Come Pierfrancesco Favino è uscito dal gruppo (diventando una star)

La carriera da solista non sembrava fare per lui. Eppure la stella dell'attore ha cominciato a brillare quando ha smesso con i film corali e ha cominciato a fare da solo. Sempre meglio

E finalmente, dopo trent’anni, Picchio è uscito dal gruppo. Un allontanamento naturale e volontario, non uno strappo. Perché, per cavalcare la metafora musicale, Pierfrancesco Favino non è l’ottimo chitarrista alla Jack Frusciante, che abbandona la band all’apice. Pierfrancesco Favino è la band. Ma per arrivare al successo ha dovuto suonare il doppio degli altri.

Pierfrancesco Favino, gli esordi

Il percorso di Favino – classe 1969 – è cominciato chiudendo la porta dell’Accademia D’Arte Drammatica Silvio D’Amico e aprendo quella de Il Locale, il club erede della tradizione del Folkstudio che ebbe a Roma, a due passi da Campo De’ Fiori, la sua stagione migliore tra il 1993 e il 1998.

Favino – già allora detto Picchio: il soprannome è del padre – lavorava nello storico club di via del Fico come butta-dentro, gestendo il flusso dei clienti venuti per ascoltare la “nuova musica romana” di esordienti come Max Gazzè, Daniele Silvestri e Niccolò Fabi. Fondato da un chitarrista (Giorgio Baldi), un attore (Alberto Molinari) e un produttore (Andrea Marotti), Il Locale nacque con una doppia anima, musicale e cinematografica, e diventò rapidamente il punto di riferimento di un’intera generazione di amici-artisti.

Impegnato a ritagliarsi uno spazio nelle retrovie dell’audiovisivo, che negli anni Novanta sembrava esaurire il casting generazionale in un arco compreso tra i vent’anni di Kim Rossi Stuart e i trenta di Enrico Lo Verso, il “gruppo” (tra i tanti: Valerio Mastandrea, Paola Cortellesi, Max Bruno, Francesco Apolloni, Raffaele Vannoli) si faceva le ossa nei teatri “off off” della Capitale, fra cui lo storico Il Colosseo, e finiva a far nottata davanti alle porte de Il Locale.

Là, ricorda Francesco Apolloni, “ti ritrovavi con un ragazzo di 26 anni, Picchio, che ti sapeva fare tutte le imitazioni possibili, anche il dialetto dei sobborghi a nord di Londra. Era un fenomeno. Era diverso dagli altri e lo sapevamo tutti». Ma la macchina da presa, uno come Favino, «non lo ama da subito. Quella faccia dura e squadrata lo ha costretto a fare il quadruplo salto mortale in carriera. I produttori dicevano: è bravo, ma non ha il fisico per fare il protagonista. Per me era come vedere Maradona e non farlo giocare”.

Il primo ruolo in un film corale

Sarà proprio Apolloni, nel suo film d’esordio del 2000 La verità vi prego sull’amore, ad assegnare a Favino il primo ruolo in un film corale, quello di Michelangelo, un ragazzo napoletano segretamente ammalato di cancro.

Era un film che nasceva dall’omonimo successo teatrale di Apolloni (la pièce passò in fretta dai 300 posti de Il Colosseo ai 2000 del Brancaccio), realizzato con un mix di attori dell’Accademia e di amici de Il Locale, tra cui lo stesso Molinari: “Selezionai un gruppo di attori che erano anche amici, ma che secondo me meritavano. Mino Barbera e Gianfranco Piccioli, lo scopritore di Francesco Nuti, mi proposero di farci un film. Avrei voluto richiamare tutti gli attori che avevo già portato a teatro, ma in tre anni Francesco Venditti era cresciuto di costituzione, e Paolo Sassanelli aveva degli impegni inderogabili in tv. A due settimane dall’inizio delle riprese scelsi, per rimpiazzarlo, proprio Favino. Il mio produttore si oppose. Alla fine, dopo sei provini, dovette ricredersi: era perfetto”.

Quello di Michelangelo nel film di Apolloni è un personaggio in cui compaiono già tutte le caratteristiche del primo Favino “corale”, interno al gruppo (affidabile, rigoroso) ma allo stesso tempo esterno, non omologato (è Michelangelo che abbandona la serata con gli amici per incontrarsi con la ragazza giapponese). Caratteristiche che l’anno successivo torneranno anche nel suo Biccio di Da 0 a 10 di Luciano Ligabue (2001): qui Favino è medico – punto di riferimento per Libero – e omosessuale single desideroso di “mettere la testa a posto” e costruirsi una famiglia, a differenza dei suoi amici. Il virtuosismo dell’attore, la fluidità con cui maneggia l’accento romagnolo e il trasformismo en travesti, sono decorazione barocca in una storia che ha il suo centro altrove, in Giove/Stefano Pesce, alter ego del regista, e nella figura tragica di Libero/Massimo Bellinzoni.

Il Calimero de L’ultimo bacio

La posizione “in fondo al gruppo”, come lui stesso la definì in un’intervista di molto successiva, è la stessa che Favino occupa ne L’ultimo bacio, il film che più di ogni altro, a cavallo del millennio, inquadrava quella generazione di attori in cerca d’autore che Gabriele Muccino imparò a conoscere frequentando il circuito teatrale underground della Capitale.

Qui la luce è tutta per Stefano Accorsi, il tormentato Carlo in preda a una crisi pre-paternità, mentre Favino è Marco, amico di tutti (interno al gruppo) che si sposa a inizio film, venendo preso in giro dal resto della banda (non omologato). “Sfido chiunque a ricordarsi che ruolo facessi ne L’ultimo bacio – ha detto Favino in un’intervista – Loro erano protagonisti, io avevo sì e no dieci giorni di riprese. Mi sentivo Calimero: quello fuori dal gruppo che doveva fare amicizia a ogni costo”. Il tempo gli avrebbe restituito il conto, con gli interessi.

Del 2002 è El Alamein – La linea del fuoco, il primo film corale a mettere Favino nella posizione a lui più congeniale: quella del leader. Picchio è il sergente Rizzo, eroico combattente fedelissimo del tenente Fiore/Emilio Solfrizzi, che entra in campo nei primi minuti del film infilandosi con nonchalance l’orecchio di un commilitone, appena saltato in aria, nel taschino: pochi altri attori avrebbero saputo reggere una scena simile senza risultare tragicamente sopra le righe. La camera, anche qui, si innamora però degli altri: di Luciano Scarpa, il bel soldato Spagna dagli occhi di ghiaccio, di Paolo Briguglia il giovane, di Thomas Trabacchi il caporale matto. Ma è il sergente Rizzo, una spanna sopra a tutti, ad aprire e chiudere il film, l’unico a dire che il re è nudo (“Ci mandano a crepare, Signor Tenente”), punto di riferimento maschio e solido nel caos della guerra.

Romanzo Criminale è la svolta di Favino

Segue una parentesi in Passato prossimo, esordio di Maria Sole Tognazzi, che per il primo film da regista sceglie di mettere insieme una compagine rassicurante di amici e parenti (nel gruppo anche il fratello Gianmarco).

Qui Favino regredisce in posizione marginale, nei panni di Filippo, un veterinario con lo stesso nome del cane della sua cliente Valentina Cervi, definito “uno non bello ma che piace”, che arriva tardi nella grande villa in rottamazione di Paola Cortellesi e resta inesorabilmente fuori dal gruppo. A Claudio Santamaria “il bello” – il momento di luce, in questi anni, è il suo – spetta il conflitto centrale con l’amico intellettuale interpretato da Ignazio Oliva.

Il punto di svolta arriva nel 2005, con la tragedia urbana corale di Romanzo Criminale, in cui d’incanto tutte le doti del Favino di gruppo convergono a comporre il ritratto perfetto del Libanese, capo non capo della banda della Magliana: un uomo capace di unire tutti come un vero leader, ma allo stesso tempo diverso dal branco, un personaggio la cui forza è quella di appartenere e trascendere il gruppo, carattere dominante destinato a segnare un prima e dopo nella banda. E per la prima volta da El Alamein, la faccia “facciosa” (così la definisce lui stesso) di Favino va al posto giusto, componendo uno dei ritratti più efficaci, virili e credibili del film di Placido. Da qui in poi, niente sarà più lo stesso.

Dopo Accorsi e Santamaria, insieme a Volo

La prova successiva di Favino in un film corale è in Saturno Contro di Ferzan Ozpetek, dove il suo Davide fa da contraltare – nella prima parte del film – all’Antonio di Stefano Accorsi, ormai “cristallizzato” nel ruolo del seduttore traditore.

Picchio è l’anima della tavolata ozpetekiana (“Vedere Davide insieme ai nostri amici mi fa stare bene”, dice/pensa il suo compagno Lorenzo/Luca Argentero), è responsabile, cucina bene e fa caffè per tutti. “Anche nei rapporti esistono le regole”, ammonisce nel film Antonio, che rimprovera a Davide la posizione distaccata “da capo, da artista”, in cui si sarebbe arroccato. La non omologazione al gruppo avviene qui, per la prima volta, con uno strappo violento: dopo il lutto, Davide scappa e si isola, prendendosi la scena e costringendo la banda a cercarlo, desiderarlo, riportarlo nel ventre sociale. La ricomposizione della comunità avviene nella villa in cui si è rifugiato, intorno al tavolo da ping pong: Davide contro tutti, una scena profetica per il Favino che verrà.

Se in Figli delle Stelle Favino combatte, ancora una volta, con un attore amato più di lui dalla camera (stavolta è il turno di Fabio Volo), il Picchio corale nella scrittura di Lucio Pellegrini non può prescindere dal suo nuovo status, quello di leader più o meno dichiarato del gruppo. Qui, nella parte del cameriere di Autogrill Pepe, Favino sottrae a Paolo Sassanelli/Bauer, che del colpo è artefice e del colpo sarà vittima, la centralità nella vicenda: a chiudere il film è proprio il confronto tra Pepe e il deputato Stella/Giorgio Tirabassi, che in lui aveva identificato una sponda sensibile fin dai primi giorni della prigionia.

Favino torna protagonista con Muccino

È però con Baciami ancora, ritorno di Muccino sul luogo del delitto de L’ultimo bacio, che si compie ancora una trasformazione, l’assunzione di Favino protagonista tra i protagonisti, con il suo Marco ormai allineato al disincanto e alle nevrosi dei compagni d’avventura.

“Personaggio virile per eccellenza, che porta i soldi a casa, con i cosiddetti attributi – così lo definisce Favino – Marco non è in grado di capire cosa succeda al suo matrimonio e perché stia fallendo”.

Ai margini della luce di Toni Servillo, centro de Le confessioni di Roberto Andò – in cui Favino, Ministro dell’economia, è ancora una volta outsider, unico italiano e unico a stare al gioco del frate Roberto Salus – Favino compie l’ultima trasformazione ancora con Muccino, in A casa tutti bene, film che conclude idealmente il ciclo del Picchio corale. Qui non solo Favino eredita il nome di Carlo – che fu di Accorsi ne L’ultimo bacio – ma proprio con Accorsi, nel ruolo del bel inconcludente Paolo, si confronta in più di una scena, forte della posizione di superiorità dell’uomo (apparentemente) risolto.

La camera adesso ama lui, è lui la luce che illumina gli altri, e se pure il personaggio Favino mantiene l’apparenza di regolarità (è Carlo ad accompagnare in chiesa i genitori), Muccino sceglie lui per nevrotizzarlo al massimo, al punto da fargli quasi commettere il più atroce dei delitti, l’uxoricidio (ventilato, desiderato, invocato ma mai tentato anche dal Marco di Baciami ancora). “Sto cercando di tenere tutti uniti – sbotta Carlo – Io voglio solo che siano tutti felici, porca puttana”. Ma l’unico modo per essere felici, sembra dire Muccino, è stare ognuno per conto suo. Uscire dal gruppo. Ed essere, finalmente, se stessi.

Articolo pubblicato nel 2021 su “Pagine di MoliseCinema” (Cosmo Iannone Editore) con il titolo “Picchio e i suoi fratelli. Favino attore corale”.