Questa intervista a Ferzan Ozpetek è pubblicata nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore. Ferzan Ozpetek è stato presente alla Festa del Cinema con Nuovo Olimpo.
Ferzan Ozpetek si sceglie un alter ego – chissà se come Michele Apicella, sarà duraturo o invece vivrà nello spazio di un film – ed è Enea Monte, giovane della Roma che si divideva tra l’impegno e la scoperta della libertà sessuale, fuori dal cinema gli scontri, dentro la sala incontri che cambiano una vita.
Nuovo Olimpo è la meglio gioventù del cineasta italo-turco, una madeleine appassionata su un amore eterno proprio perché è durato lo spazio del passaggio di una linea d’ombra, anzi di luce. Un amore che dal 1° novembre 2023 si farà guardare su Netflix e che ha Roma come nido, come luogo d’elezione. Roma, la città di cui Ferzan Ozpetek si innamorò subito. Perdutamente. E lo è ancora.
Perché Roma, da Istanbul?
Non lo so, un puro caso. Roma deve essere un magnete cosmico. Tutti arrivano e non sanno perché. Io stavo andando in America. Vengo da una famiglia benestante e persino nobile, ora ci si deve vergognare a dirlo, non capisco perché e non mi adeguo. Rivendico la mia storia, ci mancherebbe. Non c’è colpa né merito, nel luogo e nelle circostanze in cui nasci. Mio padre era un costruttore, poteva mantenermi. Lo fece per poco, quanto mi bastò.
Sono cresciuto in una famiglia di donne, che fortuna: mia nonna materna fumava sigarette con l’anello, si arrabbiava in francese, aveva abitato a Palazzo Reale. Un altro ramo della mia famiglia viveva a Venezia. Mio padre disse ‘l’Italia no’. Già vai a fare una cosa orribile, il cinema, un ridicolo circo, almeno vai in America. I miei fratelli erano andati a studiare lì ed erano ingegneri. Mio padre scriveva loro: vi prego, badate a lui, è disorientato e fragile.
Ma Roma come mai, dunque?
All’ultimo momento la possibilità degli Stati Uniti si chiuse. Pensai ‘va bene, pazienza, vado a vedere questa Caput Mundi’. Invece di Hollywood, Cinecittà. Sono arrivato nel ‘76. Sono andato a vivere da solo in via Flaminia. Poi ho avuto un incontro e sono arrivato in questo palazzo. Proprio questo, via Ostiense, dove ho vissuto fino a due mesi fa e dove conservo il mio studio. Lo sa che qui in casa mia l’antico proprietario aveva nascosto un ragazzo ebreo? In questo zoccolo segreto, guardi. Poi lo trovarono, il ragazzo. I fascisti lo presero, lo portarono via e il proprietario si impiccò per le scale. Una casa con gli affreschi, davanti ai mercati generali. Una casa con una storia incredibile.
Diceva che ha avuto un incontro.
Sì, Walter. Aveva dieci anni più di me, abbiamo vissuto insieme quasi vent’anni, nell’attico. L’ho perso tre anni fa. Ho ricominciato a fumare. È tutto nei miei film. Il terrazzo condominiale, quello de Le Fate ignoranti. C’era Rosalba, la portiera. La trans del piano di sotto, il via vai dei clienti. I mercati generali davanti, appunto. Ci si andava la mattina a fare colazione.
Una Roma che non esiste più. Era tutto aperto, tutti si incrociavano con tutti, ora è tutto chiuso, ora ci sono i gruppi, impermeabili gli uni agli altri. Sociali, etnici, di genere e di appartenenza. Tutti diffidano di tutti. La rete ci ha sottratto il contatto dei corpi. È tutto cambiato con Internet. Ti metti con uno di Brescia e poi ti lasci, non lo vedi mai. Ti chiudi, non c’è più lo spazio vivo. Le cose saranno perfette quando non ci sarà bisogno di definirle: dire questo è un locale gay, per esempio.
Dove viveva, a Istanbul?
In un magnifico quartiere residenziale, agli antipodi di questo. Era una metropoli, allora, Roma al confronto una città di provincia. Qui mi chiedevano se in Turchia ci fossero i cammelli, ordinavo il tè e mi dicevano che snob. Mio padre mi aveva trovato un lavoro come traduttore. L’ho rifiutato, mi vedevo perso, così mi ha tolto i soldi.
Mi sono iscritto alla Sapienza, Lettere e Filosofia, ho fatto sette esami il primo anno, ho lasciato quando me ne mancavano tre. Non ho mai finito l’università. Quando mi hanno dato le lauree honoris causa purtroppo mio padre non c’era più.
Il ‘76. Dunque, ricorda bene gli anni di piombo.
Certo, ogni cosa. Il rapimento Moro. È tutto in questo ultimo film, Nuovo Olimpo si intitola. Non ho mai raccontato altro che quello che ho vissuto. Qui ci sono due ragazzi che si incontrano al cinema. Con Walter è andata proprio così. Quando sono arrivato a Roma vedevo tre film al giorno. Ho fatto un anno di Accademia, la Silvio d’Amico, poi ho conosciuto Julian Beck che era venuto a scuola per un corso, e sono andato via con lui. Teatro di strada, Living Theatre. Ma, appunto, mi avevano tolto i soldi così per mantenermi ho fatto il corniciaio in piazza Cavour. Dipingevo solo per riempire le cornici, ma riuscivo a vendere i quadri.
Bianca Attolico, una grande collezionista, voleva farne una mostra. Ma io pensavo al cinema. Facevo interviste per un giornale turco, a tutti i registi chiedevo prendimi come assistente. Anche a Elio Petri, che è diventato come un padre per me. Mi ha aiutato tanto, ha preso Troisi, alla fine, per Scusate il ritardo. Un giorno sono entrato negli studi De Paolis e quando sono uscito, la sera, al buio, ho capito che non sarei mai stato felice se non lì.
Perché è rimasto a vivere nel quartiere Ostiense?
Non potevo andare via, era il mio posto. Un giorno ho conosciuto Simone, una domenica mattina a Trastevere, da Bibli – una bellissima libreria che ora non c’è più. Lui è di Palestrina. Aveva 30 anni, stiamo insieme da 23. Quando si è seduto davanti a me ho pensato: è la persona della vita. Difatti. Volevo restare in questo palazzo. Si era liberata una casa, sono sceso di tre piani. Altri vent’anni. Un giorno Piero Tosi, il grande costumista de Il Gattopardo, mentre passeggiavamo per il centro mi ha detto guarda, Caravaggio ha ucciso qui, poi è entrato in questo portone e si è nascosto.
Ho pensato io Roma non la conosco. Tutta queste storie, queste vite. Si sta facendo tardi, è venuto il momento. Così ho cercato e trovato casa in via dei Coronari. Mina, che è una delle mie più intime amiche, la sola che legge i miei libri e le mie sceneggiature prima di chiunque altro, quando ho trovato la nuova casa, mi ha detto: ‘È incredibile, Ferzan: le mie finestre, quando stavo a Roma, guardavano le tue’.
Così il centro storico ha avuto la meglio sul Gazometro.
Sì, da due mesi. Ho un certo smarrimento, perché tutto è cambiato insieme. Tilde Corsi, la mia produttrice da sempre, mi ha detto che sente il bisogno di una pausa, così ho firmato con un nuovo produttore, per i prossimi due film. Il mio sceneggiatore storico non c’è più. La casa di via Ostiense la stiamo lasciando poco a poco. Pensi che il Gazometro lo volevano abbattere, ne hanno fatto un monumento nazionale anche per i miei film. Quando ci passo davanti lo guardo nella sua rotonda maestosità e gli dico: ringraziami.
È cambiato tanto, in quarant’anni.
Tutto. Da ragazzo passeggiavo la sera fra piazza Navona, Campo de’ Fiori, era tutto un vivere nelle case degli altri, si portava il Mateus, quel vino con la bottiglia tonda. Dal Colosseo entravi e uscivi, era aperto, ti sedevi a parlare lì. Gli incontri li facevo al cinema. Sa quante volte? Quasi sempre: spero che questo mio film lo racconti con lo struggimento che ho nel ricordare.
I film visti a pezzi, c’era sempre qualcuno con cui scappare via. La cassiera complice. Alcuni capolavori, tutti interi, non li ho visti mai.
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