Pietro. I limoni d’inverno, in sala dal 30 novembre 2023, posa le basi sul personaggio di questo intellettuale, interpretato da un superlativo Christian De Sica, che lotta con la sua memoria, tra un pranzo fatto di tramezzini e le chiacchiere con un giovane barista semplice e sensibile, con tanta voglia di migliorare, e la cura dei suoi fiori che gli fa conoscere Eleonora (Teresa Saponangelo, una delle migliori attrici italiane, qui soave nella sua malinconica infelicità e nel garbo con cui cerca l’amore gentile del dirimpettaio).
Caterina Carone compone un quadro in movimento, con tratti lineari e decisi, ma anche tante piccole sfumature incarnate perfettamente da due interpreti sopraffini. Qualche decina di copie – “quelle che ci lascia Cortellesi”, scherza De Sica” -, uno sguardo e uno stile che sono senza tempo ma che non si fanno corteggiare dalla modernità, colori teneri e umori profondi, I limoni d’inverno regalano un angolo di bellezza in un cinema sempre più abituato a un’entropica e eccessiva cattiveria.
Un’opera che rispecchia il suo protagonista, Christian De Sica, che certi stilemi e toni li aveva nel destino se è vero che è “nato nel giorno in cui papà girò quella famosa scena al Duomo di Miracolo a Milano, della famiglia dei poveri che vola. Vittorio non poteva lasciare il set e chiese a questo bravissimo attore, Memo Benassi, di accompagnare mamma alla stazione, perché andasse a partorire. E mentre partiva il treno le disse le uniche parole che gli aveva dato da riferire il suo regista: “se nasce femmina chiamala Eleonora!”. Come la Duse”.
Gentile e diretto, Christian De Sica passa dalla battuta feroce e senza peli sulla lingua alla riflessione dolente, dall’aneddoto irresistibile alla polemica sagace con grande naturalezza. Così come sa essere comico e drammatico con una bravura che hanno in pochi, con la capacità di chi sa toccare tutte le corde della propria espressività.
Ce lo racconta in un salotto di una bella villa sull’Appia, a un passo dalla villa che Berlusconi comprò da Zeffirelli, nel cui disimpegno c’è un tavolo con tutti i premi vinti. Il David ma anche una quarantina di biglietti d’oro. “Credo sia un record, di cui vado fiero, perché il pubblico è il giudice più sincero e severo”.
Christian, voleva stupirci con affetti speciali. Quelli di Pietro, che sta per perdere parole e ricordi, ma non sentimenti e voglia d’amare
Ho un debole per il modo di narrare che ha Caterina Carone, poi quando mi ha proposto un film drammatico, non ho resistito. Ci eravamo incontrati in Fraulein, una commedia che qualcosa di simile a questo racconto aveva, in quel protagonista svanito che portava scompiglio nella vita della rigida protagonista.
Ho amato molto la storia d’amore platonico tra quest’uomo della mia età, malato. e una donna che è anche lei isolata, entrambi si stanno dimenticando di sé stessi e si ritrovano negli occhi e nei sorrisi dell’altro. È la storia di due solitudini che si incontrano, di due persone che in un frangente molto difficile riescono ad essere per un momento felici, perché ci dimentichiamo che anche nelle epoche più terribili della nostra vita, possiamo esserlo.
E poi, sì, ci ho messo anche un po’ della mia paura di perdere la memoria, ciò che forse ho più di bello e prezioso. È il mio terrore più grande finire come il mio personaggio e l’ho restituito, senza filtri, questo timore. Senza però patetica retorica.
Lo sa che in giro qualcuno dice che è troppo facile diventare buonisti e raffinati da anziani?
Mi sono un po’ stufato di certe critiche. Io dico che abbiamo bisogno di film buoni, che parlino di cose belle, magari dolorose ma gentili e loro mi abbaiano contro che ho fatto i cinepanettoni e non ho diritto di parola. Non capiscono neanche ciò che dico, ovvero che in questo momento storico è più giusto fare opere più garbate e buone, mentre allora magari quella nostra critica sociale e di costume ci stava.
Ma poi che malattia hai se pensi che io sono il mio personaggio? In ogni caso ho polemizzato su altro, sulla prevalenza di opere violente con protagonisti bruti, sinistri. Penso che bisogna contrastare questa violenza ossessiva, nella realtà e nella finzione, c’è bisogno di commedie e soprattutto di film con dentro un po’ di pietas.
Ma a quanto pare non posso dirlo, perché mi sono arricchito con i film di Natale. E pure questa è violenza, quella di incasellare tutti come buoni o cattivi, non cercare più le sfumature, per inondare i social di ferocia e odio solo al fine di conquistare qualche like.
Nessun rimpianto e nessun rimorso quindi?
Anzi, rivendico quello che ho fatto, non mi vergogno. A quelli che mi dicono che è troppo tardi per pentirsi di certe scelte, rivelo che non ho nessun rimorso. Anzi, ora farò una serie divertente, si chiama Gigolò per caso, andrà su Prime, l’ho fatta con Pietro Sermonti: siamo padre e figlio e devo, per motivi “medici” devo passargli le mie clienti, io nasco comico e far ridere è una delle cose che amo di più.
Va bene la commedia, dico solo che si può cercare un cinema altro da quello pieno di sparatorie e omicidi. E sì, è normale, quando Caterina mi ha chiamato per fare un film drammatico è stata una festa, perché una cosa del genere ti dà la possibilità di far vedere cosa sai fare al di là di un certo genere, ti dà l’occasione di recitare in maniera diversa, non per stereotipi come succede nella farsa.
Ha faticato molto a vestire i panni del dolente e gentile Pietro?
No, non è stato difficile perché io per fare questo personaggio ho cercato di essere me stesso, io non sono quei personaggi misogini, maschilisti, violenti, mascalzoni, bugiardi che ho fatto nei film comici, io li prendo per il culo quei personaggi lì, si ride con il demonio, non è che ridi con San Francesco.
Per fare Pietro ho seguito un consiglio che mi diede mio padre: “non cercare di dire la battuta in maniera fica, ad effetto, tu ascolta la persona che hai davanti, guardala negli occhi e vedrai che le parole usciranno più facilmente. Basta rispondere”. E così ho fatto.
Non è che le rimproverano di aver raccontato troppo bene le debolezze e i difetti degli italiani?
Credo che pur nella loro drammaturgia molto leggera, quei film abbiano, meglio di tanti film autoriali, raccontato la borghesia degli anni ’80. E che quell’incomprensione di quel fenomeno sociale e di costume abbia allontanato il cinema d’autore dal pubblico. E chi non capiva gli italiani invece di prendersela con se stesso, ha attaccato noi. Come se li corrompessimo, invece di descriverli.
Credo non ci perdonino quello, soprattutto, di aver reso simpatici dei personaggi negativi e ricordato a tutti che in quel periodo erano simpatici all’intero paese, erano ammirati e invidiati. Non sopportano di aver rammentato a molti di quelli che ora criticano che allora anche loro erano quella roba là. Beppe Cottafavi che era mio editor, poi, mi diceva un’altra cosa: in Italia ti perdonano tutto, ma non il successo.
Mario Monicelli raccontava che lui e Sordi non si facevano una ragione del fatto che loro descrivessero gli italiani in una certa maniera per farli vergognare e quelli invece si immedesimavano e si piacevano
Alberto, che è stato mio zio, aveva ragione. E quando mi dicono che lo imito da sempre, dico che è vero. Non ho mai imitato mio padre, se c’è una somiglianza è un fatto di DNA, ma ho imitato Sordi, lui l’ha sempre saputo e me lo rimproverava bonariamente, io gli rispondevo che devi sempre rubare ai più grandi.
Chi dovevo emulare, Pippo Franco? Alberto è il numero uno e io come lui facevo diventare simpatici dei mascalzoni. Finché si poteva, perché lui suonava lo xilofono sulle teste delle vecchie all’ospizio, ne I nuovi mostri, ora lo crocifiggerebbero. Io, se rifacessi uno di quei film che facevo con Aurelio, mi chiuderebbero in carcere e butterebbero la chiave.
Il politicamente corretto lei l’ha definito una stronzata. Lo pensa ancora?
Sì, non si può fare più niente, ricordo quando facevo il “negro” per Antonello Falqui nei varietà del sabato sera, penso a tanti sketch ora impossibili e mi chiedo come l’umorismo, la comicità possano esistere senza un po’ di cattiveria, di scorrettezza.
L’unico che se ne frega è Checco Zalone, lui fa dei film davvero politicamente scorretti e vedi che successo ha, noi altri ci siamo tutti limitati, come rinchiusi in questa incapacità di pungere.
Questa però è una cosa incredibile, siamo peggiorati negli anni, suo padre ha potuto fare quello che voleva e nel frattempo vincere gli Oscar.
Anch’io, anch’io con il mio cinema non ho avuto limiti e da regista mi sono concesso di andare altrove.
Però la giudicavano molto di più di quanto abbiano fatto con Vittorio
Non credere, lo facevano soffrire parecchio. Il punto è sempre quello del successo, quando ce l’hai, godono di più a spararti addosso.
Ci hai fatto caso che persino Paola Cortellesi ha trovato non pochi detrattori, soprattutto tra i tuoi colleghi e presunti intellettuali? Noi facevamo numeri assurdi, mi ricordo quando mi chiamò Aurelio e mi disse “mi avete dato una coltellata a schiena, quest’anno avete incassato solo 22 milioni”. Ora sarebbe una frase assurda. Oddio, lo era anche allora, a dir la verità.
Noi siamo arrivati a farne anche 30, ma avevamo anche il 50% sin più delle sale. Paola Cortellesi ai nostri tempi ne avrebbe fatti almeno 40. Poi va pure detto che ora ti dicono che esci con 40 copie e in realtà sono 20, perché la metà le mettono su per un solo spettacolo.
Prova un po’ di invidia per Paola Cortellesi?
Guarda che C’è ancora domani fa bene a tutti. Perché il pubblico con lei si reinnamora del cinema italiano, ritrova la voglia di andare al cinema a vederci. In Francia, Inghilterra e Germania dopo il Covid hanno riempito di nuovo le sale, per noi questa è la prima volta in cui vediamo le file fuori dopo tre anni per un film italiano.
Noi siamo tornati a riempire solo teatri e ristoranti, perché lì non hai alternative all’altezza, mentre con le tv sempre più grandi, le piattaforme, le finestre di uscita sempre più brevi – un’opera ormai passa dal grande al piccolo schermo in poche settimane – e molte sale che sono avvilenti, che sembrano dei pollai – guarda come si sta riducendo l’Adriano – in cui vedi sfocato, soffri il freddo o il caldo e le sedie sono rotte, perché mai dovrebbero riempirsi i cinema?
Prima la sala aveva una sua sacralità, non potevi tenerla in condizioni pessime, era un posto bello in cui andare, c’era lo spettacolo delle undici che era un rito: prima cena, poi il film. Era un vero avvenimento per la borghesia.
Ora che abbiamo a Roma? Il Barberini, sì, è magnifico, ma è un’eccezione.
Esattamente cinquant’anni fa recitava con suo papà
Una breve vacanza, che mi hai ricordato. Mi fece fare un tisico, a me che ero un ciccione. Nel film c’era Florinda Bolkan, ma la mia scena era con Adriana Asti, un bellissimo ricordo, lei attrice pazzesca. Ma il primo ruolo è stato per Roberto Rossellini, una miniserie Rai, Blaise Pascal, l’anno prima.
Si raccontava un processo di stregoneria a Port Royal.
Come ottenne la parte?
Allora stavo con sua figlia e così, invece di rompere le palle a mio padre, ho detto a Isabella, “Dai fammi fare una parte con tuo papà”.
Il cast era pieno di attori francesi, ero l’unico italiano. Roberto mi disse, “ma veramente vuoi fare l’attore? Perché vuoi fare come tuo padre?”. Lui odiava gli attori. Diceva che era un mestiere da fannulloni. Peraltro lui è l’unico regista ad aver diretto papà, nello splendido Il Generale Della Rovere, e me!
I registi italiani tendono a odiare un po’ gli attori?
No, non tutti. Adesso ho lavorato con Paolo Virzì, in Un altro ferragosto, dovrebbe uscire il 10 marzo. Faccio il compagno di Sabrina Ferilli, e lì ci sono tanti bravi attori in una commedia bella e amarissima. Lui è un piacere vederlo lavorare, aveva tanti talenti diversi per caratteri e qualità come Silvio Orlando, Laura Morante, Vinicio Marchioni e tanti altri, ma sapeva trattarci tutti sul set, ha un’ipersensibilità pazzesca per la recitazione. Non lo freghi: se vai di mestiere o per stereotipi, ti becca subito.
Ci racconta il suo personaggio nel sequel più atteso del cinema italiano?
Mi ha fatto fare un disgraziato, un morto de fame, io e Sabrina Ferilli siamo un imbroglione e una poveraccia, è un film molto amaro sulla morte, ma anche divertente e cattivo, Paolo per me rimane l’unico vero erede degli Scola e degli Age e Scarpelli, scrive meravigliosamente, la sceneggiatura che ha scritto con Francesco Bruni è un gioiello.
Il rapporto con lui è stato meraviglioso. E pure Eros Puglielli, che mi ha diretto in Gigolò per caso, è uno che con gli attori ci sa fare parecchio.
Lì io e Sermonti siamo padre e figlio, faccio un vecchio gigolò a cui viene un infarto e obbliga il figlio a sostituirlo nel fare le marchette, per non perdere il parco clienti. C’è un cast meraviglioso: Sandra Milo, Stefania Sandrelli che fa la mia ex moglie, Virginia Raffaele, Ambra Angiolini, Asia Argento, Isabella Ferrari, Gloria Guida, una roba che non si può immaginare quando sono tutte insieme.
Infine ho finito da poco un film a Minorca con Angela Finocchiaro, Claudio Colica e Darma Mangio Woods, gli ultimi due fanno i miei figli: è il sequel di Natale a tutti i costi, per Netflix. L’avevamo fatto così, quasi per gioco, lo scorso anno. Alla fine l’hanno tradotto in 28 lingue. Pure in ebraico, pensa, mi sono rivisto.
È stato quarto in America e terzo nel mondo, e allora abbiamo fatto questo Ricchi a tutti i costi, sempre la stessa famiglia, c’è Fioretta Mari che fa la mia socia. Mamma mia quant’era brava.
Gli attori non si prendono un po’ troppo sul serio? Lei serenamente passa dal dramma di Caterina Carone a un film di Natale, senza fare tante scene.
Io scelgo quello che mi interessa, mi piace e mi diverte. E molte volte ho rinunciato a delle cose pazzesche. Per una sorta di istinto, di intuito, che mi ha regalato parecchie soddisfazioni. E altre volte invece mi è andata male, ma quasi mai per colpa mia.
Qualche esempio?
All’inizio della carriera Carol Levi, la mia agente alla William Morris, mi disse “Christian, ti danno 14 milioni di lire, per stare in un film che si chiama Il Conte Tacchia, con Vittorio Gassman e Enrico Montesano. E poi c’è un altro filmetto di Carlo ed Enrico Vanzina, si chiama Sapore di Mare, lì ti danno solo 600 mila lire. Devi scegliere, girano nello stesso periodo”.
E io “Carol, faccio il secondo”.
Lei rimane di sasso, poi mi chiede come faccio a rinunciare a 14 milioni, soprattutto perché non navigavo nell’oro, anzi. E io le dico “Carol, lì sento puzza di successo”. Avevo ragione.
Altre volte, invece, ho sofferto. Peppuccio Tornatore scrisse per me L’uomo delle stelle, ma io ero a Rio de Janeiro per Natale a Rio e Aurelio De Laurentiis non mi lasciò andare. Con lui facevo questi contratti da 5 film e mi teneva in questa gabbia dorata, che amavo, ma che a volte mi stava stretta.
Stessa cosa per Carlo, mio cognato, Carlo Verdone: non sai quante volte gli abbiamo detto di farci fare un film insieme, ma a lui conveniva troppo che ne facessimo ognuno uno, incassava il doppio. Poi dopo il giorno di set su Vita da Carlo 2, dove sono andato gratis a citare il nostro famoso balletto al collegio in Borotalco m’ha detto “Christian, ma lo sai che siete una bomba insieme? Fai la terza stagione!”. E io “che cazzo t’avevamo detto, e no che non lo faccio. Ora così è troppo facile. Facci fare I cognati, Aurelio, un piccolo film, io e lui che rimaniamo a Roma mentre le mogli vanno in vacanza, una commedia picaresca sulle nostre disavventure amorose, su due ragazzi invecchiati che vanno a rimorchiare”.
A me Carlo piace sempre tanto, anche ora che è diventato più malinconico, ha un senso dell’umorismo straordinario, pure un po’ cattivo. Mi fa sempre ridere, pure dopo decenni.
A proposito di coppie, la ricordo sempre in The Tourist: in sei minuti surclassa Johnny Depp. Sembrava Best con Crujff in Olanda-Irlanda del Nord: prende il pallone ma invece di andare verso la porta avversaria, va a fargli il tunnel in mezzo al campo. Poi si gira e gli fa “tu sei il migliore solo perché io non avevo tempo”.
Guarda, ho un ricordo meraviglioso di quei momenti. Non tanto di Angelina Jolie che tra famiglia, entourage, bambini aveva un codazzo di una dozzina di persone ed era molto “Hollywood”, molto diva, tutta guardie del corpo e poca spontaneità, ma proprio di lui, di Depp. Allo stop, al cambio luci scendevamo sul sagrato della chiesa a fumare una sigaretta e si apriva con confidenze inaspettate, mi diceva quanto gli stesse stretta Hollywood, che voleva andarsene via, che era ancora schiacciato dal ricordo della morte per overdose del suo migliore amico, River Phoenix, al Viper Room, questo locale dove andavano tutti e in cui lui ha avuto quote importanti per più di dieci anni.
Un ragazzo generoso, umile, gentile: il mio inglese è quello che è e lui mi aiutava, mi dava di gomito per darmi la battuta, sono quelle piccole accortezze da cui vedi se uno è vero o no.
Ma a lei di andare fuori dall’Italia non è mai venuta voglia?
Mi ricordo quando tanti anni fa, insieme a Marco Risi, tutti e due 24enni, andammo a Hollywood per fare una serie per Domenica In di grandi interviste. Ci aiutò Tilde Corsi, mia cognata, ora produttrice ma allora ufficio stampa della Fox, che ci prese molti appuntamenti pazzeschi.
Ricordo che raggiungemmo Steven Spielberg negli studios in cui stava missando Incontri ravvicinati del terzo tipo e mi confessò che l’idea di E.T. che vola sulla bicicletta l’aveva presa da Miracolo a Milano e che Duel nasceva da una visione de Il sorpasso del papà di Marco, Dino, che lo aveva ispirato.
E poi intervistammo il fratello di Roldolfo Valentino, John Cassavetes, tutti i comici pià importanti come Mel Brooks, Gene Wilder, Marty Feldman, fu una cosa incredibile. Mi ricordo che non c’era una lira, perché per non passare per il consiglio di amministrazione andavamo a fare questa cosa con 49 milioni, perché se erano 50 serviva, appunto, l’approvazione dei piani alti.
La Rai nelle sue teche dovrebbe ancora avere testimonianza di questi incontri clamorosi.
Lei e Marco Risi, la strana coppia di figli di papà
Marco è un talento pazzesco e pochi si ricordano che ha un tocco speciale per la commedia, ricordi i primi film con Jerry Cala? L’hanno fregato le buone compagnie, le compagne intellettuali e amici che l’hanno portato solo verso il cinema d’autore, e da Il muro di gomma a Fortapasc ha fatto cose bellissime. Ma cosa erano Vado a vivere da solo o L’ultimo capodanno?
Torniamo a Los Angeles. Come ci riusciste a fare quei miracoli con fondi così limitati?
Ci trovarono un albergo ridicolo e quando chiamavamo e ci chiedevano dove stavamo, attaccavano, pensavano fossimo dei millantatori, ti pare che la tv pubblica italiana faceva andare una sua troupe e i figli di De Sica e Risi in quella stamberga?
Così ci trasferimmo tutti, noi e la troupe, in un’unica camera dell’hotel più lussuoso della città, dormivamo uno attaccato all’altro, ma così recuperammo la nostra credibilità.
E non ne ha approfittato per rimanere?
Che ti devo dire, io sono pure innamorato di Broadway che è il paradiso per i saltimbanchi come me, ma non vedevamo l’ora di tornare in Italia, perché lì la vita è bestiale. Poi, pensa il destino, mio figlio Brando ci ha vissuto quasi 9 anni, ha studiato cinema con professori come David Lynch e Steven Spielberg, ho avuto pure una casa a Los Angeles a Brando, gli avrebbero dato anche la green card ma poi si è innamorato di una ragazza italiana ed è tornato in Italia.
A mia moglie Silvia di quel paese piace tutto, io trovo gli Stati Uniti terribili, o almeno lo erano quando ci sono andato io 40 anni fa, non c’era niente, noi gli abbiamo insegnato come si mangia, che macchine comprare, il lusso: erano dei trogloditi, c’era soltanto Jack in the Box, McDonald’s e poi un ristorante che si chiamava Perch, una cafonata terribile. Adesso puoi trovare ovunque pure la bufala di Battipaglia.
Erano gli anni ’80, quelli del successo clamoroso, in cui lei entra nell’immaginario collettivo. E non esce più, visto che persino Damiano dei Maneskin imita il suo Tony Brando
Zitto, va, ho fatto pure un post sui social. Ma ci ho scherzato, mica siamo gli unici ad aver avuto il culo di fuori in pubblico. Sì, sono stati anni incredibili, anche perché vanno, per me, da Sapore di Mare a Compagni di scuola, film diversi, ma tutti che hanno saputo raccontare l’Italia. Quell’Italia, interessante e assurda.
Che poi io giro l’antenato di Sapore di mare, nel 1979 sono nel cast di Liquirizia, con un grande Cannavale, Teo Teocoli, Giancarlo Magalli nudo e dipinto d’oro come Goldfinger, c’erano cose assurde in quel film del bravissimo Salvatore Samperi, con cui ho lavorato tre volte. Avevamo un bel rapporto, era un uomo simpatico e di talento. E con uno stile un po’ estremo anticipò alcuni dei temi dei due film dei Vanzina.
Tornando alle occasioni perse. Sbaglio o intuisco che ce ne sono altre?
Eh sì. Giravo a Parigi A almost perfect affair, Un amore perfetto o quasi di Michael Ritchie, con Monica Vitti, Keith Carradine e Raf Vallone. Si girava a Cannes, durante il festival, io interpretavo una specie di Vittorio Cecchi Gori mentre Monica Vitti si innamorava di questo giovane regista americano, interpretato da Carradine.
E che successe?
I giornalieri li mandavano a Paramount, a Hollywood, io neanche lo sapevo. Mentre stavamo girando a Parigi, una sera mi chiama al telefono il presidente di Paramount e mi fa “abbiamo visto il tuo lavoro e abbiamo deciso di darti una grande possibilità, sarai il coprotagonista con John Travolta di The Godfather“.
Il padrino, il terzo capitolo, volevano farlo tutti gli attori del mondo.
Io non ho dormito una settimana. Poi, la notizia che mi gela: Travolta, di cui sarei stato il cugino, decide di fare Urban Cowboy. Non ci posso pensare. Per lui e per me!
Poi il film si fece dieci anni dopo, andò male a tutti. Immagino già voi due ballare uccidendo tutti gli appartenenti delle cosche avversarie, Il padrino versione musical, coppola e completo bianco, musiche dei Bei Gees. Nient’altro da Hollywood?
Un’altra volta mi avevano offerto Nine, con Sophia Loren. Dovevo fare un personaggio bellissimo. Incontrai il regista, Rob Marshall con Harvey Weinstein, in un albergo romano. Il regista mi dice che dovrò interpretare il portiere – “hai quattro numeri musicali, quindi devi stare un mese prima di girare a Londra per fare le prove” – e già sapevo di non potere, che sarei stato in India.
E poi il più clamoroso, Fellini. Sempre Tilde, lavorava per Federico, mi chiama, me lo passa e lui mi dice, così a bruciapelo, “sarai Casanova per me”. Giacomo Casanova, capisci? Ci vediamo ogni sera a cena da Cesarina, mi fa vedere il primo copione e dentro c’era la mia fotografia, comincio a dimagrire per il ruolo. Poi De Laurentiis, questa volta Dino, mi stronca: “è troppo ragazzino per farlo, non se ne fa nulla”. E prendono Donald Sutherland.
Ancora mi ricordo Fellini che mi chiama e mi dice “mi dispiace tanto Christian, lo sai che io volevo te ma hanno voluto prendere questa mazzancolla, non hanno sentito ragioni”.
Sarà per questo che Fellini lo ha maltrattato su quel set?
Non lo so, so che gli attori statunitensi sono tremendi, se cambi loro una battuta devi riscriverla su una pagina di un altro colore rispetto allo script, e solo dopo espressa approvazione. Da noi si cambiano scene e dialoghi anche pochi minuti prima del ciak. Ricordo le sei puntate che ho fatto di Mozart in the Jungle, c’era Malcom McDowell nel cast, pure Bernadette Peters e il regista era Roman Coppola: per ogni modifica si faceva una riunione.
Sono bravissimi tutti a Hollywood, ma non si muovono, sono come nella vita, prendono i binari che si sono costruiti e non deragliano mai. Nel bene e nel male, non c’è un guizzo. Mamma mia quante me ne sono capitate, io ho fatto 110 film, mi sembra incredibile solo dire questo numero.
Tornando indietro, non si pente di quei contratti a lungo termine firmati con Aurelio De Laurentiis?
Ma no, lui è così, è la scuola di Dino, se un attore è vincente devi osservare la regola del 5. Cinque anni, cinque film. E sempre con i guadagni a crescere, poca roba per il primo, tanti soldi per il quinto.
A un certo punto ho detto basta e all’ultimo contratto lui voleva almeno un impegno su tre film e io ho detto che ne avremmo fatto solo uno. Detto questo, se a lui non vai bene, se non lo fai guadagnare il modo di strappare il contratto lo trova, eh. Ma non mi pento, mi sono tanto divertito e se è vero che ho perso qualche occasione è anche giusto riconoscere che sono la fama, il successo, l’amore del pubblico nati da quei cinepanettoni e affini che mi hanno messo in luce.
E poi ancora oggi alla mia età ho un pubblico di ragazzini, altri miei colleghi coetanei hanno uno zoccolo duro di quarantenni, io ho i diciottenni che mi chiedono i selfie, sono i miei fan più appassionati. Certo, forse non andranno a vedere I limoni d’inverno, ma questo per me vuol dire molto.
Non ce l’ha con Aurelio quindi?
Ma no, è il più grande produttore d’Italia, io non ho mai visto lavorare tanto un produttore quanto Aurelio.
Quando dovevamo lanciare un film veniva lui a riprenderci con la macchina da presa per fare i prossimamente, mi ricordo di SPQR: noi con le bighe in mezzo alla strada e Aurelio con la macchina da presa appresso a noi, oppure io in motoscafo con un’attrice e Boldi che andavamo verso le isole di Saint-Tropez al largo e lui sopra con l’elicottero e il megafono che urla “tornate indietro, vi state allontanando troppo!”.
Bei ricordi, le manca anche Massimo Boldi?
Ma sì, ho la fortuna di ricordare dopo un po’ solo le cose belle. Sai che in quest’ultimo periodo Massimo mi chiama per convincermi a fare Yuppies 3, magari proprio con Aurelio? Non lo so, vedremo.
Proprio da Yuppies nasce la coppia Boldi-De Sica?
Altroché: il pubblico impazzisce, la critica ci massacra. Però Tullio Kezich ci paragona a Totò e Peppino. E dire che per mettermi nel cast si impuntò Carlo Vanzina, non mi volevano: lì nasce la coppia, ma anche il meccanismo narrativo dei due fedifraghi cialtroni e goffi.
Passiamo agli anni ’90. Sei film da regista in sette anni. Le manca?
Sì, i progetti sono tanti. Ho da decenni nel cassetto una splendida sceneggiatura scritta con Graziana Diana sull’inizio del rapporto tra mio padre e mia madre, quando lui si chiuse nella basilica di San Paolo per girare La porta del cielo e così salvare 300 ebrei (c’è chi dice 800, peraltro si racconta di monaci scandalizzati dal bivacco di comparse e tecnici dentro la basilica, perché De Sica, sapendo che potevano esserci rastrellamenti, li – e si – chiudeva dentro a chiave alla fine della giornata di set – ndr)
È una storia bellissima ma non sono riuscito a montarla: ci ha provato Marco Cohen prima, Harvey Weinstein poi, pure il povero Bixio. Mi hanno tolto il sogno di interpretare papà, che allora aveva 40 anni, ma vorrei girarlo almeno come regista.
E chi farebbe Vittorio?
Sai chi mi piacerebbe e penso sarebbe perfetto? Jean Dujardin.
E gli altri progetti?
Un romanzo che ho portato a Marco Belardi, I fannulloni di Marco Lodoli. Lì farei anche l’attore perché c’è un uomo della mia età e un ragazzo di colore che vende occhiali alla stazione che diventano amici. E quest’ultimo fa vivere le tante esperienze che l’altro si è negato nella vita. Così lui va a boxare e io divento il suo manager, canta in una discoteca e io sono il suo impresario. E così via. Poi si scopre che quel ragazzo è la morte, che deve portarlo via, ma non prima di fargli un ultimo regalo.
Eppure lei ha avuto i suoi successi al botteghino pure dietro la macchina da presa e queste sembrano storie da grande pubblico
Guarda, la verità è che mi fanno pagare un certo tipo di carriera. Hai ragione sui risultati, con Faccione, lanciai Nadia Rinaldi e misi d’accordo per una volta pubblico e critica, Uomini Uomini Uomini che era la prodotto da Aurelio – anche se non lo voleva fare all’ultimo momento, per poi complimentarsi e ammettere che avevo ragione – è un’opera costata 750 milioni di lire e al box office alla fine ha totalizzato 7 miliardi e mezzo: è arrivato in America, in Spagna, abbiamo vinto un premio in Francia, si parlava per la prima volta esplicitamente di omosessualità nel cinema italiano, senza vizietti o stereotipi, ma con una sorta di Amici miei gay, di uomini che avevano preso il toro per le corna, che non si nascondevano o travestivano, che affermavano orgogliosamente la loro identità, normalità, persino la loro libertà di essere stronzi.
Erano dei figli di puttana, rivendicavano il loro modo di vivere, il loro essere in maniera violenta. Poi ho (ri)fatto Il Conte Max, anche quello molto amato
Confesso una passione condivisa da pochi per Tre
Direi che non è condivisa neanche da me. È stato un film sballato perché me lo fece sbagliare un po’ il produttore. Volevo fare un film estremamente erotico con una storia d’amore drammatica, ma lui insistette per metterci anche un po’ di farsa e grottesco facendo stonare il film, cambiandone la cifra stilistica.
I tuoi colleghi critici mi ammazzarono, anche se ammetto che ne stimo davvero pochi. Per Ricky e Barabba, con Renato Pozzetto, che andò bene in sala e che tuttora per tantissimi è un cult, il critico di allora di Panorama scrisse invece del titolo Cacca e Merda. Inaccettabile. Lo chiamai e lui mi disse “ma io scrivo male di tutti i film che vanno bene, è la mia regola”. Capisci che è una categoria che mi lascia spesso perplesso.
Un’altra cosa che l’accomuna a suo padre
Lui non leggeva le critiche, ma lui era estremo, neanche gli Oscar è andato a ritirare, io ne ho uno perché mi hanno regalato quello di Ladri di biciclette quando sono andato lì. Non lo faceva per snobismo, è che proprio non si sentiva a suo agio a frequentare quei posto e credo che lo facesse anche per non farsene condizionare, non andare lo aiutava a mantenere la sua dimensione. Ne ha visti di attori andarci e perdersi, a Hollywood.
Ne ha vinti quattro, ma son rimasti lì. Però era pure quello che per goliardia e un po’ d’orgoglio a casa di Roberto Rosselini vide la serata degli Oscar con Nanni Loy candidato per Le quattro giornate di Napoli – che aveva pure elogiato a modo suo, dicendo che era contento che un film così bello non fosse stato fatto da un intellettuale, un complimento feroce dei suoi – e alla fine i due esultano come pazzi quando vince il francese e perde il collega, con tanto di salti e espressioni colorite e gesti dell’ombrello. Ero basito.
Torniamo ai suoi film da regista
Cosa è rimasto? Ah sì, The Clan che come tutti i musical in Italia al cinema vanno male (e a teatro bene), e poi Simpatici e Antipatici, che raccontava un microcosmo feroce di una certa alta borghesia romana e che fu ritirato in fretta e furia dopo la prima settimana, in cui aveva incassato bene. Fu tolto dalle sale perché il personaggio di Gianfranco Funari somigliava troppo a Cesare Previti. E io ero distribuito Medusa e prodotto da Valsecchi, che mi chiamava tutti i giorni in preda al panico. Il film è praticamente sparito.
Avevano ragione?
Figurati. L’avevo scritto pensando a Caltagirone, il palazzinaro, a Previti non c’ho mai pensato! Però, in effetti, a rivederlo un po’ lo ricordava.
C’era del pregiudizio perché era lei il regista?
Ma certo: in questo paese e soprattutto a Roma tutto è politica, tante teste di cazzo dicevano che io ero un fascista perché facevo quei personaggi lì. Peccato che io sono un attore, è il mio mestiere diventare altro da me. Ormai però l’etichetta era quella: De Sica di destra, Amendola attore di sinistra. Stereotipi, pigri per altro. E così rimango vittima di censura e nessuno da sinistra mi difende. Eppure avrebbero dovuto, no? Con altri lo avrebbero fatto.
Lei però alla fine se n’è sempre fregato
Perché so meglio di altri chi sono coloro che vanno a vedere i film. Non è scontato ora che facciamo tante opere per le piattaforme non c’è più questa lezione di cinema che è l’andare in sala.
Ogni film che facevo, io andavo agli ultimi spettacoli, mi mettevo lì in incognito e studiavo dove la gente rideva, dove rimaneva perplessa e lì capivi tutti i tuoi errori.
Le anteprime, le proiezioni private sono tutte finte, ridono per niente, sono tutti ruffiani, quando invece stai in mezzo al pubblico pagante hai in regalo la più grande lezione di recitazione che può ricevere uno che fa il mio mestiere. Se la parabola dei cinepanettoni è stata così fortunata, lo dobbiamo sicuramente anche a questo, io non ho mai voluto autoisolarmi. Ancora oggi alla mia età vado in giro con la moto e sto per strada perché per fare soprattutto la commedia devi stare in mezzo alla gente.
Però qui fuori vedo una splendida Ferrari scura.
Che ha almeno 15 anni, un residuo di passate agiatezze (sorride). Ora non la muovo neanche che di benzina mi costerebbe quanto la casa. Comunque, se tu ti chiudi al mondo sei finito. È un errore che fecero i grandi attori tipo Gassman e Sordi che quando hanno fatto i soldi e hanno avuto successo si sono chiusi nelle loro ville, nelle loro case e hanno frequentato sempre una corte dei miracoli.
Ricordo che papà lo disse a Luchino Visconti, “Luchì, tu fai Teorema, io Il giardino dei Finzi Contini, che tanto ormai il presente non lo conosciamo più, chiudiamoci nel passato e facciamo bei film su quello”. Aveva ragione Zavattini, bisogna prendere l’autobus. E cercare la compagnia delle nuove generazioni.
Con un altro settantenne di che parlo? Medicine, tasse, rotture di coglioni? Io voglio sapere cosa ascoltano i ragazzi, cosa vedono, voglio ascoltare cosa pensano e dicono.
Dei giovani colleghi chi le piace?
Checco Zalone mi piace molto, mi fa ridere ed è colto, intelligente, un jazzista come me, ne riconosco tutte le citazioni musicali, spesso lui mette pezzi di colonne solare di Piero Piccioni e io le sgamo subito.
Mai pensato a fare qualcosa insieme?
No, ci siamo incontrati, parlati e piaciuti, ma lui è così forte che non ha bisogno di nessuno.
E Alessandro Siani? Il suo personaggio de Il principe abusivo è un altro di quelli troppo sottovalutati, elegantissimo e molto divertente
Fu un successo talmente grande che poi l’abbiamo fatto a teatro per due anni. A Napoli abbiamo totalizzato 65.000 spettatori, a Milano abbiamo fatto il Forum d’Assago, sentire ridere tutte quelle persone non era mai capitato neanche a me, una sensazione incredibile. È stato un bel rapporto, nato dal fatto che l’avevo chiamato perché volevo rifare Quasi Amici in Italia, lui avrebbe fatto il ladro napoletano e io l’aristocratico antipatico e malato.
Poi però arrivò in Italia il film francese, fu un successo clamoroso e non se ne fece più nulla, ma da quell’incontro, da quell’ispirazione nacque Il principe abusivo. L’ultimo film fatto insieme, Chi ha incastrato Babbo Natale? mi ha convinto a interpretarlo suo figlio piccolo, che adorava noi due insieme sul set, ma avevo capito sin dalla lettura che non funzionava. E avevo ragione.
Il cognome De Sica è stato un peso o un aiuto?
Entrambi. Io mi ricordo bene quando muore papà e tutti spariscono. Sono pieno di debiti e quella folla che blandiva lui e la mia famiglia scompare d’incanto.
Ero un 23enne cicciottello, anzi ciccione, vado dai produttori che mi rinbalzano, perché quello sapevo fare, recitare. Mio padre mi ha avuto vecchio, quindi non è che poteva giocare a pallone con me quand’ero piccolo e allora prendeva me e Manuel e ci faceva fare degli spettacoli per i suoi amici.
Affittava delle sedie, le metteva in salotto, arrivavano Paolo Stoppa, nomi così e noi recitavamo, con lui severissimo nelle prove che pretendeva la perfezione. E le piéce avevano nomi fantastici e terribili tipo “Cittadini che protestano” o “Suicidi”. Poi diceva che non ci voleva attori e io gli facevo “papà ma davvero fai, ma hai presente come ci hai cresciuto?”.
Mi aiutò, allora, solo Peppino Di Filippo che mi disse che c’era un posto nella sua compagnia teatrale e se volevo venire a fare l’attor giovane. Non mi ha aiutato Ponti, non mi hanno aiutato Dino De Laurentiis o Mario Cecchi Gori, che aveva pure fatto l’autista per mio padre. Mario Monicelli era il segretario di mia mamma ma non mi offrì neanche una piccola parte. A loro ricordavo quando ancora mangiavano la polvere, probabilmente.
Al cinema fu Carlo Vanzina a darmi una mano, con Viulentemente mia: mi aveva offerto la parte di un playboy, io gli dissi “dammi quel gay esagerato, spagnolo, pettinato e vestito in modo assurdo”. Lui era stranito, erano pure meno pose, ma accettò.
Fu la mia fortuna, lì uscì il il mio estro, la mia capacità di destrutturare la mia maschera borghese. Dovevo, non c’erano mica cineasti aristocratici in Italia, di Luchino Visconti ce n’era stato uno e per di più non faceva commedie, così ho dovuto imparare i dialetti. In Sapore di Mare per rendere credibile l’essere il fratello di Jerry Calà con il fisico da Gassman che mi ritrovavo, mi mettevo i turaccioli nel naso.
E ora fare, trovare il suo Oltre il giardino le piacerebbe?
Magari con Sorrentino o Garrone che mi piacciono tanto. Paolo Sorrentino in fondo ha già conosciuto la famiglia con Carlo e mi sembra sia rimasto soddisfatto. Citi, comunque, un film che amo e un attore incredibile. L’ho conosciuto bene Peter Sellers: era simpatico, intelligente, non bello ma un genio. Soffriva tantissimo che lo considerassero solo un comico, eppure mio padre mi ha sempre detto che per lui era stato molto più difficile fare il maresciallo Carotenuto, la farsa, che Ladri di biciclette.
Che poi senza mia mamma non sarebbe mai passato dietro la macchina da presa. Gli disse “fai il regista, che vuoi finire a fare l’attore anziano, che non sa quando smettere o ancora peggio non può? Prova a fare il regista, allungati la carriera. Vuoi fare la fine di Nino Besozzi?”. Lui non voleva, diceva che lo stava rovinando.
Donne straordinarie, un classico della vostra famiglia.
(Entra Silvia Verdone, prende qualcosa, saluta e scappa via. Lui la guarda rapito, come un ragazzo, un adolescente innamorato. Si ricompone subito, ma gli rimane il sorriso sulle labbra). Senza Silvia non varrei nulla, io. Lei mi ha convinto a fare teatro, lei mi spinge a fare le scelte più audaci.
Ricordo quando Garinei mi propose Alleluja brava gente, quello con Rascel e Proietti. Mi presentano Modugno, che nel primo aveva fatto le musiche e io metto in chiaro che non farò alcune cose che chiedevano, come parlare in siciliano. Sarei sembrato Celentano che fa Rugantino.
Mi fanno firmare e poi si rimangiano tutto. “Il cavallo vincente non si cambia, rimane tutto così” dicono. Parlo con Silvia che capisce e mi dice di mollarli, pago la penale, 20 milioni, e chiamo Massimo Ghini chiedendo di prendere il mio posto, di salvarmi.
Io vado con un piccolo impresario, Enzo Sanny, e facciamo Tributo a George Gershwin – Un americano a Parigi. Tutti mi dicevano che sarebbe stato un disastro, un flop, poi uno spettacolo in cui si cantava in inglese, figurati, a Roma chi l’avrebbe capito?
Tutti lo dicevano, tranne Silvia. Bene, ho battuto tutti i record di incassi e di presenza, mentre Alleluja brava gente ci guardava da lontano.
È la lezione di Alberto Sordi che un giorno mi disse “voi fà sto lavoro? E allora bacia e abbraccia tutti, ma fai come cazzo te pare, perché tanto quando hai successo tutti vengono in tuo soccorso e nun te servono ma quando cadi in disgrazia e hai bisogno de ‘na mano spariscono”.
Non ha ascoltato i consigli di nessuno?
Di papà sì. Mi diceva sempre “parla come le persone che ti guardano, non cercare la dizione perfetta, ti rovina. Vai dai grandi maestri, ti tolgono i difetti, ti fanno recitare come Vittorio Gassman e Valeria Moriconi, ma non sei nessuno di loro due e diventi ridicolo. Vai a fare il doppiatore”. E io l’ho fatto, con gli Izzo, Oreste Lionello, Ferruccio Amendola, ho imparato negli studi di doppiaggio a fare questo mestiere.
Dovrebbe farne un film di tutti questi racconti.
Ora è uscito un altro libro autobiografico, dopo Figlio di Papà (ed. Mondadori), questa volta per Sperling & Kupfer. Si chiama Due o tre cose che mi sono capitate. E poi l’ho messi insieme nel mio ultimo spettacolo teatrale, con Pino Strabioli e un’orchestra, Una serata tra amici. Racconto tutto, anche di quando incontrai Charlie Chaplin.
Cosa le piacerebbe dicesse uno spettatore di lei dopo aver visto I limoni d’inverno?
Che è un bel film, perché eccellere come attore in un film mediocre, ti assicuro, non dà alcuna soddisfazione. Poi il pubblico può e deve dire quello che vuole, so che qualsiasi sua considerazione mi sarà utile, il pubblico è sacro. Spero che possano apprezzarmi in un ruolo drammatico, serio. E anche dolce. Mi piacerebbe farne altri di questi personaggi, anche perché continuo a dire che sono più facili, fosse solo perché mi assomigliano di più.
Alla fine non mi lamento, sono fortunato, qualche volta ho potuto mostrare anche l’altra faccia delle mie capacità espressive e attoriali. Se penso a grandissimi come Lino Banfi o Leo Gullotta, che hanno un talento immenso e sono riusciti a farlo molto meno, mi ritengo fortunato.
Lei si ritiene fortunato?
Sì, eccome. Ma ho cercato anche sempre di meritarmela questa fortuna.
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