Filippo Timi è un grande attore. Di quelli che chiami uomo orchestra, perché sa far tutto – anche cantare, e meravigliosamente, d’altronde proprio a noi ha confessato il sogno di voler apparire a Mina – e non si risparmia mai. Anche per questo nella ventesima edizione de La valigia dell’attore a La Maddalena, gli è stato consegnato il premio Gian Maria Volonté per l’eccellenza artistica, uno splendido gozzo a vela latina ideato da Mario Bebbu e da qualche anno realizzato da Umberto Cervo. Perché cinema, teatro, tv, letteratura (sì, ha scritto anche dei bellissimi libri) sono un unico campo da gioco per chi può passare dalla raffinatezza di Marco Bellocchio, da uno dei Salvatores più cattivi al pop raffinato di Bar Lume o all’adattamento di un’elegante e vezzosa pièce francese. Sul palco de I Colmi e poi ai magazzini Ex Ilva si è aperto su una carriera che ha vissuto con l’entusiasmo dell’artista senza rete e mai con il calcolo del carrierista, del ragioniere di cachet e premi: se c’è da fare un comprimario ne Le otto montagne, in cui rede più che a un ruolo di protagonista, lui lo fa. Anche se i riflettori sono per altri. Lo incontriamo in uno dei rari momenti di riposo di un’altra stagione in cui sta vivendo (tante) esperienze straordinarie.
Sta lavorando con i fratelli D’Innocenzo su Dostoievskij, che esperienza è?
Allora, intanto non è che io possa dire molto più oltre al fatto il titolo sia Dostoevskij. Però una cosa posso dirla, mi è capitata un’occasione
bellissima, è come aver la sensazione di essere, di aver interpretato il Cristo della cappella Sistina; quei due sono dei geni, mentre ci lavori insieme senti fisicamente la sensazione di sfiorare il capolavoro. Sarò il protagonista, un detective geniale. Ricordo ancora il provino, per entrare ancora di più nella parte mi scrissi il monologo in vari foglietti che poi ho tagliuzzato e mi sono fatto nascondere in casa da un’amica. Per unire alla memoria e all’interpretazione la sensazione del ritrovamento, dello svelamento che deve provare chi indaga.
Nel frattempo sei stato anche un cardinale in Rapito per Marco Bellocchio. Dop0 aver fatto per lui il protagonista in Vincere e un ruolo irresistibile in Sangue del mio Sangue
Ma che ti devo dire di Marco, io mi auguro che ogni attore abbia la fortuna di lavorare con lui, certo devi avere una sensibilità acuta, particolare per farlo, non è necessario che tu lo capisca, se ci stai lavorando già vuol dire che hai qualcosa di speciale. Insomma sono un uomo fortunato, però per consolarti posso dirti anche che ho una vita di merda, sono pieno di fobie, sono un indeciso cronico, mezzo cieco e pure balbuziente (ride)! Prova a prenderti un gelato con me, se voglio la stracciatella per chiederla posso metterci un’ora.
Quindi l’attore deve soffrire per dare il meglio?
Ma stai scherzando, proprio no! Io adoro lavorare quando sono felice, sento dentro un’energia fertilissima. Poi a ridosso dei cinquanta forse ho trovato il modo anche di gioire del dolore, di capire che se la notte è buia le stelle non sono scomparse, è solo che quel giorno non le vedrai. Ho imparato che a volte basta aspettare: vale anche per noi attori. Non ti riesce una scena? Vuol dire che devi attendere che le stelle ricompaiano. In fondo io sono un balbuziente che fa teatro, ho dentro di me il senso profondo del superamento dei propri limiti. Ma poi fare l’attore è un lavoro, ha a che fare sì con il tuo privato, la tua anima, ma anche con l’applicazione, il lavoro quotidiano. Tu per esempio sostieni che io abbia una bella voce? Sono d’accordo con te, ma non sai che dietro ci sono 12 anni di canto armonico. Se so improvvisare non è per grazia ricevuta, ma perché per anni Giorgio Barberio Corsetti mi ha insegnato e “costretto” a farlo.
E l’inquietudine, lo scegliere sempre qualcosa di diverso invece da dove viene?
Dal fatto che mi annoio terribilmente e troppo in fretta e così se l’anno prima ho fatto Don Giovanni penso subito a come posso andare in opposizione, superare quell’esplosione di tecnica e allora interpreto l’anima, l’intimo di mia cugina disabile. Da uno spettacolo con 12 attori passo a uno in cui sono da solo in scena, faccio Mussolini dopo una Mrs. Fairytale in Favola, in cui sono una donna degli anni ’50. Dopo una saturazione di mascolinità tossica avevo il bisogno fisico di esplorare la femminilità dell’immediato dopoguerra. Era un po’ noia, un po’, diciamocelo, anche mania di grandezza. E il fatto che a me dei pennarelli Carioca piacevano e piacciono tutt’ora tutti i colori.
Era? Perché ora è diverso?
Un po’ sì. Ho 49 anni, mi spaventa chi va in monopattino e la vita e il lavoro qualche rassicurazione su chi sono e cosa valgo me l’hanno data e magari tendo a divertirmi di più e a mettermi meno in difficoltà, anche se rimango uno che ripudia radicalmente la comfort zone. Ma sono diventato genitore dei miei genitori, sono cambiate tante cose, ho pure divorziato. I’m a single lady!
Prima volevo dimostrare tutto, ora voglio provare tutto.
Torniamo ai D’Innocenzo. Non avevo registrato un’informazione: davvero le hanno fatto un provino?
Ma io sempre faccio il provino. A me piace. Non arrivo a chiedere di farlo, non sono così autolesionista. Attenzione, una volta l’ho fatto, con Gabriele Salvatores per Come Dio Comanda, che mi aveva scritturato senza provinarmi e io gli dissi di farlo lo stesso, era un ruolo troppo delicato per tralasciare qualsiasi dettaglio. Perché quello è un momento in cui non sei solo tu sotto esame, ma anche chi te lo fa, si deve capire in quei minuti o ore se si creerà l’alchimia necessaria a costruire insieme un’opera d’arte. E poi non sai quanti provini belli ho fatto in cui non mi hanno preso ma che sono stato felice di aver affrontato, perché mi hanno insegnato qualcosa o semplicemente ho dato prova di essere bravo. A volte poi ti guardano e scartano in quel caso, ma gli rimani impresso e ti scelgono per altro. Oppure proprio lì ti viene un’idea che verrà ripresa nel film o che svolta la tua performance: con Bellocchio, per Vincere, mi venne l’intuizione di interpretare Mussolini, nella scena, e anche il pubblico. Lo guardai con la coda dell’occhio e capii che la cosa l’aveva acceso. A volte è solo bello avere un’occasione per essere orgogliosi di se stessi. E poi io amo ogni possibilità che mi venga data per imparare una cosa che non so: ricordo quando ho doppiato il mammuth ne L’era glaciale. Doppiai per 9 ore. Ero stato perfetto. Torno il giorno dopo e il direttore del doppiaggio mi dice “sei stato bravo, ma dobbiamo rifare tutto, mancava il sorriso”. E aveva ragione, l’ho imparato nel lavoro e sulla vita, il sorriso, anche al telefono, in radio o in una sala di doppiaggio, si sente! Cambia tutta l’intonazione.
In autunno esce il suo quarto libro, dopo Tutt’al più muoio (scritto con Edoardo Albinati), E lasciamole cadere queste stelle e Peggio che diventare famoso. Si chiamerà Marilyn. Dica la verità, lo ha scritto per interpretare Marilyn Monroe al cinema
L’ho scritto perché Marilyn Monroe è Beyoncé che va con Obama. È una donna che si è innamorata ed è stata con due fratelli e che fratelli, John Fitzgerald e Bob Kennedy. C’è una poesia di Pasolini su Marilyn Monroe che ne coglie la grandezza e la fragilità, il mio è un libro su di lei come costante universale. Un trattato sul suo talento, sul suo carattere – è una che ha strappato un contratto, lo ha rescisso, perché la pagavano poco in un’epoca in cui gli attori erano schiavi e farlo ti costava la carriera -, sul falso mito della biondina, perché lei era una superdonna. È un romanzo. Mi sa che non sono stato chiarissimo, vero? Per questo i libri vanno letti!
Lei era un’attrice di talento che partiva da un corpo meraviglioso per andare oltre. Come lei?
Beh, sì, a volte rimango sconvolto anche io da quanto sono bello. Scherzi a parte, credo che sia fondamentale, almeno per me, usare nella recitazione ogni centimetro che ho a disposizione. Ma devi avere anche registi che accettino che tu apra ogni chakra, che tu non rimanga un pupazzo nelle loro mani. Per esempio Marco Bellocchio è uno di questi, uno che ha un controllo enorme su ciò che fa, ma al contempo ti lascia libertà. Penso al monologo al bar di Sangue del mio sangue ma anche alla prima scena di Vincere, in cui la provocazione contro Dio era sì estrema per gli anni che stavamo raccontando ma non per gli uomini che avevo davanti, attori di questo millennio. Capivo che le loro reazioni erano troppo deboli e allora ho cominciato a mettere dentro il monologo bestemmioni, insulti, tanto sapevo che poi lui e Francesca (Calvelli) avrebbero montato tutto. E lì li ho scossi, ho ottenuto quello che volevo, due mi si sono gettati addosso. Ho capito che funzionava quando Marco prima è rimasto disorientato, poi ha quasi esultato lanciandosi pure lui in un’imprecazione colorita. In ogni caso, non lo faccio consapevolmente, non pianifico l’uso del mio corpo, non lo studio, mi lascio andare all’istinto. Anzi no, una volta l’ho fatto, per l’uso delle mani in Favola.
Una volta ha detto che per lei, nel suo lavoro, è fondamentale la sensazione d’imbarazzo
È così, voglio, devo prendere coscienza che è imbarazzante recitare, per uscire dalla mia zona di conforto, devo credere che qualcosa sia finto, sentire che lo è, per poi provocare in me e per gli altri qualcosa di vero. Le emozioni devono essere sincere, altrimenti te ne accorgi. L’imbarazzo, diciamo, è la mia spia di verità.
Non mi risulta che lei abbia avuto alcun imbarazzo in Vincere nel confessare a Bellocchio un dettaglio intimo per girare una scena in più, però
No, hai ragione. Avevo finito il film, con tanto di applauso sul set (tradizione in ogni film, in ogni angolo del mondo: quando un attore finisce di girare la sua ultima scena, qualcuno lo urla e tutti applaudono – ndr). Marco mi aveva detto che ero stato bravissimo e non era necessario girare l’ultima scena, che non l’avremmo fatta. Te la ricordi, vero, è bellissima. Io annuisco, vado in camerino. E mi rapo a zero, vado al trucco e mi rubo una sostanza per colorare i denti, non vado in bagno per riempirmi la vescica il più possibile (perché quando muori perdi il controllo delle tue funzioni corporali, e il protagonista di Vincere…- ndr). Mi preparo tutta la scena che mi è stato detto non si farà. Poi in pausa pranzo mi avvicino a Marco (Bellocchio) e gli dico, a bruciapelo, mentre mangia “è tutta la mattina che non piscio”. Dovevo pisciare in scena. “C’ho un litro di piscio Marco, non me lo far sprecare. Tanto è un solo ciak, non è che posso pisciarmi sotto due volte”. Lui di fronte a un ragionamento così cartesiano si arrende. Non è che fosse una cosa facile, dovevo tipo recitare un monologo di Hitler in tedesco nella parte di un ragazzo che muore per marasma, una fine terribile figlia di una debilitazione totale, cerchi di strapparti la faccia negli ultimi momenti.
Ma non potevo non fare quella scena, quando mi ricapitava un ruolo così e con Bellocchio? Non potevo mollare, non potevo lasciare nulla d’intentato. Quel fiume nero aveva bisogno di sfociare in quella scena.
Questo è il segno di quanto lei sia autore, di quanto si prenda enormi rischi per il bene di un’opera
Adesso sono convinto che me li debba prendere perché mi pagano tanto. Insomma, non tanto come si potrebbe immaginare e vorrei ma abbastanza perché io mi assuma delle responsabilità. Non puoi accontentarti solo che la scena funzioni, devi fare la differenza, devi fare in modo che diventi qualcosa di prezioso quello che stai facendo. È come fare l’amore, non ti può soddisfare essere tecnicamente perfetto, deve essere pazzesco.
Guardando la sua pagina Wikipedia e la nostra intervista video si rimane sconvolti da una cosa. Non ha mai vinto un David.
I premi non valgono un cazzo se non li vinci. Se li vinci sono una figata. E poi io ho vinto il premio Volonté, chi se ne frega del resto. Scherzi a parte, i riconoscimenti fanno piacere ma non dimostrano nulla. Per dire, sai qual è una delle figure più importante per la riuscita di un film? Chi cura il casting. Ti risulta che sia una categoria premiata ai David di Donatello?
Una delle sue performance più belle è In memoria di me. Ha un monologo su Cristo e il vangelo che farebbe convertire anche il più ostinato anticlericale. Un miracolo di misura, di pause, di soavità di recitazione e pensiero
Là ci sono tante cose insieme. La mia voglia di mettermi alla prova con qualcosa molto lontano da me, il talento e l’ambizione intellettuale di Saverio Costanzo, il fatto che al cinema ci sono arrivato dopo i 30 anni e questo mi ha consentito sicuramente di avere una consapevolezza più matura dei miei mezzi. E anche il saper approfittare del caso, perché se lo rivedo oggi riconosco l’intensità di alcuni sguardi e gesti ma anche una pausa, bellissima, a metà, che dipende solo dal mio balbettamento. Ma lì l’ho capito e invece di fermarmi, l’ho cavalcata. Lì ho fatto la differenza, cogliendo quel momento fortunato.
A 49 anni ha capito chi è un attore?
Uno che ha imparato a leggere la vita. O che almeno ci prova.
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