte queste domande, ma sentivo di averci visto la storia.
Al punto che l’ho ricomprata da Netflix che aveva i diritti e voleva posticipare il film. Sono stati abbastanza gentili da permettermi di riprenderlo, senza doverlo fare, e in questo senso siamo davvero ottimi partner. Avevo già avuto un ottimo rapporto con loro conprecedenti lavori. La separazione è andata bene.
Ci sono scene in questo film che sono piuttosto inquietanti. C’è qualcosa che l’ha colpita di più mentre lo faceva?
Credo di raccontare storie di trionfi e di sopravvivenza. Ma per raccontare una storia di trionfo, bisogna capire cosa si sta superando, altrimenti non c’è trionfo. Per raccontare una storia di sopravvivenza, a cosa stai sopravvivendo?
Mi sembra che faccia parte dell’inizio, della parte centrale e della fine di una storia. E se voglio raccontare la gloria, la magnificenza, la sopravvivenza e la resilienza di un popolo, devo raccontare quella storia. E questa storia richiede di essere presenti. Quando mi occupo di traumi e violenze, il mio obiettivo è quello di renderli profondamente specifici e molto umani.
Ci concentreremo sulle mani. Vedrete gli occhi. Capirete la pelle. Conoscerete la persona che viene ferita prima che venga ferita, in modo che venga umanizzata, in modo che non si tratti solo di violenza in senso lato per il bene della violenza, che è ciò che vedo ogni giorno in ogni film e ogni volta che accendo la televisione.
Per me è una sfida, il trauma che c’è dentro alla storia e non l’ho voluto addolcire. Ha una ragione. C’è un obiettivo. C’è un’intenzionalità nel motivo per cui è stato realizzato.
Questo film sta per uscire nel mondo a dieci anni esatti da Selma. Qual è il suo stato d’animo?
Ho imparato molto in quest’ultimo decennio e sono soddisfatta di ciò che ho fatto. Ho lavorato per cercare di plasmare e contribuire a ciò che sono, e credo di aver deciso di concentrarmi sulla costruzione della mia “istituzione”.
Sarò ancora molte cose ma è passato per me il tempo di dire “lasciatemi entrare”. Sono già qui e continuo così.
Traduzione di Pietro Cecioni
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