Fela il mio dio vivente è un’opera, come spesso accade nella cinematografia di Daniele Vicari, spiazzante e seminale. Reduce dal bellissimo Orlando, con un straordinario Michele Placido, ora ci propone un film che gioca con la forma e i contenuti classici della forma lungometraggio e del genere, del concetto stesso di cinema, per poter andare oltre e altrove. Come se, nella finzione come nel documentario (che non di rado si innestano l’uno sull’altro) questo cineasta fosse alla costante ricerca di una nuova concezione di immagine, di arte, di visione.
Ecco che allora il materiale di Michele Avantario, dj e videoartista e discepolo, di fatto, di Fela Kuti, diventa un modo per riflettere su un umanissimo concetto di divino (e viceversa), su c0s’è la narrazione, sulla definizione di punto di vista.
Un viaggio memorabile e affascinante, dentro e fuori da sé, soprattutto per un occidentale del cosiddetto primo mondo, che in sala arriverà nel 2024 e che qui alla Festa del Cinema di Roma abbiamo apprezzato nella sezione Freestyle.
Michele Avantario e Fela Kuti, nel suo film sembrano i protagonisti di un romanzo picaresco. Mai avuta la tentazione di farne un film di finzione?
No perché, ti faccio un esempio, le immagini che ha girato Michele del suo amico francese che lo va a prendere quando arriva a Lagos e poi lo porta in giro, tratte da un VHS, così rovinate, sembrano quasi sognate, come fai a replicarle? Nessun film di finzione è in grado di raccontarti questo, che è anche
immaginazione, racconto esperienziale in soggettiva di una realtà che tu scopri giorno per giorno.
Ma capisco la domanda, perché credo che Michele abbia dato vita a un viaggio su un filo sottile tra realtà e immaginazione, in cui non sai dove inizi la storia di Avantario e finisca quella di Fela Kuti, di sicuro frutto di una spinta vitale verso il mondo, volerlo conoscere, diventarne parte. Un racconto di formazione.
Non capisci mai quanto l’uno voglia essere l’altro. Ed è qualcosa di straniante e bellissimo.
Sì, per certi versi è vero, quello di Michele è il viaggio di un ragazzo che cresce all’ombra di questa figura guida, un dio in terra, e ne diventa un discepolo, a un certo punto si sente uno di loro, ricambiato. E Fela Kuti in qualche modo si riconosce in lui, tanto, so che sembra una contraddizione, un paradosso, da non permettergli di filmarlo trasformando così, inconsapevolmente, un videoartista, anche molto bravo, in un documentarista.
Fela vuole che Michele si fidi di ciò che vede e vive, solo il cinema del reale può permetterti questo tipo di riflessione filosofica, antropologica, sulle immagini e la loro apparenza al momento della riproduzione.
Come è venuto a conoscenza di questa storia?
Nel 2019 ho incontrato qua alla Festa del Cinema di Roma Renata Di Leone e Giovanni Capalbo. Lei è stata la moglie di Michele Avantario, Giovanni Capalbo è il suo attuale fidanzato e hanno creato una società di produzione che si chiama Fabrique Entertainment, mi hanno raccontato dell’esistenza di queste immagini, di un repertorio che, quando ho visto, mi ha colpito per il suo punto di vista.
Questo mi dava la possibilità di fare qualcosa che nei documentari, nei film musicali, è di solito impossibile. Di solito infatti sono apologetici, senza grandi sfumature, si basano sulle loro opere, i dischi, i successi, sono ritratti di vincenti anche quando se ne narrano le cadute. E se la morte sopravviene violenta o per uno stile di vita eccessivo, ne escono comunque come eroi tragici.
Qui no, la mediazione dello sguardo di Michele ci mostra Fela Kuti in un chiaro scuro umanissimo, non è una star e questa era una chance irrinunciabile per un regista.
Ne esce in effetti il ritratto di un Fela Kuti insospettabile. Un uomo spesso confuso con la sua icona e di non facile decifrabilità
È così, la sua vicenda pubblica incredibilmente forte ha viziato molte delle opere su di lui, di privato nelle sue biografie, per immagini e non, c’è poco. Quando Michele riesce a riprendere per un giorno intero il compleanno di Fela Kuti, ed è l’unico bianco ospitato in questo giorno, è un momento incredibile. Lui non c’è nell’inquadratura, perché riprende, ma lo “vediamo” negli sguardi amorevoli degli altri invitati che fanno dire a Michele che è uno di loro.
Quel giorno ti racconta molto di quel mondo: come si cucina la carne e uccide un animale, i piedi nudi che finiscono nel suo sangue; la marijuana usata come sistema codificato di comunicazione interpersonale e che rappresenta, attraverso un rito animistico, un collegamento tra il dio Fela e l’aldilà.
Pochi minuti che raccontano più di enciclopedie intere sull’antropologia. Capisci che opportunità sia stata per me lavorare su questo materiale?
I tre cardini del film e della ricerca di Michele sembrano antropologia, spiritualità e senso di comunità.
È così, ma è interessante partire dal presupposto che Michele non fosse un intellettuale e tantomeno un antropologo, noi usiamo questi filtri interpretativi ma per lui è vita vissuta. Questo fa sì che lui non abbia, neanche per un secondo, un approccio ideologico, e in questo supera anche il cinema terzomondista, che per riflesso pavloviano aveva comunque un connotato colonialista.
Lui vuole far parte di quel mondo, fortissimamente, non gli interessa osservarlo ma esservi dentro, non intende raccontare la loro lotta, che per lui è solo una parte della loro esistenza, ma partecipare al loro modo di stare al mondo. E sì, questo ha una valenza antropologica straordinaria, proprio perché indipendente dal cineasta stesso.
È anche un film sul cinema e sul suo enorme e a volte inconsapevole potere?
Per forza, quello di Michele è un diario, filmato e anche scritto, che racconta la propria lenta, progressiva immersione in un mondo che all’inizio
non è il suo e che però lo diventa. Ma è anche e forse soprattutto la storia di un’impresa cinematografica: lui ha tentato di fare un film di finzione su quello che lui diceva, non aveva nessuna intenzione di fare un documentario, che ha girato solo come forma di documentazione del suo percorso, un appunto per la sceneggiatura che stava scrivendo.
Ci consente di riflettere in presa diretta su cos’è un film e come nasce, cresce, su quando diventa tale e pure sull’impossibilità, a volte, che un’idea si realizzi cinematograficamente. La sua debacle, fragorosa, è un’opportunità incredibile oggi per capire cosa ci siamo persi.
Per certi versi il mondo di Michele Avantario e Fela Kuti sembra lontano anni luce dal nostro
Noi oggi viviamo chiusi in una stanza davanti a un computer o a un cellulare o a un televisore e non viaggiamo più perché il mondo è diventato un posto che non si può frequentare perché è pieno di guerre.
Quello di Michele invece è l’unico modo per fare la pace, farsi invadere dal mondo, non di invaderlo. Ed è questa la chiave di lettura che io ho tentato di dare. Michele è l’unico cineasta italiano, anche tra i grandi che si sono cimentati nel raccontare l’Africa in maniera eccellente, che non ha dentro di sé nessuna forma di colonialismo, nemmeno il riflesso. Anzi è quasi colonizzato, se vogliamo, si fa invadere da quella cultura.
L’unico modo per costruire la pace, secondo me, l’unico modo per rispondere all’ideologia della guerra. Dell’ideologia della guerra fa parte anche l’idea che io ti devo salvare perché comunque sto in una posizione di forza rispetto alla tua. Fela Kuti rovescia questa visione dicendo “non ci potete salvare, dobbiamo salvarci da soli” e accettando questa visione Michele diventa un agente della costruzione della pace, un emblema di convivenza tra popoli e della parità tra culture.
Scherzando, per lui, per loro, c’è solo una forma artistica più importante delle altre, l’afrobeat
Quella di Fela Kuti è una proposta politica che fa al mondo intero attraverso la musica. E la musica non ha barriere, supera tutti i confini nazionali e anche quelli psicologici, arrivando dritto alla tua coscienza. Per questo l’afrobeat è un genere immortale, come il jazz, è arte che si mescola con la vita, è una cultura che si innesta con le altre e Michele è stato testimone di questa possibilità che al momento possiamo dire di aver perso.
Un film come questo è fondamentale perché destruttura, distrugge l’ideologia della guerra in un momento storico in cui nessuno sembra metterla in discussione. Qui la curiosità vince sulla prevaricazione. Perché, semplicemente, è più bello scoprire che combattere.
Quanto del suo lavoro su L’Italia non è un paese povero di Joris Ivens per il suo Il mio paese – anche lì un film nasce su materiale preesistente di un altro cineasta – le è stato utile per Fela Kuti, il mio dio vivente?
Questo film è un passo avanti anche rispetto a Il mio paese: prendeva le mosse dal film di un grandissimo cineasta che ha raccontato la trasformazione dell’Italia da un paese contadino a un paese industriale, mentre quello di Michele è un passo in più in là, racconta il fatto che il progresso, così come lo intendiamo noi, distrugge le culture, tende a sottometterle.
Fela Kuti si ribella a questa sottomissione e ne ribalta il senso e Michele coglie questo ribaltamento rivoluzionario. Quindi il cinema diventa strumento di conoscenza e interpretazione e racconto, in tutta la sua complessità.
Un’ultima curiosità. Dopo aver visto il suo film vien voglia di rivalutare gli anni Ottanta. Anche lei la pensa così?
Io sono riuscito a fare questo film anche perché il montatore, Andrea Campajola, è un giovane musicista che ha su quegli anni una visione non ideologica e interessante. E sì, sono d’accordo, sono anni che abbiamo sottovalutato, addirittura vituperato, pensando fossero la cosa peggiore che ci poteva succedere nella vita, sbagliando clamorosamente, perché poi è andata molto peggio.
Essendo un film di montaggio il suo apporto è stato fondante e fondamentale e ha permesso anche a me di riscoprire quel decennio, ben più prezioso e articolato e interessante di quanto pensassimo mentre lo vivevamo, c’era tanta sperimentazione, musicale e cinematografica, lo stesso Michele ha lavorato ed era amico di Nam June Pajk, un genio totale.
E a livello di ideali, ricordiamo il movimento ambientalista, la protesta per i missili a Comiso, rivalutare quegli anni è anche un modo per capire meglio il presente.
Quindi non è un caso che Bob Marley e Fela Kuti abbiano avuto successo negli stessi anni?
No, non è un caso. Io a 16 anni sono venuto a vivere a Roma, nel 1984, è l’anno in cui Fela Kuti ha fatto il concerto a Roma rimasto nella storia. Ascoltavo già i Deep Purple, il rock, l’hard rock e anche Bob Marley. Mai avrei potuto pensare che esistesse un personaggio come Fela Kuti. Lo scopro anch’io in quegli anni lì, ma non lo capisco, non ne intuisco la dimensione rivoluzionaria che invece Avantario ha vissuto in prima persona.
Rivoluzionaria perché ci dice una cosa semplice: miliardi di persone non si riconoscono in una cultura che noi riteniamo irrinunciabile.
Rivoluzionaria perché Fela Kuti la distrugge frammento per frammento e con lei ogni idea colonialista, fino a minare l’efficacia e la centralità di qualcosa per noi essenziale, la democrazia, che smonta semanticamente e nel contenuto. La ribalta, appunto.
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