Campo e controcampo. Finiscono tutti così i film di Damien Chazelle. Andrew Neiman e Terence Fletcher. Mia e Sebastian. Neil e Janet Shearon Armstrong. Manny e il grande schermo. Sono gli occhi il filo conduttore di una filmografia matura fin dagli inizi di questo giovane di Providence, premio Oscar per la miglior regia alla sola età di trentadue anni. Una linea che va da un personaggio ad un altro.
Una connessione di cui lo spettatore è l’occhio esterno e abbacinante, il quale contiene e mette in comunione quelle due sequenze che convergono nel finale. Comunicare senza le parole dei protagonisti rappresenta quello sguardo che fin dal principio è la chiave prorompente del suo cinema. Riempire l’immagine lasciando spazio ai non detti ben più stracolmi di significato rispetto a qualsiasi dialogo, che racchiudono alla perfezione il senso del cinema di Chazelle, maturo fin dalla sua prima apparizione.
Il “tempo” crudele di Whiplash
Così Andrew, nel film Whiplash, sale su di un palco di cui Terence gli aveva detto di non essere all’altezza. Un film nato dagli anni di studio alla Princeton High School, dall’incontro-scontro con un insegnante intransigente da cui il regista ha tratto ispirazione per descrivere la figura sadica e indisponente del personaggio di JK Simmons, premio Oscar per la sua performance.
Urla, insulti, grida: una classe piena di giovani musicisti soggiogata dalla tirannia e la rabbia di quel suo insegnante. “Not my tempo”, ripete Fletcher mentre sfida costantemente il talento e la sopportazione del giovane Neiman. Un perpetuo duello con questo febbricitante musicista, che Chazelle costruisce su quello che, prima ancora del cinema, era stato un suo obiettivo, la meta verso cui voleva dirigere il proprio futuro.
Una sfida ininterrotta da parte del maestro (Fletcher, appunto) che lancia sedie contro gli alunni, li terrorizza invocando sproloqui che ne frantumano la dignità e la sicurezza, intaccando la loro sanità mentale, portandoli a tragiche conseguenze. “Se ti permetti di sabotare il mio lavoro io ti sgozzo come un maiale”. Un professore paragonato al sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket, trovando delle analogie anche tra i suoi cadetti e quelli considerati tali dal direttore d’orchestra.
I traumi del cinema, il sogno degli Oscar
Andrew è la versione estremizzata e romanzata dello stesso Chazelle, classe ’85, figlio di professori universitari, a sua volta ex batterista jazz che ha tentato la strada della musica, abbandonandola nella sostanza, ma tenendola al proprio fianco e rendendola sempre protagonista delle sue opere.
A cominciare dal suo primo cortometraggio, in cui da giovanissimo cinefilo riesce a coinvolgere due produttori come Jason Blum e Jason Reitman per approdare al suo passaggio nel 2013 al Sundance Film Festival, fino all’anno successivo con il lungometraggio che tutti conosciamo. Una parentesi umana trasformata per lo schermo e resa materia dei sogni e dei traumi del cineasta, proiettato col suo film seguente verso l’Oscar, in un’altra delle sue fantasie.
“Odiavo i musical”
È quindi Mia nel finale di La La Land a salutare con un sorriso a mezza bocca Sebastian, lui diventato proprietario del jazz club che tanto aveva agognato, mentre lei ha abbracciato il successo da attrice a cui non ha voluto rinunciare. Un altro versante musicale nella vita di Chazelle, la sua passione per i musical, che si respira fin da quella apertura espansiva e calorosa che invita il pubblico stesso a saltare sulle poltrone e a ballare. “It’ another day of sun!”. Una sfilza di omaggi di cui l’autore non fa mistero. La dualità dei film di Ginger Rogers e Fred Astaire. L’ensemble danzante di Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata. Poi le luci e i colori di Cenerentola a Parigi, di Un americano a Parigi. E, più di tutti, l’autorialità europea di Les Parapluies de Cherbourg.
“Da ragazzo odiavo i musical”, ha ammesso Damien. “Poi quando ho visto il film di Jacques Demy è cambiato tutto”. Il considerare demenziale il mondo della musica inserita in un contesto immaginifico, recitato e cantato, di cui è finito per diventare il massimo esponente. Incastonato nel mito, e non solo per quell’epico errore alla notte degli Oscar del 2017, in cui la busta sbagliata lo decretava vincitore come Miglior film, premio poi andato a Moonlight.
Damien Chazelle, regista da La La Land a Babylon
È uno scambio invece familiare, quasi stanco e rassegnato seppur pieno di tenerezza, quello dell’osservarsi divisi da un vetro dei coniugi Armstrong in First Man. Un voler salire su di un razzo e raccontare non la vicenda di un astronauta, ma quella di un uomo. Di un padre che ha subito un lutto, di un genitore che non ha più una figlia. Chazelle vuole dimostrare di essere cresciuto, di saper variare tra i generi, di essere un po’ quell’erede di uno Steven Spielberg che First Man lo ha prodotto, mentre era poi lui a confidare al giovane collega i timori nel portare al cinema un remake come West Side Story.
Due leggende hollywoodiane, la vecchia e la nuova guardia, che si affiancano come la contemporaneità che entra in collisione nella chiusura estasiante di Babylon. Un film con cui Damien Chazelle ha voluto distruggere volontariamente l’establishment dell’industria cinematografica. Voleva le critiche, voleva anche il disprezzo. “Era inutile che mi chiedessero dei compromessi, perché non li avrei accettati”.
Così a Chazelle è concesso di far defecare un elefante in piena faccia ai suoi personaggi – e agli spettatori, vista l’inquadratura della sequenza. Di elencare tutti i tipi possibili di droga si possano contenere nel magazzino di un magnate cinematografico. Di mostrare corpi, sesso, capezzoli e scabrosità. Come quell’orgiastica festa iniziale. Piena dei sogni più peccaminosi di Hollywood. Una conclusione in cui l’intera storia del cinema si manifesta di fronte al Manny protagonista, mentre il fascio di luce del proiettore riproduce quelle persone che avevano fatto parte del suo passato, diventati per l’occasione fantasmi e ombre nel classico Cantando sotto la pioggia.
La corsa alla luna (del cinema) di Damien Chazelle
È un ritorno al guardarsi quello di Damien Chazelle, che diventa a tutti gli effetti il disvelamento dietro alla costruzione delle sue messinscene, il rivelarsi dei sentimenti, dei desideri e dei tormenti dei suoi personaggi. È il raggiungimento del vero scopo del regista e sceneggiatore, donare ai suoi protagonisti i sogni che hanno perseguito con ardore, liberarli dai pesi che li hanno schiacciati e permettere di confrontarsi faccia a faccia – occhi a occhi – con ciò a cui hanno aspirato. A volte conquistandolo, a volte perdendolo. E, nello smascherare i suoi personaggi con i loro film, Damien Chazelle fa lo stesso con sé. Si scopre, si manifesta.
Si mostra come amante della musica, la quale nutre l’amicizia e la collaborazione col suo fidato (e straordinario) compositore Justin Hurwitz. Si confessa amante dei musical, sapendone architettare un’impeccabile confezione contemporanea. Spera di arrivare sulla luna, quella metaforica, ma comunque luminosa dell’olimpo del cinema. E dimostra il suo amore smodato per la Babilonia di Hollywood, qualunque questa sia, passata o vicina.
Lo sguardo di Damien
Mentre i protagonisti di Chazelle si scrutano tra loro, così il pubblico guarda all’autore, che ha insegnato agli spettatori a porre attenzione al suo sguardo cinematografico. Il medesimo con cui il regista ci osserva a propria volta, con cui ci sprona a immergerci nelle sue opere. Ci ha spiegato chi è, ci ha insegnato quali sono i punti cardine del suo cinema e ci ha invitato a utilizzarli per entrare nel suo universo fatto di storie dedicate “ai folli e ai sognatori”.
Conclusioni così intime, le quali arrivano tutte dopo il baccano con cui ci ha stordito un attimo prima. In cui si è presentato esuberante, straboccante, al massimo delle sue possibilità. Poi la calma, il silenzio, la presa di coscienza. I personaggi si guardano. Noi guardiamo loro. Damien Chazelle ci guarda. Noi guardano Damien Chazelle. Campo e controcampo.
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