Era un uomo estremamente spiritoso, Billy, e amava sorprendere l’interlocutore con battute improvvise, taglienti, quasi sempre politicamente scorrette. Il suo umorismo nasceva da due elementi apparentemente contraddittori: un’insaziabile attrazione per tutto ciò che poteva sovvertire l’ordine costituito e la reazione alla constatazione della fallacia di ogni ribellione.
La sua risata era travolgente e liberatoria, e non ti saresti mai aspettato un autentico talento da performer, imparato in gioventù vedendo gli spettacoli dei comici ebrei dei Catskills. Ed era un uomo profondamente e sinceramente curioso, dotato di un’ammirevole libertà intellettuale, che gli consentiva di mettere in discussione ogni cosa, a cominciare dalle sue convinzioni. Amava raccontare, affabulare, ed era una miniera di aneddoti, spesso esilaranti e sempre rivelatori.
Una serata passata nella sua splendida villa in cima a Bel Air, con quadri di Kandinskj appesi alle pareti e un parco nel quale si aggiravano cervi, era una lezione di vita prima ancora che di cinema. Insieme alla moglie Sherry Lansing, leggendaria produttrice che ha guidato per oltre un decennio la Paramount, riceveva gli amici curando ogni minimo dettaglio, non solo sul piano formale: le cene, che terminavano con l’anteprima di un film inedito nella sala di proiezione privata, erano organizzate in modo che ognuno degli ospiti venisse arricchito da almeno un’idea in più. Era uno dei suoi modi di interpretare la generosità, che nasceva da una concezione trascendente della vita: “credo in Dio” mi ha detto ripetutamente, “come credo nel diavolo”. È questo il motivo per cui L’Esorcista è un film terrorizzante: al di là della maestria registica, quello che si percepisce immediatamente è che Billy credeva completamente in quella storia, e ti spiegava che era basata su episodi realmente accaduti a un ragazzo di Washington sui quali medici e scienziati non sono mai stati in grado di dare una spiegazione razionale.
Su questo tema è voluto ritornare con uno dei suoi ultimi documentari, dedicato a Gabriele Amorth, il più noto esorcista italiano, del quale ripeteva una dichiarazione “Io paura di Satana? È lui che deve avere paura di me: io opero in nome del Signore del Mondo. E lui è solo la scimmia di Dio”. Nativo di Chicago, è stato uno dei protagonisti della Hollywood Renaissance, quel gruppo di straordinari talenti che presero le redini della fabbrica dei sogni nel momento del crollo dello studio system.
La scelta di lavorare nel genere lo ha penalizzato criticamente rispetto a Scorsese, Coppola e Spielberg, ma erano loro i primi a riconoscerne l’assoluta grandezza. Nel momento in cui insieme ai colleghi sostituì con successo i registi della generazione precedente non gli mancarono momenti di arroganza, come quando urlò a un uomo mite come George Cukor “vi rimpiazzeremo tutti”, e, con il disastro commerciale di Sorcerer, splendido remake del classico di Clouzot, ha contribuito a ridimensionare, se non del tutto a chiudere, quel periodo di straordinaria fertilità creativa nel quale sembrava che i registi avessero a Hollywood lo stesso potere dei produttori.
Non fu l’unico: il fiasco di Sorcerer è da contestualizzare insieme a quelli di 1941, Un sogno lungo un giorno, I Cancelli del Cielo, Daisy Miller e Finalmente arrivò l’amore, ma insieme a Cimino e Bogdanovich fu colui che pagò maggiormente le conseguenze di un approccio ostile nei confronti dei finanziatori. Nel giro di pochi anni è riemerso con il magnifico Vivere e Morire a Los Angeles, come ha fatto numerose volte in una carriera lunga sessanta anni, che si è conclusa con la nuova versione degli Ammutinati del Caine, che sarà presentato a Venezia. E in quel film si prese la libertà di far morire il protagonista a metà della storia, sovvertendo ogni regola drammaturgica.
Era molto orgoglioso di aver vinto un Oscar sia come miglior film che come regista per French Connection, del quale amava il titolo italiano Il braccio violento della legge, e con un pizzico di vanità ricordava di aver sconfitto Stanley Kubrick, candidato quell’anno per Arancia Meccanica. A rivederlo oggi, il film, che si fregia dei due più belli inseguimenti della storia del cinema, non ha perso nulla della sua potenza, e lascia ancora spiazzati per il modo in cui celebra i modi brutali del protagonista, un indimenticabile Gene Hackman maltrattato ripetutamente sul set: “è tutto qui quello che sai dare per mostrare la tua forza, la tua virilità…?” La star, abituata a dominare i registi, venne preso in contropiede, ne risultò un’interpretazione memorabile, che gli assicurò l’Oscar come migliore protagonista.
Non è stata l’unica volta che i suoi film hanno sconcertato, come Cruising, in cui Al Pacino interpreta un poliziotto che conduce un’indagine nel sottobosco della comunità gay di New York: non fu solo la violenza a generare proteste, né il sesso esplicito, ma l’assunto che suggeriva un’assonanza tra la perversione criminale e l’omosessualità. “Quando ho visto quel film l’ho trovato odioso e pericoloso” raccontava sempre Sherry Lansing “e ancora adesso lo trovo problematico, ma poi mi sono resa conto che la provocazione era una declinazione dell’intima libertà di Billy, che ha dimostrato di essere capace di ascoltare e smentirsi.” Non aveva certo paura di posizioni scomode, Billy, che si dichiarava un “liberal che rifiuta di mandare il cervello all’ammasso”, e non sopportava il conformismo, la correttezza politica e lo snobismo. “Non esiste l’highbrow e il lowbrow, la cultura alta e quella popolare, ma solo la cultura e vale lo stesso per l’arte” e una volta mi spiegò che curava nel minimo dettaglio gli inseguimenti perché si tratta di qualcosa che solo sullo schermo trova la massima compiutezza, mentre molte altre situazioni drammaturgiche possono essere risolte in maniera analoga o ancora meglio con le parole.
Era molto orgoglioso di essere riuscito a riaprire il caso di un uomo ingiustamente condannato a morte con il documentario The People Vs.Trump, e di essersi fatto poi le ossa lavorando nell’Ora di Hitchcock, che gli disse “è bene che un regista indossi sempre la cravatta”. Può sembrare una battuta, ma Billy comprese che l’insegnamento che stava ricevendo è che l’autorevolezza necessita anche di forma. Era molto più colto di quanto ti potessi aspettare e amava molto la letteratura francese, che aveva imparato grazie alla seconda moglie Jeanne Moreau: il matrimonio durò solo due anni e, diciamo la verità, erano una delle coppie più improbabili del cinema, ma la grande attrice francese era rapita dal suo talento e di divertiva con lui come con nessuno.
Dopo un momento di declino negli anni Novanta, culminato con Jade, finanziato tra mille polemiche dalla Paramount guidata dalla moglie, ha dimostrato quanto fosse intatto il suo talento con Killer Joe, diretto a 75 anni con la freschezza di un esordiente. Quando venne alla Festa del Cinema mi chiese esplicitamente di poter dialogare con Dario Argento, che ammirava profondamente, e regalò agli spettatori una serata memorabile, ma è nella cena successiva all’incontro che raccontò un aneddoto rivelatore. All’inizio della sua carriera ebbe una relazione con la figlia di Howard Hawks, che volle conoscerlo. Billy, che aveva terminato da poco l’ottimo Festa per il compleanno per il caro amico Harold, venerava il grande regista ed era molto intimidito. Quando Hawks gli chiese cosa avesse diretto rispose “un film su un gruppo di omosessuali che tormentano un eterosessuale che capita per caso in una festa”. Hawks rimase un attimo in silenzio e poi gli disse “figliolo, tu non vuoi fare film di questo tipo”. Billy non disse niente, ma dal giorno dopo cominciò a preparare Il braccio violento della legge.
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