Trent’anni fa eravamo a Cinecittà. In realtà, qualche ora meno di trent’anni fa. Era il 2 novembre del 1993. Federico Fellini era morto due giorni prima. Il 2 novembre, giorno dei morti, si tenne la camera ardente nel Teatro 5 di Cinecittà. Chi scrive era lì, passammo tutto il giorno negli studi, per fare il nostro dovere di giornalisti.
È uno dei ricordi più forti del nostro lungo viaggio di cronisti all’interno del cinema italiano. Il Teatro 5 era vuoto: è uno spazio immenso, ed entrando da una delle estremità ci si trovava di fronte un enorme spianata transennata sui due lati. In fondo, in mezzo a due carabinieri col pennacchio rosso, c’era la bara. Sembrava minuscola, quasi inadatta a Federico, che era un omone. I pennacchi rossi dei militi erano due puntolini che spiccavano su un’enorme sfondo azzurro: la parete di fondo del Teatro 5 era stata dipinta come un cielo, identico a quello che i due “pittori” sulle transenne lavorano nella famosa scena di Intervista (“Ahò, a Ce’!” “Che voi?” “Vattela a pià ‘nder culo”… è una scena che Nanni Moretti ha rifatto quasi uguale all’inizio di Il sol dell’avvenire, un bellissimo omaggio).
Da un lato fluiva il corteo ininterrotto della gente di Roma che veniva a salutarlo. Dall’altro, c’era il percorso riservato per i vip. Era una distinzione fastidiosa, e molti degli amici di Federico lo rimarcarono. Ettore Scola, Mario Monicelli, Marcello Mastroianni e tanti altri avrebbero voluto rimanere anonimi, salutare il vecchio amico in privato, ma non era possibile. Mastroianni si arrabbiò di brutto con i fotografi che lo perseguitavano, forse immemore, o forse no, del fatto che i “paparazzi” li avevano inventati loro, in La dolce vita. Monicelli si rifiutò di dire alcunché: “Perdonatemi, ma proprio non mi va”.
Scola invece fu disponibile, e come sempre spiritoso: “L’idea di metterlo fra due carabinieri come Pinocchio è divertente, credo che gli sarebbe piaciuta” (Ettore aveva il dono miracoloso di sdrammatizzare le esequie; alla camera ardente di Dino Risi, anni dopo, avrebbe detto: “Dino non amava i funerali e infatti non è venuto neanche al suo”; infatti era una camera ardente in contumacia, la bara non c’era). Altra gente era lì, come sempre, per farsi vedere (oggi sarebbero fioccate le “storie” su Instagram): ricordiamo perfettamente il regista sovietico Sergej Bondarcuk, artista brezneviano di regime, che spacciandosi per amico intimo di Federico tenne una specie di comizio che non interessava a nessuno.
Dopo un po’, sinceramente, ci stufammo. Bisognava comunque tirar fuori un pezzo da quella passerella, e allora ci venne un’idea. Andammo dall’altra parte, dove c’era la gente vera e dove soprattutto si affollavano gli eroi anonimi del cinema: attrezzisti, elettricisti, sarte, macchinisti, comparse che grazie ai film di Fellini per anni avevano portato a casa la pagnotta, perché quando a Cinecittà arrivava lui per un film c’era lavoro per tutti. Grazie all’archivio online dell’Unità, il giornale per il quale scrivevamo, abbiamo recuperato i loro nomi. Jolanda Di Pasquale, detta “Jolandona”, sarta. Massimo De Rossi detto “Massimino”, truccatore. Nello Cappelli detto “Nellone”, attrezzista. E poi “er Gnaccheretta”, un elettricista del quale nessuno fu in grado di dirci il nome perché da anni tutti lo chiamavano così.
Ovviamente il soprannome gliel’aveva dato Fellini. Come tutti gli altri. Fellini non chiamava nessuno con il suo vero nome. Se eri appena più basso di lui diventavi “Tullietto” (Tullio Kezich), “Marcellino” (Mastroianni) e così via. Noi, le poche volte che abbiamo avuto l’onore di parlargli, eravamo “Albertino”. Se eri più alto (capitava a pochi) diventavi appunto “Nellone”, o “Ugone”, come esclamò una volta che gli portammo i saluti del critico dell’Unità Ugo Casiraghi, che era quasi 1,90.
“Nellone” era il più affranto. Recuperiamo dal pezzo di allora: “Io ho perso un compagno. Un compagno di lavoro. Era il regista, era il Maestro, ma prima di tutto era un compagno. Ti vedeva triste e subito ti chiedeva se c’erano guai in famiglia. Era la bontà fatta uomo. Ho lavorato con lui dal Satyricon in poi, ma dopo la morte di mia moglie avevo abbandonato il cinema e devo a lui se sono ritornato. Mi ero ritirato, non volevo vedere più nessuno. Lui mi ha scritto due telegrammi, per convincermi. Capito? Due telegrammi di Fellini, a me, a un attrezzista”.
Parlava con orgoglio del suo lavoro: “È un bel mestiere, può capitare di spalare la merda dei cavalli ma anche di inventare cose che restano nei film, come il pavone finto di Amarcord, che poteva anche volare, o la neve sempre in quel film, fatta grattugiando la gommapiuma”. Ma era un cinefilo, Nellone? “Un che? Nun so manco che vor di’. Io so’ un falegname, sono sempre andato poco al cinema. Non andavo nemmeno a vedere i film di Fellini. Li avevo già visti, pezzo per pezzo, mentre li faceva, o la sera in proiezione, quando mi intrufolavo nella saletta dove lui guardava i giornalieri. Maestro, posso veni’? E lui: ma che fai Nellone, chiedi il permesso? Qui a Cinecittà tu puoi fare quello che vuoi”.
Come dicevamo, la scenografia del cielo che sovrastava la bara era bellissima. L’aveva realizzata Mario Colliva, uno dei più bravi pittori di Cinecittà: 9 metri per 11, vernice lavabile, le nuvolette fatte con la pistola a spruzzo. Sergio Tiberti, capo del reparto costruzioni, ci disse che avevano lavorato tutta la notte: “Potevamo falla tutta in anticipo, sapevamo che Federico stava male, ma ce pareva de cattivo gusto”.
Ripensare trent’anni dopo a Fellini ci ha spinto a ripensare a un cinema, a una Cinecittà, a una Roma che non ci sono più. Forse anche a un’Italia che non c’è più. Quasi tutti coloro che abbiamo citati, dal Gnaccheretta a Jolandona, erano (o erano stati) iscritti alla gloriosa sezione del Pci di Cinecittà, e nel ’93 erano enormemente perplessi per quel che il Pci era diventato. Fellini se ne andò lasciandoci nel pieno della temperie di Tangentopoli, immersi in un’Italia incasinata e incarognita che pochi mesi dopo la sua morte avrebbe mandato al governo il suo “nemico” Berlusconi (nemico per la storia degli spot in tv, ma anche nemico politico, perché Fellini non era comunista, per carità, ma detestava prima di ogni cosa l’arrivismo, l’opportunismo e la volgarità).
Aveva descritto quell’Italia nei suoi ultimi film, i più amari, da Ginger e Fred a La voce della luna. In quest’ultimo film, in una scenografia che riproduceva una mega-pizzeria, i camerieri con i piatti in mano dovevano passare per una porta basculante, in stile saloon, con la faccia di Berlusconi dipinta sopra. A chi lo visitava sul set e gliene chiedeva ragione, Federico rispondeva ridendo: “Quando i camerieri devono aprirla, avendo le mani occupate gli danno un calcio nel culo”.
A tarda sera tornammo in redazione per scrivere il pezzo. A fine turno in tipografia, eravamo distrutti, ma non si poteva tornare a casa. Montammo in macchina e tornammo a Cinecittà. Era quasi notte. Il fiume di popolo che entrava negli studi era ancora turbinoso, e ininterrotto. Rifacemmo il percorso dalla parte della gente, non da quella dei giornalisti. C’erano ancora i due carabinieri, forse altri due, si erano dati il cambio – speriamo. Restammo lì un po’, a guardare i pennacchietti rossi, il cielo azzurro, e Pinocchio/Federico là sotto. Poi ci sembrò di sentire la voce di Anna Magnani in Roma: “A Federi’, va a dormi’!”. S’era fatta una certa. Addio Federico, eravamo distrutti, ma trent’anni dopo siamo ancora qui a pensarti.
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