Marilyn Monroe è morta il 4 agosto 1962 a Los Angeles, California, nella sua camera da letto nella casa di Brentwood. Aveva trentasei anni. Il corpo era nudo, avvolto da un lenzuolo bianco. Il braccio era steso. Molti lo vogliono allungato verso la cornetta del telefono, l’apparecchio che non è riuscita a raggiungere per chiedere aiuto. O, almeno, se la raccontano così. Quel 4 agosto, a morire, è stata solo Marilyn Monroe. Norma Jean, nome e identità fuori dal cono di luce dell’attrice hollywoodiana, lo era già da tempo. In quella stessa stanza, immortalata come si fa con le scene del crimine, è stata girata anni dopo una sequenza in cui viene rievocato lo spirito della diva.
Blonde, film di Andrew Dominik basato sul romanzo omonimo tra biografia e invenzione (suggestione, sarebbe meglio dire) della scrittrice Joyce Carol Oates, mette in scena nuovamente la fine dell’attrice. La ferma in un momento, eterno, in cui il corpo esanime della protagonista, interpretata da Ana De Armas, riprende per un attimo vita. Solo per un attimo.
Morta tra le lenzuola candide del suo letto, a muoversi è un’immagine evanescente della donna. Si sovrappone al corpo immobile sdraiato sul materasso, mentre – spostandosi lentamente – fa riaprire gli occhi alla Marilyn di De Armas, pronta ad abbracciare il cuscino. Ana/Marilyn (e no, non Norma Jean) ci guarda per un istante. Poi la morte sopraggiunge di nuovo, insieme alla conclusione del film.
Critiche e dibattiti: che film è quello su Marilyn Monroe?
L’opera di Netflix, quasi un anno dopo la sua presentazione alla 79esima Mostra del cinema di Venezia, è scomparsa dai radar della discussione. “È un film antiabortista”, gridavano alcuni (soprattutto enti come la International Planned Parenthood Federation), puntando il dito contro la scelta di far udire allo spettatore il sonoro del battito del cuore di due bambini che la donna non ha avuto. Uno non desiderato: era troppo presto. L’altro, purtroppo, perso.
“È pornografia del dolore”, diceva chi non ha mai accettato (o capito), l’immagine offerta dal film di una donna martoriata, soprattutto psicologicamente. Dominik, col supporto della creatrice del romanzo, ha rappresentato il dolore di una stella di cui tutti si sono cibati. Del suo successo, mondiale. Del suo entusiasmo, costante. Della sua ingenuità, che l’ha divorata.
Il film ritrae la donna in una doppia versione, continuamente. Prima Norma Jean poi Marilyn Monroe, poi Marilyn Monroe e dopo Norma Jean. Fin quando non ne rimane una sola. In una scena simbolica, Norma piange disperata davanti allo specchio. Poi all’improvviso capisce che, ormai, non può fare altro che indossare la maschera che le è stata disegnata in faccia. Allora inizia a ridere. Quasi come accade ad Arthur Fleck, il protagonista di Joaquin Phoenix in Joker del regista Todd Phillips, quando gli cola il trucco e balla nella sequenza del bagno. Anche lì c’è uno specchio in cui riflettersi.
In una frazione di secondo, le lacrime diventano risate. Gli occhi si stringono come fessure, non più per il pianto, ma per l’incontenibile, inquietante gioia. Basterebbe quella scena per far comprendere allo spettatore che il racconto di Blonde è la copertina, è il simulacro, è la facciata dietro cui Andrew Dominik ci ha fatto sbirciare.
Eppure quel dolore non è stato colto. Non fino in fondo o nella maniera appropriata. Si è detto che l’autore avrebbe “maltrattato” la protagonista, “non dandole pace nemmeno dopo la morte”. Queste erano le voci che circolavano dopo l’uscita della pellicola.
Era probabilmente troppo difficile calarsi nei suoi panni, vivere – dalla comoda poltrona di una sala cinematografica o dal salotto di casa – l’umiliazione e le violenze (anche fisiche) ricevute da quella donna costantemente mortificata. Noi non siamo riusciti a resistere due ore e quarantasette minuti. Lei lo ha sopportato per tutta la vita.
Tra Blonde e Barbie: non idee, ma persone
Nell’anniversario della morte di Marilyn Monroe, in sala, arriva un film che offre un’altra immagine della donna. Una bambola (non lo era, in parte, anche la stessa diva?) dal seno prosperoso, il vitino stretto, il sorriso bianchissimo.
Barbie è l’antitesi di Blonde. Non la nemesi, ma l’antidoto. Capelli perfetti, casa dei sogni ed emancipazione raggiunta a livelli inimmaginabili nella giocosità di Barbieland. La protagonista di Margot Robbie, con le sue amiche, è l’apoteosi della speranza e della felicità. Quella che arriva perché si è umani, quindi anche fallibili e destinati, a volte, a cadere (Barbie depressa ne sa qualcosa). Ma è un’immagine positiva quella offerta da Greta Gerwig, regista e sceneggiatrice del film con Noah Baumbach.
La pellicola mostra le donne nelle loro contraddizioni, ci dice che essere perfette non è necessario: nella vita non si è immutabili, di plastica, ma si può cambiare. Ed è la cosa migliore che possa capitare. In Barbie la donna, anzi, la sua rappresentazione, è in divenire, potente, incoraggiante. È per le bambine che si fanno conquistare dal rosa (e dal marketing), ma è anche per le loro sorelle, le zie e le madri. È una donna – attenzione, non una bambola – che vive di ideali, lotta contro il patriarcato e sa prendersi le proprie vittorie. Eppure – a sentire certe critiche – non andrebbe bene nemmeno così. Non va bene vedere una donna felice, all’apice. Dalla storia di una donna resa bambola, a una bambola che inizia a provare sentimenti da umana, Blonde e Barbie sono gli estremi opposti che ci dicono la stessa cosa: che sia nella vita che nel cinema, l’immagine delle donne è, e sarà sempre per qualcuno, sbagliata.
La rappresentazione dei protagonisti maschili non viene ossessivamente dissezionata: se si discute, lo si fa del ruolo in sé, non dell’uomo in quanto tale. Con le donne, invece, è sempre un discorso universale. Non sono mai “persone”, ma esempi o paladine. Barbie, nel vendicare Monroe, dice una cosa importante: le donne non vogliono essere l’idea, ma avere il diritto di averne. Quante e come vogliono.
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