A 17 anni dall’uscita di Into the Wild, che ha segnato la sua carriera e che ha definito – forse anche per una sorta di effetto osmosi – la sua personalità, Emile Hirsch, oggi 38enne, non abbandona, per sua stessa ammissione, i panni dell’indimenticabile protagonista Chris McCandless.
Del giovane avventuriero e anticonformista, protagonista del film del 2007 diretto da Sean Penn, che gli valse gli onori della critica e un National Board of Review award, si porta dentro “l’idealismo, l’avere il cuore e le priorità al posto giusto” così come una certa visione radicale della vita, della professione di attore, e in generale di Hollywood.
Un rapporto di amore e odio, quest’ultimo, che ha visto per Hirsch, nel 2015, il culmine in senso negativo, quando l’attore fu protagonista di un increscioso episodio di aggressione nei confronti di una executive della Paramount. Gli costò una condanna di 15 giorni di carcere, una multa di 4750 dollari e 50 ore di lavori socialmente utili. Ma soprattutto l’ammissione di una tendenza alla dipendenza dalle droghe, in questo caso l’alcol.
Il californiano, che indossa una t-shirt verde decorata a motivi tropicali che gli dona un’aria da “ragazzo della porta accanto” (avrà ereditato anche questa dal film The Girl Next Door, di cui fu coprotagonista nel 2004?) è a Roma per la proiezione di Into the Wild, nell’ambito della rassegna “Il Cinema in Piazza” organizzata dall’associazione Piccolo Cinema America. Una realtà indipendente, ma piena di vitalità, che da diversi anni porta a Roma ospiti nazionali e internazionali, da Paolo Sorrentino a Oliver Stone.
Abbiamo incontrato Emile negli uffici della Sala Troisi, a Trastevere, quartier generale dell’Associazione dei ragazzi romani.
Emile, non è nuovo a Roma, ma lo è di questa realtà. Cosa ne pensa?
Pazzesca. C’è un bar aperto 24 ore su 24, così come la sala studio ai piani di sopra e un cinema davvero bellissimo e grande. È una sorta di paradiso per cinefili. Ed è una realtà indipendente.
D’altronde anche lei è un “indipendente”. Qual è, oggi, il suo rapporto con Hollywood?
Sento come se fossi sempre andato in cerca di progetti insoliti. Essere indipendente ti rende autonomo, con meno regole da seguire e una maggiore libertà creativa. Mi piace fare cose per cui assumermi grandi rischi. Una condizione che capita più spesso nel mondo indipendente.
Ma qual è il compromesso? C’è un momento in cui ha fatto certi film per rimanere, in qualche modo, nel giro?
Credo che, anche in termini di scelte, io sia una persona che ama tutti i generi di film. Mi piace l’azione, la commedia, il dramma. Per me non è necessariamente una questione di “oh, devo fare questa certa cosa per ottenere quella”. Conosco molti attori che non amano fare film d’azione. A me diverte, perché li guardo. E se è un genere che guardo, di solito mi diverto anche a farlo. Credo che il modo migliore per costruire la propria carriera sia quello di fare le cose che ti piacciono e basta. Se non ti piace, non farlo. Senza pensarci troppo. Quando si inizia a considerare la carriera e le scelte come in un grafico, quando si finisce a fare troppi calcoli, si dà l’impressione di essere ipocriti, fasulli. Magari sarai anche un buon attore con una fantastica carriera, ma molte delle tue scelte non saranno ispirate.
Qui a Roma ha avuto un’accoglienza molto calorosa, e – come dicevano all’inizio – non è nuovo alla città. Cosa le piace dell’Italia e di Roma?
Quando vengo in Italia resto a bocca aperta. Mi rendo conto quanto sia grande l’affetto della gente per alcuni dei film che ho girato, come Into the Wild. È davvero bello. Gli italiani hanno buon gusto, quindi non mi sorprende che apprezzino l’arte e la creatività (ride). E penso che sia davvero fantastico che Into the Wild sia diventato, come dire…ha una grande reputazione in Italia e in Europa.
Ha anche girato dei film a Roma, come Venuto al mondo di Sergio Castellitto.
Ho girato in Italia tre film diversi. (Oltre a Castellitto) anche America Night (Di Alessio della Valle, ndr) e State of Consciousness, che abbiamo girato a Bari. È incredibile il tipo di legame che ho con l’Italia. Credo di essere stato almeno dieci volte, come minimo. (Dell’Italia) mi piace il cibo, la gente, l’atmosfera, la storia e l’amore per tutto ciò che è diverso. Uno dei miei artisti preferiti è Leonardo da Vinci. È così bello venire in Italia e trovarsi nella sua terra: l’arte, la scienza e tutto il resto. Varrebbe la pena venirci anche solo per l’architettura.
Tornando a Into the Wild, sono passati quasi 20 anni, anche se sembra ieri. Quel film ha avuto un fortissimo impatto…
Una delle cose di Into the Wild che più mi fa sentire bene è che quando io e Sean (Penn) abbiamo fatto il film, sapevamo entrambi quale fosse il suo potenziale. Volevamo onorare la vita di Chris McCandless e realizzare qualcosa di cui entrambi saremmo stati orgogliosi. Credevamo con tutto il cuore in quello che stavamo facendo. Non si trattava di una situazione in cui l’1% di noi aveva dei dubbi. Quindi entrambi abbiamo dato il 100% . All’epoca ero molto giovane, avevo solo 21 anni quando ho girato quel film. Ora ne ho 38. È pazzesco che sia passato così tanto tempo. Ma credo che la cosa più soddisfacente sia che non mi sono mai guardato indietro con rimpianto: “Vorrei averci lavorato un po’ di più, avrei voluto spingere un po’ di più su questo, avrei preferito fare così”. Non l’ho mai pensato, perché so che in quel film ci abbiamo messo tutto.
Crede che sia stato uno dei film che ha iniziato a cambiare il punto di vista sull’ambiente?
È difficile attribuire il merito a un solo film. Quello che ho notato è che Into the Wild non è un film che il pubblico ha guardato 15 o 16 anni fa quando è uscito, e basta. È un film che la gente continua a cercare, lo vedono anche le generazioni più giovani. Sembra che tutti continuino a guardarlo. Negli Stati Uniti, ad esempio, lo proiettano nelle scuole. Nelle scuole superiori, durante le lezioni. Mi piace pensare che una delle ragioni per cui le nuove generazioni sono affascinate da questo film sia l’invito a vivere la vita seguendo i propri sogni. Anche se a volte possono essere “selvaggi”.
Ci parla dei suoi progetti futuri? Ha finito di girare Bau Artist of War, giusto?
E Inside Man, che uscirà l’11 agosto negli Stati Uniti.(Bau Artist of War) è un film sulla Seconda Guerra Mondiale ambientato in un campo di concentramento. Io interpreto Joseph Bau, che era un artista e che, quando era nei campi di concentramento, aiutava a falsificare i documenti d’identità per far uscire di nascosto le persone. Un film intenso. Sono entusiasta. Recentemente ho girato anche un altro film, Degenerate, che parla di poker e carte. Anche quello è stato molto divertente. Ma ho rischiato di diventare a mia volta dipendente dal poker. Ho pensato: “Il film è finito e io sto ancora giocando a carte. Oh mio Dio, devo smetterla”.
Ha avuto una carriera costellata da alti e bassi. Ci sono stati alcuni momenti della sua vita personale che l’hanno segnata. Si sente in dovere di dimostrare che è diventato “un bravo ragazzo”?
Credo che, in un certo senso, si tratti semplicemente di fare bene il proprio lavoro e di saper mettere cuore e priorità al posto giusto. Nessuno è perfetto. Nessuno può fare la cosa giusta in ogni momento della propria vita. Cerco di essere una brava persona e di vivere nel modo migliore possibile. Per me la vita è un viaggio molto lungo. Le cose che sono accadute in passato… posso scegliere se andare avanti ed essere positivo. Se nella vita vinci sempre, è un conto. Ma per me le lezioni più importanti si imparano in un altro modo: cosa fai quando ti trovi in difficoltà? Come reagisci? E credo che questo (la capacità di rialzarsi ndr) sia una qualità importante. Sai, molte volte guardo alcuni dei lavori che ho fatto e cerco di imparare qualcosa dai miei personaggi. Lo faccio per mettermi sulla strada giusta.
Quali personaggi?
Sicuramente McCandless, per il suo idealismo. Ma anche Danny Dietz, il Navy SEAL che ho interpretato in Lone Survivor. Un guerriero senza paura, che non si arrende. E se si lascia andare, poi si rialza.
Concludiamo con una domanda di stretta attualità. Si parla tanto di IA e del ruolo della tecnologia nel mondo di oggi. Cosa ne pensa? Pensa che sia una minaccia?
Personalmente, credo che l’IA troverà il suo posto nel mondo del software. Ma è come la realtà virtuale. Vi ricordate della realtà virtuale, di Mark Zuckerberg e del fatto che tutti avrebbero vissuto nel metaverso? La verità sulla realtà virtuale è che non prenderà mai piede. Forse un giorno mi sbaglierò, e questa intervista verrà mostrata come esempio di un errore fatale. Ma penso che la realtà sia già abbastanza interessante senza bisogno di vivere in una finta realtà inventata da un gruppo di imbranati. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, ho giocato un po’ con Chat GPT. Gli ho fatto qualche domanda. E dopo circa cinque o dieci domande, mi sono annoiato e non l’ho più aperto. Mai più. Non credo di essere interessato. Io non credo che l’intelligenza artificiale possa diventare un problema così grande per gli artisti. Quando si guarda l’arte, si vuole vedere l’arte. Non qualche finta schifezza robotica.
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